È la sera del 4 settembre del 2014. Nell’appartamento al primo piano di una delle palazzine tutte uguali di via Tertulliano, nel Rione Traiano di Napoli, due donne rimettono a posto la cucina. Hanno cenato con il nipote Arturo, che poi è uscito per incontrare gli amici. Una volta fuori, Arturo si assicura di aver lasciato il portoncino del palazzo socchiuso e mentre chiacchiera con i compagni sul marciapiede di fronte, ogni volta che qualcuno entra, gli chiede di lasciarlo aperto.
Mentre Arturo è con gli amici, Susy e Nunzia continuano a scambiarsi sms. Dopo aver mangiato, la prima esce di casa in motorino e raggiunge l’amica sul viale Traiano. Le ragazze decidono di andare a fare un giro.
Più o meno a quell’ora si incontrano anche Davide, Vincenzo e Salvatore. I tre hanno passato il pomeriggio nel rione, gironzolando tra la piazzetta, il pub e il parco di casa di Davide. Vincenzo ha ventidue anni e una bambina. Ha lavorato per qualche anno nel piccolo cantiere navale del padre, a Castelvolturno. Oggi è senza lavoro. Salvatore di anni ne ha diciotto. È nato a Soccavo, ma le sue giornate le passa nel rione, dove tutti lo chiamano Avatàr, storpiando l’accento al protagonista di un film di fantascienza. Davide è il più piccolo. Ha sedici anni, gioca bene a pallone e tifa per la Roma, cosa strana per un ragazzino napoletano. Ma quando era bambino il Napoli era in serie C e Totti era uno dei giocatori più forti del mondo. Il ragazzo ha talento, è la stella della squadra del quartiere messa in piedi da Pasquale Foggia, ex ala della Lazio, nato proprio da queste parti. L’altra sua passione sono le ragazze. È geloso e possessivo, Davide. Con le tante fidanzate, con la sorella e con le cugine. Prima di tutte, però, c’è Flora. «Sei la mia regina», sussurra all’orecchio della madre quando vuole farsi perdonare qualcosa, senza vergognarsi per le smancerie, mentre i fratelli più grandi lo prendono in giro.
Sono quasi le dieci quando a via Pietro Testi, dall’altra parte del rione, una Ford Focus forza un posto di blocco. Durante la fuga, uno dei due passeggeri getta dal finestrino una pistola. I carabinieri recuperano l’arma e vanno a consegnarla in caserma. Per tentare di rintracciare i fuggitivi, la pattuglia capitanata dal maresciallo Sarno chiede l’aiuto di quella denominata “Chiaia”, con a bordo gli appuntati Del Vecchio e Macchiarolo. Le due auto rimarranno in servizio nel rione per le ore successive.
Nunzia e Susy, intanto, sono a Fuorigrotta. Davanti a loro sfreccia un motorino con a bordo un giovane, inseguito da una volante. L’inseguimento, cominciato a pochi metri dalle loro case, finirà poco più avanti, quando l’SH attraverserà la zona pedonale di piazza Italia, impedendo all’auto del maresciallo Sarno di continuare l’operazione. Dopo circa un’ora, Nunzia e Susy rientrano nel rione, dove incontrano il loro amico Giovanni. I tre assistono a un nuovo inseguimento: c’è un’auto dei carabinieri e davanti ancora un SH scuro. A bordo, stavolta ci sono tre persone, che Giovanni riconosce subito. Sono le prime ore del 5 settembre.
