Bruno Cava è docente dei corsi liberi di cinema e di filosofia che ogni anno raccolgono centinaia di persone presso istituzioni quali il Museu da República, la Cinemateca Museu de Arte Moderna e la Casa de Rui Barbosa, a Rio de Janeiro. Partecipa alla rete Universidade Nômade da più di dieci anni, producendo co-ricerca su movimenti sociali e lotte urbane. È editore della rivista Lugar Comum e pubblica in vari siti e blog, tra i quali Open Democracy, The Guardian, Le Monde Diplomatique, Al Jazeera, e su riviste come le francesi Multitudes e Chimère e la nordamericana South Atlantic Quarterly. Laureato in ingegneria e in filosofia del diritto, ha scritto vari libri, tra cui: A multidão foi ao deserto (São Paulo, Annablume, 2013). Nel 2017 ha lanciato insieme ad Alexandre Mendes il libro A constituição do comum (Rio de Janeiro, Revan). Lo abbiamo raggiunto via mail dopo il risultato del ballottaggio per le elezioni in Brasile, per comprendere più accuratamente le origini della vittoria del candidato dell’estrema destra.
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Con l’elezione di Jair Bolsonaro, quel che con grande approssimazione viene definito il nuovo ciclo politico reazionario globale, in Brasile assume contorni drammatici. Così come per altri contesti, la sua elezione segna la crisi di egemonia della governamentalità neoliberale e la disposizione a dosi misurate di “guerra civile”? Se così è, considerando che la realtà brasiliana già si distingue per un’intensità pronunciata della violenza e del biopotere, quali forme potrà assumere tale esito? Cosa aspettarsi da un governo Bolsonaro?
La crisi del 2008-09 al Nord è stata letta come un’opportunità per il Sud globale. Gli Stati Uniti e l’Europa occidentale hanno adottato una politica monetaria espansiva, che i governi di Russia, Cina e Brasile hanno interpretato come una chance per investire nell’industrializzazione, stimolare la produzione e l’occupazione. Dilma è stata scelta per succedere a Lula perché rappresentava questo nuovo passo: la fase due del “lulismo”. Se la crisi della globalizzazione neoliberale veniva letta come divorzio tra capitalismo e democrazia liberale, in Brasile si pensava che ciò consentisse una “fuga in avanti”, lo sbocco verso uno stadio dirigista dello sviluppo. L’esperienza sviluppista però è stata un fiasco: una parte dell’investimento si è perso nell’inefficacia dei progetti e nella mancanza di pianificazione, l’altra parte è stata consumata dalla corruzione miliardaria che ha coinvolto il Partito dei Lavoratori (PT).
Nel 2015, dopo essere stata rieletta l’anno precedente, Dilma riconosceva la crisi terrificante che colpiva il paese e chiamava un banchiere della scuola di Chicago per gestire il ministero dell’economia e avviare un aggiustamento fiscale. Quando l’anno successivo le strade si sono riempite di milioni di manifestanti, il paese era in bancarotta, con sfrenati tassi di disoccupazione e indebitamento. Il governo Temer (2016-18) ha continuato la politica di aggiustamento che Dilma aveva fallito a causa della perdita di sostegno sociale e politico, attraverso alcune riforme, per quanto insufficienti e limitate. Oltre alla retorica incendiaria stile Trump, la prima sfida di Bolsonaro è affrontare la crisi fiscale dello stato e realizzare la riforma della previdenza e dei servizi pubblici senza aggravare le tensioni urbane, che sono già un orizzonte visibile in alcune metropoli. Il capo economista del presidente eletto è un guru neo-liberale che promette di rivoluzionare il sistema di protezione sociale del paese, unificando le imposte e i regimi pensionistici, arrivando a promettere anche un reddito di cittadinanza di importo pari o superiore alla bolsa familia, marchio di fabbrica del lulismo. In questo senso, Bolsonaro non tende a rappresentare l’arrivo di un nuovo tipo di fascismo, un’eccezione sovrana, ma la nuova modulazione di una normalità che è già socialmente fascista (biopotere). Il Brasile è un paese ultra-violento, con un tasso di omicidi superiore alla somma di tutti i paesi in Europa (inclusa la Russia) e degli Stati Uniti. La maggior parte della popolazione vive già in condizioni di paura e ricatti a causa di istanze violente che operano nella zona grigia tra il potere del crimine e il crimine del potere, siano essi narcotrafficanti, milizie parapolitiche o oligarchi mafiosi del territorio. Bolsonaro, oltre alla retorica trumpista, è inteso come un giustiziere i cui “eccessi e deliri” sono tollerati in nome della protezione militare di fronte a un male maggiore. Il rischio del fascismo, quindi, non sta in uno Stato Fascista, ma nella risonanza del nuovo presidente con la rete di micro-fascismi già in atto, in un fascismo che è soglia mobile e zona grigia.
