Diciamo la verità, uno potrebbe scrivere centinaia di motivi per cui, nell’anno senza Signore Duemila, alla soglie di un nuovo Millennio che solo quelli proprio scemi potevano immaginare pieno di sorprese, abbiamo deciso di andare alla Love Parade.
Lo sapevamo, noi, che sarebbe stato un decennio di merda a fare da apertura a un ventennio orribile di cui si avvertivano le premesse. Guardavamo quello attraverso cui eravamo passati e la finestra di vetro che ci separava dal tempo futuro era sporca, piena di impronte e aloni. Si vedeva opaco. E allora dobbiamo dire molto sinceramente che ci siamo andati, a Berlino, a pariare e basta. Sapevamo bene da quale passato veniva quella voglia di muoversi e ballare e fare pazzarie che ci aveva spinti durante tutti gli anni Novanta.
Avevamo imparato la musica da quelli più grandi, che in paese li guardavano tutti come marziani. I capelli viola con la cresta, gli anelli alle orecchie, il chiodo, le vene piene di eroina e gli occhi arrossati e senza una cazzo di speranza. Era la provincia a nord di Napoli, non c’era ancora la metropolitana, ci separava dalla città via Scaglione che si allungava come un serpente tra i casermoni di Chiaiano, Marianella, Piscinola. Una lunga strada di tristezze inaudite e cemento armato. In coda al serpente stavamo noi, periferici, fottutamente innamorati della musica di quei tossici. Killing Joke, Bauhaus, Siouxsie and the Banshees, Joy Division. La musica dei drogati che ci ha salvato la vita. Così siamo sfuggiti a Mtv, al frullato di cervelli che faceva quella televisione piena di lustrini e immagini patinate che mostrava la vita per quello che non era, in modo che la gente pensasse che gli anni Novanta fossero un periodo buono, di rivalsa. C’erano le Posse, i centri sociali, cominciavamo pure di nuovo a dare mazzate alla polizia in piazza dopo dieci anni di persecuzione. Però era tutto come su Mtv, una superficie luccicante che copriva un mare di merda. Qualcuno, tra di noi, lo sapeva e viveva con questa tristezza senza fine appesa al collo come un laccettino. Non abbiamo mai avuto nemmeno il coraggio di farci una pera. Perché ci vuole un coraggio enorme, per fare quelle cose là. Così siamo sopravvissuti, in quegli anni in cui la gente occupava edifici abbandonati ed era convinta di fare la rivoluzione. E non è che facessimo gli spocchiosi, quelli che dicono che non gli va bene mai niente. Anzi, siamo andati a dare man forte, ai cortei non ci siamo mai tirati indietro. Però c’era uno scetticismo di fondo, che forse veniva da quel passato contadino, da quelle nonne nelle cucine col focolare che scuotevano la testa e nicchiavano perché erano parte di quel popolo che non ha mai visto bene, nemmeno dopo eventi grandiosi come la sconfitta dei fascisti. Che cazzo si dovevano aspettare da una generazione come la nostra con l’orecchino, i jeans strappati, gli occhi stretti dalle canne e un idolo come il Che coi capelli da spellicchione? E così siamo venuti fuori noi, uno strano prodotto obliquo maturato in provincia, avvezzi alle sconfitte e mai pienamente convinti delle vittorie. Siamo andati così, alla Love Parade del Duemila, a Berlino. Sostanzialmente a pariare.
La Parade era stata famosa negli ambienti alternativi, fino a qualche anno prima, per quella voglia di liberare le strade, di esprimere gioia, sensualità, di essere ribelli col proprio corpo. Una serie di suggestioni che ci hanno riempito di entusiasmo e svuotati di razionalità. Perché tra desideri e visioni ci eravamo dimenticati che le rivoluzioni si fanno prendendo il Potere. Noi, invece, lo rifiutavamo. Eravamo oltre. Occupavamo le case. Creavamo spazi di contropotere. Facevamo a mazzate con coraggio e una certa dedizione ma non diventavamo mai un esercito. E chi lo gestiva, il Potere, ci faceva il servizietto.