Secondo le ricostruzioni dei carabinieri, alla guida del primo motorino – quello in fuga a Fuorigrotta – ci sarebbe stato Arturo Equabile, il giovane che aveva cenato a casa della zia e che chiedeva a tutti di lasciare il portone socchiuso. Mentre è in strada con gli amici, Arturo viene avvistato da una pattuglia. Il ragazzo prova a rifugiarsi nel palazzo e poi scappa a bordo di un motorino sopraggiunto nel frattempo, guidato da un suo amico, tale Tarantino, noto anche lui ai carabinieri. In un primo momento Sarno perde di vista i due, poi li rivede su due scooter diversi. Il maresciallo si lancia all’inseguimento del mezzo su cui crede ci sia Equabile, ma quest’ultimo sparisce tra i paletti di piazza Italia. Dopo mezzora i carabinieri incrociano un secondo SH nel Rione Traiano. Sopra ci sono tre persone e, seduto al centro, credono di riconoscere il fuggitivo. Su questo motorino, è vero, sono in tre. Ma né «al centro agli altri due», come sosterranno gli agenti, né in nessun’altra posizione, vi è o vi era mai stato Arturo Equabile.
Arturo è, tecnicamente, un latitante. Qualche mese prima si è fatto beccare in una sala giochi dai carabinieri, non rispettando gli arresti domiciliari cui era soggetto per aver partecipato con una sgangherata banda ad alcuni furti in casa. Da quel momento scappa, rimanendo in libertà nonostante i conti aperti con una dozzina di agenti. Dal canto loro, questi giurano che, in un modo o nell’altro, riusciranno a mettere le mani sul giovane ladruncolo.
Sotto casa della zia, Equabile viene notato dall’appuntato Del Vecchio. Il carabiniere lo conosce bene, perché il ragazzo gli è scappato più di una volta. Così chiama i rinforzi, ma mentre i militari accerchiano la palazzina, Equabile s’infila nell’appartamento accanto. «Apri Equabile!». «Bastardo apri, ti abbiamo visto!», si sente gridare. Ma Arturo non apre. Dalla finestra anzi si lancia in strada e scappa. Secondo le ricostruzioni dei carabinieri, in motorino. Secondo il suo racconto, a piedi. Durante la fuga, Arturo s’infilerà nel basso di una signora del rione, dove rimarrà nascosto fino alle due meno venti. Poi rientrerà a casa della nonna, uscendo di scena da questa storia.
I carabinieri sostengono di aver visto Equabile scappare in moto, prima assieme a Tarantino, poi da solo, fino a Fuorigrotta, e di aver creduto di rivederlo in giro per il rione a bordo dell’SH con altre due persone. «Ma se quella notte – dirà Equabile al pm Persico – mi fossi messo a girare su un motorino, quando sapevo che i carabinieri mi stavano cercando, sarei stato uno stupido. Stavo molto più tranquillo a casa di mia nonna». Alla signora del basso, di tutta questa storia, non è mai stato chiesto conto. Sul secondo motorino, in ogni caso, Equabile non c’è mai stato. Ci sono Vincenzo Ambrosio, Davide Bifolco e Salvatore “Avatàr” Triunfo.
Negli stessi momenti in cui i carabinieri cercano Equabile, i tre giovani decidono di fare un ultimo passaggio nella sala giochi. Davide però ha freddo e non ha voglia di continuare a gironzolare con addosso solo la t-shirt. Così fa un veloce ritorno a casa. Apre il portoncino, fa il solito salto per scendere i tre scalini che portano nel seminterrato dove vive la famiglia ed entra a prendere un giubbotto. Il cambio d’abito non sfugge ai carabinieri, i quali, nel frattempo, lo hanno scambiato per Equabile, e addirittura comunicheranno via radio: «Eccolo [Equabile, n.d.a.], ha cambiato, c’ha il giubbino addosso!».Comincia l’inseguimento. Sono le due e sette minuti.
Vincenzo, Salvatore e Davide, sentendosi braccati, scappano. «Questi sono armati!», urla Macchiarolo al collega Del Vecchio, credendo di vedere una pistola. Ma sul mezzo non ci sono armi, così come non esiste il “posto di blocco forzato dal motorino” di cui i giornali parleranno nei mesi successivi al fatto. C’è, piuttosto, un inseguimento e un “alt!” intimato, forse, a voce. Fatto sta che i carabinieri inseguono e i ragazzi scappano. Scappano perché l’SH di Salvatore ha l’assicurazione scaduta. Perché hanno paura di un sequestro e di una multa. Senza riflettere, scappano. Come dei ragazzini.
