
Jair Bolsonaro è il nuovo presidente del Brasile, vincitore delle elezioni con il 55,2% delle preferenze, e con undici milioni di voti in più rispetto al suo avversario Fernando Haddad, arrivato al ballottaggio dopo il primo turno. Dopo quattro governi consecutivi del Partito dei Lavoratori, dopo l’impeachment di Dilma Rousseff e dopo la breve parentesi dell’amministrazione Temer, il paese elegge un presidente di estrema destra, protagonista di continue esternazioni razziste e omofobe nel corso della campagna elettorale. Ex militare, fautore di una posizione di apertura nei confronti del fu regime militare, Bolsonaro aveva parlato di “carcerazione ed esilio” per i suoi oppositori politici, una volta conquistato il governo del paese.
Pubblichiamo a seguire la traduzione di un articolo pubblicato da Medium e Uninomade Brasil.
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Per comprendere l’ascesa di questo fenomeno di massa – la cui espressione elettorale ha sconvolto la scena politica e sociale brasiliana, soprattutto a partire dal primo turno delle elezioni del 2018 – e cominciare a pensare a come reagire, è necessario caratterizzarlo in dettaglio. Prima di tutto dobbiamo iniziare a eliminare il giudizio secondo il quale tutti quelli che hanno votato Bolsonaro nel 2018 sono fascisti. Il nucleo duro di quel che possiamo chiamare bolsonarismo, che di fatto è fascista, potremmo definirlo ustrismo. Esso corrisponde a una minoranza, ma sebbene tale minoranza sia organizzata e influente, è comunque una minoranza.
In secondo piano, c’è un contingente di uomini, donne e giovani (in maggioranza maschi) la cui adesione al bolsonarismo si deve soprattutto alla sua performance neo-conservatrice, contraria al cosiddetto politically correct, ovvero all’ascesa di movimenti identitari della post-modernità come il femminismo, il movimento LGBT e il movimento nero antirazzista. In questo gruppo riconosciamo il sostegno di carattere religioso, sia evangelico che cattolico.
È nelle pieghe del fenomeno, però, che troviamo l’adesione più fragile ma più numerosa al bolsonarismo, che corrisponde a quella massa di elettori il cui principale motore di consenso è l’antipetismo galoppante (anti-PT, Partito dos Trabalhadores), la cui ragion d’essere si deve a tre fattori principali: la frustrazione di aspettative storiche legate al ruolo del Partido dos Trabalhadores, la crisi sociale ed economica lasciata dal governo Dilma, il deterioramento dell’immagine del principale partito della sinistra dovuto alla sua partecipazione al saccheggio della ricchezza sociale praticato durante gli ultimi anni (reso esplicito con l’Operazione Lava Jato). In queste elezioni l’antipetismo ha rappresentato un profondo desiderio di rinnovamento in chiave anti-sistema, un sistema identificato con il petismo e il lulismo alla luce degli scenari degli ultimi quindici anni, ma anche in virtù di un lavoro di rafforzamento di questa percezione (compresa la diffusione di massa delle cosiddette fake news).
Distinguere questi tre strati del fenomeno permette di riconoscere con realismo la sfida che abbiamo di fronte. Il bilancio dell’esperienza degli ultimi anni (principalmente dal 2013) deve essere anche il tentativo di comprendere l’ascesa del bolsonarismo come maggioranza elettorale consistente, la cui formazione è, senza dubbio, tragica, ma non omogenea e monolitica. Delimitare correttamente il fenomeno significa cominciare a pensare il “che fare?”. Le frange di questo fenomeno e il suo contingente conservatore non sono irraggiungibili per una possibile futura maggioranza sociale di senso opposto (è utile ricordare che, nel 2010, Lula aveva un’approvazione popolare superiore all’ottanta per cento dei brasiliani).
Allo stesso modo è necessario indicare, discutere e riorientare completamente l’approccio comunicativo di un progressismo a venire. Se vogliamo sconfiggere non Bolsonaro, ma le condizioni sociali di esistenza del bolsonarismo, sarà necessario riesaminare le posture autoreferenziali della militanza di partito e movimentista, oltre che mettere in discussione i metodi e lo stesso gruppo dirigente che ci ha portati a questa situazione.