Insomma arrivammo a Berlino carichi di aspettative che non contenevano alcuna idea di rivoluzione ma attratti da una due giorni di baldoria, sesso, alcool. A me, se devo dire la verità, non ha fatto una grande impressione, quella festa enorme nel cuore dell’Europa. Siamo partiti una sera col treno da Napoli Centrale. Cioccolata si è presentato con uno zainetto della scuola praticamente vuoto. Un asceta della techno. Che poi non è vero neanche che siamo andati là per la techno o per un genere musicale in particolare. Le discoteche ci hanno sempre fatto cacare, ci siamo pure stati qualche volta ma è finita presto. Una volta che Tanino si teneva una tipa di via Chiaia abbiamo provato ad andare addirittura alla “Mela” ma non ci hanno fatti entrare. Ci siamo presentati vestiti come i Nirvana ma non eravamo nemmeno la uallera di Kurt. E allora ce ne siamo andati a vico Belledonne, ci siamo ubriacati e abbiamo spaccato la vetrina di una cornetteria e la faccia di due chiattilli col ciondolo a croce celtica. E questo siamo.
Comunque quando siamo arrivati a Berlino non si può dire che non sia stato entusiasmante. Una marea umana, più di un milione di persone, donne e uomini nudi, gente che scopava nei giardinetti del Tiergarten, musica, camion carichi di casse. Gruppi di sballati, ubriachi dalla mattina, che giravano per i giardinetti con il sacco a pelo nello zaino; ridevano, si baciavano, vomitavano forte dietro ai tigli; mangiavano panini col tonno in scatola, bevevano birra e Grand Marnier. Noi tre per fare gli splendidi siamo arrivati là senza prenotare niente, può essere mai che nella festa dell’amore nessuno ci fa dormire sotto un tetto? Migliaia di valchirie assetate d’amore ci vedono ballare e non terminiamo la nottata dentro un letto caldo? Sicuro.
La prima notte, infatti, l’abbiamo passata vicino a un laghetto. Il festino delle zanzare è incominciato verso il tramonto e le cesse si sono sbizzarrite fino all’alba, mi hanno fatto come Santolazzaro e così la mattina dopo parevo Elephant Man. Alla faccia dei sogni di droghe e deliri psichedelici che volevo farmi, il primo trip me lo sono fatto di Bentelan e guardandomi allo specchio mi sono messo di fronte alla dura realtà. Sarebbe stato difficile conquistare una teutonica e il relativo letto in quelle condizioni. «Tanì, pigliammece n’ostello, accussì cumbinat’ nun me guarda manco ‘na cecata». Ma niente ostello, Cioccolata la sapeva lunga, e ha ben pensato di ovviare al “problema sonno” semplicemente scavalcandolo. Plegine e Ceres, un classico degli anni Ottanta, sempre eredità di quei punk che ci avevano istruito e deviato dieci anni prima, e ci siamo addormentati tre giorni dopo. Al ritorno, a Civitavecchia, con gli occhi in fiamme, Tanino si è girato preoccupato e mi ha detto: «O’ Maè, ma si nun ci addurmimm’ mai cchiù che succede? Mica se more?» Si era buttato in corpo qualsiasi cosa, la gente gli passava bottiglie colme di liquidi misteriosi e lui le tracannava senza nemmeno dire amen e dopo aver rischiato l’arresto cardiaco per ventiquattro ore si preoccupava di non addormentarsi più. E questo siamo.
Comunque, poi, alla fine abbiamo pariato. Sapevamo che non era più la parata cominciata con nemmeno duecento persone qualche mese prima della caduta del Muro. Era finito, quell’evento nato per iniziativa di alcuni dj su temi come la fratellanza e l’amore tra i popoli, corollari ingenui e funzionali alla voglia dell’epoca di lasciarsi alle spalle il socialismo reale per sostituirlo con le vetrine del Ku’Dam, i bistrot turchi e l’Mdma. Era stato tutto fagocitato, negli anni, da quel mercato che doveva liberare il mondo dal Kgb. Quando siamo arrivati noi, pellerossa dell’area nord di Napoli, tutto era già commercio. Montagne di pasticche che lastricavano la strada del divertimento di quel milione e mezzo di persone, ettolitri di intrugli psichedelici, centinaia di migliaia di preservativi, gadget, cuoricini luminosi, magliette trasgressive, birre, lattine peptiche. E poi, certo, i bassi che pompavano roba incredibile dai tir che procedevano a passo di lumaca. Ci siamo divertiti, soprattutto sotto il camion di Carl Cox, questo avventuriero dell’elettronica che ha capito subito dove stava la sostanza delle cose e si è messo a produrre quella roba che gli ha fatto fare