Celia è la nuova produzione della regista napoletana Alessandra Cutolo andata in scena dal 14 al 18 ottobre nella Sala Assoli nell’ambito dei festeggiamenti per il trentennale della sala dei Quartieri Spagnoli di Napoli.
Si tratta di una piece breve (50’), fondata sull’intreccio di materiali drammaturgici di tipo diverso. In primo luogo c’è il testo, riduzione del romanzo giovanile di Samuel Beckett Murphy (1930), una trama di relazioni irriducibili e contraddittorie che legano tre soggetti ognuno a modo proprio borderline. Questo testo asciutto si mescola poi con una “drammaturgia” del reale tratta dall’inchiesta che l’autrice ha realizzato (in un paio di anni) sulla vita di una prostituta africana (Aisha) del centrale e gentrificato quartiere Monti di Roma, divenuta un documentario radiofonico dal titolo Fare la Vita, andato in onda nel giugno 2015 in un ciclo della trasmissione Tre Soldi di Rai Radio3.
I due registri si incrociano anche fisicamente attraverso il dialogo di voci originali fuori campo di Aisha e di alcuni suoi clienti, mentre Celia, la protagonista, è interpretata da un’eccellente Silvia Gallerano che diventa il tramite tra due soggetti marginali: suo marito (Marcello Fonte), rinchiuso in una autistica disabilità e il principe azzurro Murphy (Carmine Paternoster), riottoso all’idea di trovare una qualsivoglia attività lavorativa che consentirebbe a Celia di abbandonare il mestiere.
La scena è occupata da un trittico scenografico composto da un letto, un tavolino da lavoro dove Marcello Fonte suona il clarinetto adagiato su una sedia a rotelle, e l’angolo della strada dove Celia parla ai personaggi invisibili: Aisha e i suoi clienti. La vicenda della strada si intreccia con la storia intima dei personaggi che troverà conclusione in una drammatica separazione/suicidio proprio nel momento in cui tutto sembra aver trovato un senso, una prospettiva di resistenza.
Lo spettacolo articolato in più registri e finalmente – per una piccola produzione – non ristretto nei confini claustrofobici del monologo trova una sua coralità proprio grazie all’utilizzo delle voci che permettono agli spettatori di uscire dagli ambienti chiusi dove si trovano a vivere i personaggi, anche se si sarebbe potuto lavorare ulteriormente sulla qualità degli elementi sonori e sulla loro sincronia con la scena.
Silvia Gallerano, che recita usando una cadenza sudamericana decisamente appropriata, diventa in realtà lo specchio dei due personaggi presenti in scena e della protagonista invisibile, gestendo tempi, fobie e indecisioni dello spettacolo. L’uso del dialetto napoletano, la cadenza latinoamericana e il balbettio di un disabile collocano, per altro, il tempo del racconto in una sorta di luogo indefinito, in cui è possibile intrecciare parallelismi tra lavoro salariato e prostituzione, tra alienazione individuale e marginalità pubblica. Resta molto interessante il tentativo di tratteggiare protagonisti invisibili, presenze sonore che, però, necessiterebbero di una cornice ancor più definita, di un utilizzo più calibrato in grado di trasportare chi assiste nell’atmosfera rarefatta della rappresentazione. (-ma)
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