I discorsi di odio, le allusioni a un’esplicita volontà di rottura con il regime democratico e con il rispetto dei diritti umani, le terribili dichiarazioni contro gli oppositori, i neri, i poveri, le donne e le LGBTQ, già hanno provocato una escalation di violenza e sono stati ampiamente riportati dalla stampa nazionale ed estera. Tuttavia è necessario comprendere le condizioni di possibilità delfenomeno Bolsonaro. Un certo consenso di sinistra vede nella sua affermazione l’apoteosi del cosiddetto golpismo che, dalle giornate di giugno del 2013, passando per l’impeachement del 2016 e l’arresto di Lula nel marzo di quest’anno, si sarebbe abbattuto sul paese. Al di là di questa teleologia conciliatoria e del paradosso di un golpe che si suggella per via elettorale, qual è una possibile genealogia del fenomeno?
Temer ha assunto il governo nell’ottobre 2016 con una trama di palazzo che ha fatto fuori gli alleati del PT e il cui obiettivo era offrire la testa di Dilma alla popolazione indignata, per placare le manifestazioni e ricomporre il patto di auto-immunizzazione della casta. Ma Bolsonaro assume la presidenza con il cinquantacinque per cento dei voti (un totale di cinquantotto milioni di voti), grazie a una campagna che ha superato il sostegno organico e prevedibile (circa il venti per cento). Paradossalmente, per la sua legione di sostenitori, il voto in lui è visto come un risveglio democratico e un rinnovamento della speranza. Questa contraddizione striderà presto e dovrà essere sfruttata. A settembre di quest’anno, l’indagine Datafolha ha mostrato che oltre il settanta per cento dei brasiliani crede nella democrazia come miglior regime di governo, tra coloro che hanno dichiarato di votare Bolsonaro essi sono il sessantaquattro per cento. La paura e l’autoritarismo sono radicati in un sistema corrotto e rinsecchito di cui il PT e Lula sarebbero i simboli maggiori. Questo vale per quattro regioni del paese ma non per il Nordest (il venticinque per cento della popolazione nazionale), dove il candidato di Lula ha sconfitto Bolsonaro e il PT è ancora considerato un partito anti-sistema. Tuttavia, le sinistre brasiliane tendono a vedere i bolsonaristi come manipolati da un Grande Altro, come se fossero intrappolati in un sistema di illusioni. Ma più importante della verità della credenza è la credenza come verità.
Nell’agire, il credente produce effetti e gli effetti sono reali. La fede nella democrazia è stata capace di mobilitare una folla che alle urne ha decretato la sconfitta del Partito dei Lavoratori, pur senza farsi illusioni sul fatto che Bolsonaro sia un democratico. In realtà, la guerra culturale tra sinistra e destra – continuata ininterrottamente dalla campagna per la rielezione di Dilma di quattro anni fa – si è svolta attraverso scontri sempre più violenti, e i più colpiti sono i gruppi più vulnerabili, le minoranze. Tuttavia, il fattore principale in termini quantitativi è la normalità della violenza, che viene quotidianamente esercitata dai cosiddetti “buoni cittadini” e da persone che non sono fascistoidi come Bolsonaro – e nulla in Brasile è paragonabile alle bande neonaziste come a Charlottesville (USA) nel 2017. Per non parlare della proibizione dell’aborto e della politica statale della “guerra alla droga” che sta distruggendo decine di migliaia di vite. La sconfitta della sinistra, che ha fatto sì che in Bolsonaro si condensasse un momento al contempo anti-politico, anti-corruzione e anti-sistemico, è legata all’incapacità di svincolarsi dal Partito dei Lavoratori e da Lula, che rappresentano per la maggioranza della popolazione il prototipo del vecchio politico e della corruzione. Mentre le destre si sforzavano di organizzarsi all’interno del movimento, andando incontro allo sciopero selvaggio dei camionisti – che ha comunicato fondamentalmente attraverso Whatsapp – e alle manifestazioni anti-corruzione, la sinistra gridava “Lula libero” e si esibiva in eventi autoreferenziali di discussione ideologica. La maggior parte delle persone, tuttavia, vive problemi concreti e non nutre alcun interesse per un dibattito astratto su ciò che è peggio, se il comunismo o il fascismo.