i soldi e concettualmente fa cacare. Concettualmente, perché quando ti ci trovi dentro, avvolto dai bassi, con la gente che delira e agita culo, lingua, occhi e cervello non puoi fare a meno di sbatterti pure tu. E ti diverti perché quello è il comune denominatore di un caos infertile che non serve a granché se non a dimenticare tutto il resto: il lavoro retribuito poco e male, l’università che ti fa due palle così, tua mamma e tuo padre saldamente ancorati all’Italia del boom con l’Audi nuova e le cassette di Ornella Vanoni e Gino Paoli nello stereo. Tu vuoi solo scappare e allora, come noi, ti rifugi in quella melma umana senza fisionomia precisa e ti perdi, rischiando anche grosso. Come quando siamo stati rapiti un’onda di trans teutonici con le zizze giganti e le spalle da corazziere e Tanino mi guardava con gli occhi sperduti perché va bene l’emancipazione e una visione progressista e anti-sessista dell’universo però quello è di Calvizzano; la sua educazione sessuale si fonda sui giornaletti sporchi nascosti sotto il Lanciostory sul tavolino in fondo al salone del barbiere. Questo siamo. Quindi ci attraversa un filo di terrore quando veniamo inglobati dallo spezzone trans, maniati ampiamente in ogni dove e trascinati dentro un gorgo d’amore che forse per noi, ragazzi della periferia nord è un po’ troppo. Ma la Love Parade è pure questo, e Cioccolata è l’unico a non preoccuparsi, strafatto di ogni cosa, che mentre io e Tanino ci guardiamo attorno provando a limitare i danni, si mena a petto di palummo chiavandosi in corpo acque biancastre miracolosamente psicotrope e gridando al cielo azzurro di Berlino: «Guagliu’ vuttate ‘ncuorpo, ma che tenimm’ a verè». E questo siamo.
Alla fine, l’abbiamo raccontato decine di volte questo viaggio ai limiti del normale. È diventato uno di quei racconti simbolo, di quelli che gli amici pigliano e fanno: «Jà racconta nu poco ‘e quann’ site juti a Berlino». Ogni volta aggiungi o sottrai qualcosa a seconda di come stai, ma non c’è niente di eccezionale, in quello che hai fatto. Ognuno al mondo ha nel proprio serbatoio decine di storie così. La vacanza in Grecia, quella volta a Copenhagen, l’estate che ti hanno arrestato in Croazia. E l’avventura da sciamano cazzone in mezzo alla folla della Love Parade. Animali a caccia di relazioni umane dove le relazioni però non si creano e ci stanno solo incroci di bisogni. Perciò ci siamo andati, a Berlino, per bisogno. Perché vuoi sempre scappare da qualcosa, la terra fissa sotto i piedi ti fa talmente paura che la tranquillità, che dovrebbe essere una dimensione naturale, ti terrorizza. E allora scappiamo, c’è chi scappa al Cocoricò e chi a Berlino. E a dirla tutta, mi faccio più pena io che quelli che vanno in pellegrinaggio in Romagna a schiattarsi la testa. Perché io e i miei compari siamo andati a Berlino con la stessa voglia di evasione però l’abbiamo camuffata. Ci abbiamo messo un abito culturale, la grande metropoli alternativa, la cultura nordica, l’esodo, l’incontro dei corpi, la riappropriazione della città e tutte queste stronzate qua. Ma noi siamo una generazione che è scappata da tutto, e quando è evasa ha vagato senza meta, ci siamo abbuffati di polveri e alcool per anni fingendo che fosse una rivolta invece era solo un metodo da stronzi per non dire che avevamo paura.
Avevamo paura perché sapevamo di non farcela e quindi abbiamo chiuso la serranda appena possibile. Allora quando ci ripenso, e penso a quel povero ragazzo morto nella discoteca di Riccione e penso a me, a quei ragazzi che vomitavano nelle fontanelle del Tiergarten, a tenersi la pancia con le mani e sudare freddo, allora penso che invece delle discoteche dovrebbero chiudere tutto il resto, perché i luoghi in sé sono freddi e privi di segno. Sono le nostre gioie o ansie, le paure e malinconie, i desideri a farne templi dell’amore o della perdizione. E scagliarsi contro una discoteca, per quanto cafona, pensando di risolvere i problemi con le stronzate come il Daspo vuol dire solo provare a non cambiare un cazzo di tutto quello che ci gira intorno. Allora veramente non abbiamo più un briciolo di speranza, e aspettiamo solo il prossimo cadavere di nemmeno diciott’anni come un rito sacrificale. (gionni maestro)
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