Una volta raggiunti i tre, la pattuglia stringe il motorino su viale Traiano. L’SH scavalca il cordolo che divide la carreggiata e nel tentativo di entrare in un parco privato attraversa per qualche metro l’altra corsia contromano. La volante segue la manovra, ma sorpassando il cordolo buca una gomma e tampona il motorino, facendo cadere i ragazzi. Al momento dell’impatto, nei pressi dell’incidente, ci sono otto persone. Ci sono Nunzia, Susy e Giovanni, che stanno chiacchierando per strada; ci sono i carabinieri Giosuè Del Vecchio e Giovanni Macchiarolo; ci sono i tre ragazzi sul motorino: Vincenzo, Davide e Salvatore. Arturo Equabile è a casa, o il diavolo sa dove.
Vincenzo, che guidava il motorino, riesce ad alzarsi e scappa verso il parco. Al suo inseguimento si lancia Del Vecchio, credendolo Equabile, sebbene fino a qualche secondo prima avesse confuso Davide, e non il suo compagno, con il latitante. Nei pressi della volante rimane Macchiarolo, con Salvatore e Davide, entrambi a terra. Sentito il rumore dell’incidente, alcune persone si incamminano verso il punto di collisione. Sono Nunzia, Susy e Giovanni. Subito dopo accorre un altro gruppetto di ragazzi che si trova all’interno di una sala giochi a pochi metri dall’incidente. I ragazzi, però, scappano immediatamente quando sentono il rumore del colpo di pistola sparato da Macchiarolo. Quel colpo ucciderà Davide, colpendolo al petto mentre prova a rialzarsi sulle ginocchia. Le discordanze tra le testimonianze diventano enormi.
Il carabiniere Macchiarolo afferma di aver fatto partire il colpo in maniera accidentale. Sostiene di essere inciampato sul marciapiede nel corso di una colluttazione con Salvatore, mentre cercava di immobilizzarlo e che la pistola non avesse la sicura fin dalla sua discesa dall’auto. La versione di Salvatore Triunfo è diversa. Il ragazzo afferma di non aver nemmeno provato a scappare, dal momento che «essendo mio il motorino sarebbe stato inutile, perché mi sarebbero comunque venuti a prendere a casa». Il ragazzo rimane a terra, e vede Davide che prova a rialzarsi sulle ginocchia. A quel punto vede Macchiarolo che punta la pistola verso il suo amico, sparando in un brevissimo lasso di tempo dopo essere sceso dalla vettura. Salvatore sostiene di non essere stato «né ammanettato, né bloccato» da Macchiarolo prima del colpo; di non averci parlato e di non aver avuto con lui alcun contatto fisico. È sicuro di aver visto il carabiniere puntare l’arma e sparare a diversi metri dal marciapiede, e che questi non vi sia in alcun modo caduto o inciampato. Dal racconto dei testimoni emergono altri particolari importanti: Nunzia afferma di aver visto il carabiniere con la pistola puntata sparare un colpo; Giovanni dice di aver visto il carabiniere sparare «tra la vettura e lo sportello», lontano dal marciapiede; Susy riferisce una frase pronunciata da Giovanni subito dopo l’incidente: «Giovanni ha detto qualcosa tipo: “Il carabiniere sta prendendo il bossolo”». Il bossolo del proiettile che ha ucciso Davide non è mai stato ritrovato, ma a Giovanni Festinese, di questa storia, non è mai stato chiesto conto.