Qual è la composizione del voto per Bolsonaro? Come si è diffuso e su quali vettori è andato affermandosi? Cosa ha spinto una porzione maggioritaria della società brasiliana a desiderare tale opzione?
Le lotte del decennio 2010 in Brasile, hanno funzionato come una fisarmonica che si è estesa nelle due direzioni, producendo una sonorità complessa. È il decennio con le più grandi lotte di tutti i tempi, in particolare per le giornate di giugno 2013, il record di scioperi e le conseguenze sociali dello sciopero vittorioso dei camionisti del maggio 2018, che ha fermato le principali autostrade, il complesso petrolchimico e il più grande porto dell’America Latina, portando il paese quasi a un collasso logistico. Ed è il decennio che ha chiuso il ciclo dei governi progressisti, con l’impeachment di Dilma nel 2016, l’arresto di Lula e l’elezione di un politico di estrema destra che predica il politicamente scorretto ed elogia i torturatori della dittatura brasiliana del 1964. In questa elezione, la campagna del PT, che non perdeva un’elezione nazionale dal 1998, è stata identificata con il sistema. Si è basata su palchi tradizionali, tanta televisione e alleanze con i clientelari partiti di centro. Mentre la campagna di Bolsonaro si è basata principalmente sulle nuove tecnologie di rete, ha praticamente ignorato la televisione e il candidato ha parlato direttamente da casa, in home office. La candidatura di Bolsonaro ha capitalizzato l’indignazione accumulata durante tutto il decennio, che vede nel PT solo la riproduzione della casta e il lento degrado delle condizioni di vita nelle metropoli.
Per la prima volta, il lulismo ha perso l’egemonia sul voto dei più poveri e delle periferie, a eccezione, ancora una volta, della regione del Nordest. Nel resto del paese, ha avuto i voti di poveri e ricchi, abitanti di grandi metropoli e piccole città; si è concentrato più tra gli uomini, e tra le donne ha avuto almeno una percentuale di voto equivalente a quella del PT. È un fenomeno trasversale che dev’essere compreso meglio dal punto di vista demografico, perché non incontra paragoni nel recente passato del paese. La campagna di Bolsonaro è stata un’epidemia che ha contato sulla militanza del semplice cittadino, il quale si è mobilitato attraverso le reti sociali di lavoro, gli amici e la famiglia, in particolare con Whatsapp.
Quali responsabilità ha il PT nell’ascesa di Bolsonaro? Quali quelle della destra moderata?
