Non era facile e non era scontato riuscire a riempire piazze grandi e impegnative, come piazza della Repubblica e piazza del Popolo, i due luoghi dove è iniziata e dove è finita la manifestazione Fight/Right del 16 dicembre. Decine di migliaia di persone hanno sfilato in corteo, molte provenienti da lontano, organizzate con ferie, permessi, cambi, sostituzioni e subito in pullman per raggiungere i luoghi di lavoro e di residenza lasciati in fretta. Non era neanche facile definirla e inquadrarla la manifestazione. Non solo un corteo antirazzista, non solo un corteo di immigrati stranieri, non solo un corteo di lavoratori e lavoratrici, non solo un corteo orientato sul tema dell’accoglienza: forse tutte queste cose insieme e molto altro ancora.
Di certo, il colpo d’occhio fin dalla partenza è notevole: la piazza è piena, nonostante i controlli della polizia ai caselli che hanno fatto ritardare parecchi autobus e le intimidazioni allarmiste dei giorni precedenti. Il corteo i snoda in una forma originale, gli spezzoni sono molto vicini tra loro, non ci sono come in tante analoghe manifestazioni quelli composti solo da italiani o solo da stranieri o solo da singole comunità straniere. Il tema ricompositivo dei diritti sociali e della loro universalità sembra aver permesso il superamento di quelle divisioni: la casa, il lavoro sicuro e pagato dignitosamente, l’accesso alla sanità e alla scuola, la necessità di lottare contro il circuito clientelare, assistenziale e inefficace dell’accoglienza, la cittadinanza sono alcune delle questioni che emergono con più forza. E non si tratta solo di questioni evocate, ma concretamente messe in pratica giorno per giorno, perché in piazza ci sono i facchini e gli operai della logistica impegnati in vertenze durissime e spesso vittoriose, i movimenti di lotta per il diritto all’abitare, i lavoratori dell’agricoltura organizzati, i richiedenti asilo protagonisti delle proteste come quelle di Cona, solo per citare qualche esempio.
Le mobilitazioni nazionali legate all’immigrazione hanno ormai in Italia una lunga storia e hanno avuto nel corso del tempo la capacità di incidere direttamente sugli equilibri politici e le scelte legislative, anche nei periodi apparentemente meno favorevoli. Quella del 7 ottobre 1989, all’indomani dell’omicidio di Jerry Masslo, aprì una pagina nuova nella storia d’Italia, facendo conoscere a tutti la realtà già stratificata e radicata dell’immigrazione, in un paese che ancora non riconosceva il diritto di asilo, se non per coloro che arrivavano dall’Europa dell’est. E infatti a Masslo, sudafricano e militante contro l’apartheid nel suo paese, non era stato concesso il diritto di asilo. Le successive iniziative che a ogni regolarizzazione e a ogni nuova legge nazionale (i decreti Dini nel 1995, la Turco-Napolitano nel 1998) riuscivano ad allargare le maglie strettissime delle regole per la permanenza e il soggiorno, dimostravano quanto fosse importante e utile la mobilitazione. La manifestazione del 19 gennaio 2002 contro la legge Bossi-Fini rivelò quanto fosse diffusa e capillare la solidarietà con il mondo dell’immigrazione, ma rappresentò in qualche modo la chiusura di una stagione, perché così tante persone (centinaia di migliaia) non si riuscirono più a mettere insieme e perché quell’antirazzismo di massa che per tutti gli anni Novanta aveva rappresentato un’anomalia positiva e incisiva nella realtà italiana non riusciva più a determinare risultati concreti, e infatti la legge passò senza problemi.
Oggi il quadro politico e sociale è totalmente diverso. L’egemonia culturale del razzismo ha iniziato a dominare il dibattito pubblico e provvedimenti apertamente discriminatori come il decreto Minniti-Orlando riescono a essere approvati quasi senza alcuna protesta. Le grandi organizzazioni sociali che direttamente o indirettamente sostenevano quelle battaglie hanno scelto posizioni dimesse e prudenti, quando non apertamente complici, come nel caso delle Ong che hanno deciso di partecipare alla repressione dei migranti che transitano dalla Libia. Troppe, inoltre, le speranze riposte nell’approvazione della nuova legge sulla cittadinanza, importante e sacrosanta ma che da sola non può certo invertire una tendenza così negativa. Proprio per questo l’impatto di una iniziativa come quella del 16 dicembre è molto forte. La grande partecipazione al corteo è un segnale che non si muove solo in controtendenza alle politiche razziste e securitarie dominanti. Rappresenta anche un’alternativa concreta a quel paradigma vittimario e pietistico che a tratti sembra essere l’unica opposizione al discorso razzista. Gli organizzatori del corteo lo avevano scritto esplicitamente nel testo scelto per convocare l’iniziativa: “Basta parlare di noi, su di noi, contro di noi, o al posto nostro. Basta fare affari sulla nostra pelle, basta guadagnare voti sulla scelta di accoglierci o di cacciarci. Non abbiamo bisogno di retorica interessata, abbiamo bisogno di fatti. Il razzismo, lo sfruttamento sociale e lavorativo che viviamo concretamente non è possibile batterlo con la carità né speculando sulle nostre vite.Il razzismo si sta diffondendo proprio tra chi sta più in difficoltà, tra le persone più povere. Il cambiamento che vogliamo non può riguardare solo la nostra condizione ma anche quella di quanti soffrono uno stato di ingiustizia e di privazione”.
L’appiattimento del dibattito sull’immigrazione esclusivamente sulla vicenda dell’arrivo via mare e dell’accoglienza ha prodotto semplificazioni e strumentalizzazioni nei più diversi contesti sociali e culturali. L’immigrazione oggi è un fenomeno che si presenta ancora più che in passato come plurale e variegato e questa articolazione era decisamente presente nel corteo, composto da persone arrivate in Italia da pochi mesi e da persone che hanno ottenuto la cittadinanza dopo anni di residenza, dalle cosiddette seconde generazioni, da lavoratori e lavoratrici che neanche si definiscono e si presentano come immigrati ma come operai, braccianti, disoccupati, licenziati. Differenze di genere e di generazione, di provenienza e di collocazione professionale, di aspettative e di progetti: un arcipelago che ha in comune la necessità di affrancarsi da scelte politiche che rendono sempre più precarie le vite quotidiane e tendono a utilizzare gli immigrati come “target” per soffiare sul fuoco delle tensioni sociali. Sarà una strada difficile e impegnativa ma da sabato sappiamo che non è un percorso isolato. (michele colucci)
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