Una volta perse le tracce di Vincenzo, dopo una pericolosa e inutile irruzione a mano armata nella sala giochi, Del Vecchio rientra sul posto. Trova Salvatore a terra, ammanettato, e Davide, sempre a terra, morto. Macchiarolo sta chiedendo l’arrivo di un’ambulanza, cosa che fa anche il maresciallo Sarno, giunto con la sua pattuglia. Nel frattempo la notizia di uno sparo della polizia si è diffusa e dalle palazzine del rione la gente comincia a scendere per strada. Tra i primi ad arrivare c’è Flora, la mamma di Davide. Flora non crede a quello che vede. Suo figlio è a terra, non si muove. Gli prende la testa tra le mani e trova la forza per dire, due volte: «Che gli avete fatto?». Poi sviene e viene portata qualche metro più distante.
L’ambulanza arriva dopo pochi minuti. A bordo ci sono la dottoressa Esposito, con gli infermieri Zullo e Sciarnè. Il corpo di Davide è a terra, senza vita. Non ci sono macchie di sangue, ma il ragazzo ha un visibile foro in petto. Il proiettile ha attraversato il torace all’altezza del cuore. Né Zullo né la Esposito ritengono di dover approfondire il motivo per il quale il giovane sia lì. Stando alle loro dichiarazioni, nessuno dialoga con la polizia. Nonostante lo stesso Zullo affermi che il ragazzo «non dava segni di vita di nessun tipo», nessuno dice di essersi accorto di avere davanti un ragazzo sparato. Addirittura, la dottoressa Esposito sostiene di aver pensato «si trattasse di un’overdose». Un’ipotesi che i carabinieri avrebbero potuto smentire seduta stante, ma nessuno ritiene opportuno fargli domande, né loro si preoccupano di dare indicazioni. Salvatore sostiene di aver visto, mentre era ammanettato, il medico riferire a un ragazzo che cercava di rinvenire Davide: «È inutile, per me è finito». Sono da poco passate le due e venti quando il personale dell’ambulanza rimuove il corpo, senza effettuare le verifiche per capire se Davide sia ancora in vita o se abbia trovato la morte in quello stesso luogo. Una condotta che impedisce le operazioni di sagomatura del cadavere e la recinzione dell’area. Nessuno tra il personale dell’ambulanza è stato indagato per il comportamento di quella notte, né ad alcuno di loro è stato mai chiesto conto di tutta questa storia.
Sono passate le quattro di mattina. Il corpo di Davide è arrivato da tempo, senza vita, all’ospedale San Paolo. Dopo la tensione seguita allo sparo, al Rione Traiano la situazione è più calma. La scena del delitto però è compromessa: non c’è tracciato e soprattutto non c’è bossolo, cosa che impedirà lo svolgimento di una perizia balistica affidabile. La folla si è diradata ma gli agenti rimangono a presidio dell’area. Altri si trattengono in perlustrazione. È in quel momento che compare una pistola, una K-Italy a salve, calibro otto, senza cartuccia. A rinvenirla è il maresciallo Sarno, in un’aiuola a pochi passi dalla rotonda. Potrebbe essere quella, si lascia trapelare, la pistola che Macchiarolo avrebbe intravisto nella mano di colui che credeva essere Equabile, a bordo del motorino. Qualche ora dopo, però, così com’era comparsa, la pistola sparisce. Nonostante la presenza di un’arma nei pressi del fatto potrebbe assumere importanza per le indagini, si ha l’impressione che debba essere dimenticata in fretta. Come un pasticcio, una leggerezza. Eppure, in quel momento, i risultati delle analisi per verificare se questa pistola sia stata a contatto con qualcuno dei tre ragazzi non sono ancora noti. Il responso negativo arriverà giorni dopo, ma dirà che sulla pistola delle altre impronte interessanti ci sono. Non appartengono a Davide, però, né a Salvatore o Vincenzo, ma a qualcun altro che l’ha maneggiata e ha toccato anche il motorino dei ragazzi. Qualcuno che, quindi, subito dopo l’uccisione di Davide era lì. Prima che chiunque possa approfondire il caso della misteriosa comparsa di una pistola a pochi metri dall’uccisione del ragazzo, però, arriva una dichiarazione del maresciallo Sarno: «L’arma, non immediatamente riconosciuta, veniva toccata istintivamente dallo scrivente». Se quelle impronte appartengono a Sarno, insomma, è solo perché lo stesso, improvvidamente, toccò l’arma senza prendere precauzioni. Su chi ce l’abbia portata, e perché, quella pistola lì, nessuno si farà mai altre domande.