La cosa principale per il PT non è affrontare il fascismo, ma garantire la propria sopravvivenza tra gli scandali, la crisi e il logoramento per le quattro elezioni consecutive, dal 2002 al 2014.Pertanto non ha giocato la carta della democrazia contro il fascismo se non all’ultimo momento, dopo aver bloccato le alternative di centro-sinistra che si sono presentate. Nel 2014 l’artiglieria pesante del PT, alimentata da miliardi in pubblicità, si è concentrata su Marina Silva, ambientalista ed ex militante che ha lasciato il PT nel 2008 dopo aver perso una lotta di potere interna con Dilma, scelta poi da Lula per la successione. In quel secondo round del 2014, eliminata la contendente, il PT ha potuto tranquillamente polarizzare la sfida con Aécio Neves, in una monotona rivalità tra le due principali forze ideologiche del (quasi) bipartitismo brasiliano, il PT e il PSDB. Nel 2018, l’alternativa era il candidato Ciro Gomes, che si proponeva di ristabilire un progetto di sviluppo nazionale progressista sulla scia del lulismo. Il PT ha bloccato le pretese di Ciro manovrando le alleanze nel Nordest e ha permesso a Lula, sebbene imprigionato, di essere il candidato fake e oscurare il protagonismo di Gomes, almeno fino all’ultimo secondo del calendario elettorale, quando il leader petista è stato sostituito da Fernando Haddad. Sia Marina che Ciro potevano contare su migliori condizioni per affrontare Bolsonaro, perché l’avversario non avrebbe potuto cavalcare l’onda anti-petista, né avrebbe usato la guerra culturale che da quattro anni veniva attizzata a scapito della sinistra.
La strategia di Lula è stata persino messa in discussione dai sostenitori della campagna. Per primo è stato Cid Gomes, fratello di Ciro Gomes, che ha accusato la posizione dogmatica e unilaterale dei petisti come un impedimento alla formazione di un ampio fronte democratico. Poi è stata la volta del cantante hip-hop Mano Brown, che dal palco del partito ha dichiarato che il più grande nemico era “la cecità e il fanatismo di entrambe le parti”, che i leader accusati di corruzione dovevano pagare per i loro errori, e che il PT aveva perso il contatto con la base sociale e doveva tornare alle origini. I due hanno sintetizzato, dentro e contro la campagna del partito nel secondo turno, un’autocritica che restava chiusa nella bocca della sinistra, continuamente rimandata per “non fare il gioco della destra”. Il centro-destra liberale, invece, ha tollerato Bolsonaro durante tutta la sua scalata, iniziata con l’omaggio alla tortura che, in quanto deputato, ha pronunciato nel voto per l’impeachment di Dilma. Questo campo non è stato in grado di presentare un outsider in stile Macron e ha offerto agli elettori logori politici della vecchia guardia, incapaci di competere con lo slancio populista di Bolsonaro. Non incontrando alternative di centro-sinistra o di centro-destra, l’elettorato ha capito che per togliere il PT dal potere avrebbe dovuto combattere un male con un altro male, fede contro fede, andando a un secondo turno tra i peggiori.
Come nell’elezione di Trump e nel referendum sul Brexit, anche durante le elezioni brasiliane è emerso con forza il tema delle fake news e di una presunta cospirazione globale alt-right, cioè la destra alternativa. Che influenza ha e come intendere tale fenomeno in Brasile?
L’alt-right in Brasile si è organizzata dopo il giugno 2013, quell’anno non era presente nelle strade in quanto forza organizzativa. Nel 2014 sono saliti alla ribalta tre movimenti: il Vem pra Rua, il Revoltados Online e il Movimento Brasil Livre – il cui acronimo (MBL) emula quello di uno dei principali collettivi che hanno organizzato le giornate di giugno, il Movimento Passe Livre (MPL). Moralista nei costumi, neoliberale in economia e fashion nell’estetica, l’alt-right si è caratterizzata per mezzo di una reazione debosciata e cinica alla sinistra, al PT e al politicamente corretto. Il problema è stato che parte della sinistra si è impegnata in una guerra culturale contro di essa che l’ha allontanata ancora di più dagli antagonismi reali. Inoltre, l’alt-right brasiliana si è alleata con la galassia delle chiese protestanti neo-pentecostali, che hanno fatto, queste sì, un lavoro di radicamento tra i più poveri, offrendo in molti territori dilaniati dalla violenza l’unica alternativa di solidarietà e sostegno reciproco. Tra le zone grigie del potere del crimine e del crimine del potere, la famiglia nucleare e una rigida morale sono divenute un’ancora di salvezza per un contingente crescente di brasiliani disillusi e disperati. Il fenomeno Bolsonaro è la convergenza delle guerre culturali vinte dall’alt-right, del “lulismo di destra” dell’ondata evangelica tra i poveri, e infine degli antagonismi reali che hanno scolpito la punta dell’ariete anti-sistemico.