Così, in primo luogo, è necessario abbandonare tutto il vaniloquio militante nostalgico del “lavoro di base” come chiave magica, mentre allo stesso tempo avremo bisogno di ampliare considerevolmente l’ascolto di ciò che donne e uomini comuni desiderano. Senza abbandonare la percezione etnografica, qualitativa, del lavoro militante, che è importante, sarà necessario sviluppare un esteso “lavoro di reti”, utilizzando intensivamente la scienza dei dati per monitorare i movimenti generali di rapida oscillazione nelle reti. Le battaglie per “l’opinione pubblica” dipenderanno dalla rapida, efficiente e massiccia capacità di risposta.
Da questa robusta con-ricerca avremo spunti per dotare il nuovo progressismo di un programma all’altezza dei nuovi tempi, abbandonando la difesa storica in cui siamo trincerati del lavorismo nazional-statale. In sintonia con le richieste popolari, questo programma dovrà fare i conti con tre questioni non negoziabili: una forte difesa dell’ambiente, preparando il Brasile ai catastrofici cambiamenti climatici a venire; una progressiva riconfigurazione dell’economia, capace di prepararci alla massiccia automazione all’orizzonte, che minaccia la metà dei posti di lavoro oggi esistenti; infine, sarà necessario promuovere politiche capaci di attenuare l’impatto delle precedenti trasformazioni e, si spera, di ridurre i nostri numerosi indicatori di miseria, povertà e disuguaglianza. Per iniziare, sarà necessario rendere possibile un programma di reddito minimo universale capace di diventare la protezione sociale di una nuova era del capitalismo contemporaneo che remunera il cittadino per il suo lavoro nelle reti e garantisce un orizzonte minimo di consumo e dignità.
Questo lavoro di reinvenzione del progressismo non sarà fatto dall’attuale establishment politico e richiederà la sconfitta di coloro che continueranno a distruggere sul nascere qualsiasi costruzione alternativa. Sarà necessario riunire un ampio fronte desideroso di superare l’orizzonte del petismo e del lulismo senza alcuna concessione. Costruire un progressismo post-PT non significa l’annientamento del partito, ma la capacità di riconoscerlo come una parte importante del problema e, nel caso, sottoporlo a una nuova egemonia. Inutile dire che questo fronte difficilmente potrà contare su un “sinistrismo” autoreferenziale, e che le contraddizioni saranno presenti. Dovranno però queste sempre essere sottomesse all’ampiezza dell’agenda messa in moto da questo nuovo progetto.
Nel breve termine, la necessità di costruire un nuovo progressismo come alternativa dovrà essere parallela agli sforzi messi in campo per contenere la concreta violenza del bolsonarismo, sia in quanto agente macro-politico di governo, sia nella sua espressione molecolare, in quanto supporto e autorizzazione affinché minoranze e oppositori siano aggrediti e uccisi. Dobbiamo mobilitare tutte le istituzioni (la stampa, la magistratura, i partiti, le chiese, ecc.) a ripudiare, condannare e quando sarà il caso a punire tali azioni. Questa mobilitazione dipende dall’organizzazione di iniziative locali capaci di promuovere assistenza legale e contatti istituzionali, spingendo affinché il ripudio da parte della società dissolva gradualmente l’autorizzazione alla violenza generata dalla maggioranza bolsonarista. Si tratta di un lavoro che dovrà essere fatto allo stesso tempo e in combinazione, tra il fronte istituzionale e il fronte della moltitudine, dove nuovi agglomerati organizzativi dovranno diffondersi.
Consapevoli che il costo del non fare sconti all’esperienza degli ultimi due decenni e del reinventare un nuovo campo progressista democratico – che respinga ogni autoritarismo e si allontani dalle esperienze dittatoriali latinoamericane con le quali la vecchia sinistra ha sempre flirtato – può essere l’emergere di un forte movimento di destra che potrà durare decenni. (silvio pedrosa, traduzione di giuseppe orlandini)
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