Il 7 aprile 2015 il carabiniere Giovanni Macchiarolo viene rinviato a giudizio su richiesta del pm Manuela Persico. Il processo che imputa l’agente per l’omicidio colposo di Davide Bifolco inizia il 3 giugno con la modalità del rito abbreviato, su richiesta della difesa. Rito abbreviato vuol dire una decisione più veloce, ma anche un considerevole sconto (fino a un terzo) della pena. Vuol dire, soprattutto, una sentenza emessa esclusivamente sulla base delle indagini fatte dal pubblico ministero, senza possibilità di dibattimento. Si tratta di indagini che, però, lasciano molte perplessità: per come sono state gestite, per la genericità della perizia balistica, per il mancato ascolto di testimoni chiave, a cominciare da Giovanni Festinese, mai interrogato sulla sparizione del bossolo. La pena richiesta per il carabiniere è di tre anni e quattro mesi.
Il 23 luglio, in considerazione delle lacune di cui sopra, Fabio Anselmo, avvocato della parte civile, chiede al giudice Ludovica Mancini alcune integrazioni probatorie. Ciò che si contesta è in particolar modo l’inciampo di Macchiarolo, basandosi su alcune testimonianze (Salvatore Triunfo) ma anche su elementi tecnici, quali la sincronizzazione tra gli audio delle volanti dei carabinieri e un video della telecamera di sorveglianza della sala giochi, che evidenzia come il momento dello sparo non sia compatibile con la distanza che Macchiarolo dice di aver percorso per raggiungere l’auto e chiamare l’ambulanza con la ricetrasmittente della vettura. Il carabiniere, in sostanza, non avrebbe avuto il tempo di percorrere quello spazio in così poco tempo, se ha sparato dal punto in cui sostiene di essere inciampato, cosa che rimetterebbe in discussione il capo di accusa di omicidio colposo, aprendo le possibilità della trasformazione di quest’ultimo in volontario. Il giudice accoglie l’istanza. Nelle sedute successive ascolta nuovamente i carabinieri Sarno e Del Vecchio e il consulente balistico Baiano. Quest’ultimo specifica come il colpo si possa definire “non mirato” ma non per questo “accidentale”.
Le udienze sono lunghe e tese, accompagnate da affollati presidi all’esterno del tribunale, a cui partecipano familiari e amici di Davide, e un gruppo di attivisti che nel frattempo ha seguito la vicenda, costituendo un’associazione intitolata alla memoria del ragazzo. Il magistrato sembra essere orientato a chiedere delle ulteriori indagini che possano rimettere in discussione la volontarietà dell’omicidio, ma alla fine fissa l’ultima udienza per il 21 aprile.
Al momento della sentenza all’esterno del tribunale ci sono quasi duecento persone. Dopo due ore di discussione e quasi tre di camera di consiglio, Giovanni Macchiarolo è condannato a quattro anni e quattro mesi, un anno in più rispetto alla richiesta formulata dal pm. Tra novanta giorni saranno pubbliche le motivazioni della sentenza, ma la pena inflitta al carabiniere è praticamente quella massima, se si considera il capo di imputazione di omicidio colposo. Nessuna altra persona è stata indagata per l’inquinamento della scena del delitto. Davide Bifolco riposa nel cimitero di Fuorigrotta, tra i lumini colorati, le fotografie e i bigliettini lasciati sulla tomba dai suoi amici adolescenti. (riccardo rosa)
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