Per quanto riguarda le fake news, il loro effetto è sovradimensionato nella narrativa della manipolazione di massa. Buona parte di esse funzionano secondo la logica del “non è vero ma ci credo”: la persona non considera principalmente il contenuto veritiero, ma il fatto che anche se non lo fosse potrebbe tranquillamente esserlo. Il contenuto del messaggio è la cosa più importante. Le fake news sono state usate in modo massiccio dalla campagna PT nel 2014 contro Marina e poi Aécio, attraverso la proliferazione di meme, post e tweet. Nel 2018 Whatsapp è stato il principale veicolo per la moltiplicazione delle notizie false; ma questa volta, senza la macchina del governo a suo favore, il PT ha finito col provare il proprio veleno ed è stato sconfitto in battaglia. Tuttavia, non è stato il fattore preponderante come non lo è stata alcuna articolazione globale con Trump. È vero che esiste una tendenza mondiale di ascesa di leader populisti, ideologi come Steve Bannon o Olavo de Carvalho, ma il suo funzionamento pratico è lungi dall’essere dimostrato. Tutto questo rappresenta la polvere del combattimento, ma il suo esito principale era già stato scritto sulla mappa di forze del lungo giugno.
Nella notte della democrazia che incombe sul Brasile come si potrà resistere alla necropolitica bolsonarista? Basteranno gli appelli all’unità di un fronte democratico popolare e costituzionale? Quali le condizioni per il rinnovamento delle lotte e dell’autonomia?
No. Le sinistre sono troppo unite, c’è troppa unità. Anche l’urgenza della lotta qui e ora e il primato della pratica stanno portando a sempre più “cecità e fanatismo”, per dirla con Mano Brown. Il processismo non funziona quando il processo ci sta portando a un’isteria reattiva, dove finiamo col reagire solo a sollecitazioni e riflessi condizionati. Se le fake news hanno una qualche efficacia è quella di produrre l’inefficacia, bombardando l’ambiente di stimoli e bit di informazione in modo da impedire qualsiasi strategia che non sia quella che viene dall’alto, dal partito o dallo stesso Lula, come è successo in questa elezione. Tra il 2013 e il 2018 c’è stata una sequenza di mobilitazioni senza precedenti nella storia delle lotte brasiliane, ma dinanzi al mostruoso, dinanzi a ciò che spaventa, le sinistre si sono mostrate eccessivamente presuntuose. È ora di perdersi un po’ e tornare a toccare il fondo del fiume. Nella catena di azioni e reazioni in cui sembra di essere intrappolati, deve essere introdotto un ritardo, una sorta di intervallo per respirare e ripensare. D’altra parte, un ampio fronte democratico tende a rafforzare il nostro vincolo con il sistema, portando a un estremismo di centro.
Se il passato recente insegna qualcosa, è che tra il buon senso di un centrismo responsabile e la confusione anti-sistemica, le maggioranze sociali percorreranno la seconda strada, palesando la propria indignazione. Né l’unità delle sinistre contro il fascismo, che nasconde lo stalinismo anti-dissidenza, né la frenesia generalizzata, che nasconde un consenso neutro e neutralizzato. Solo andando incontro al movimento, riconnettendosi alle lotte e alla società in movimento, è possibile rivitalizzare la teoria e la pratica. Basta col giungere davanti a ogni problema con una borsa piena di idee giuste, la politica ricomincia quando non c’è un’idea pronta, un’uscita attesa, uno strumento a portata di mano. È necessario avere un’idea. Non molte idee giuste, ma giusto un’idea. Assorbire l’impasse e ripensarsi nel mezzo dei grandi pericoli e delle minacce che ci circondano, nell’impazienza di un’accelerazione storica, è una vera sfida. I pericoli sono dati, compreso il pericolo del fascismo. Saremo in grado di vedere le brecce e le opportunità? In questo momento di sconfitta catastrofica, non avrei la pretesa di proporre nient’altro che questo. (intervista a cura di giuseppe orlandini)
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