Era tarda mattina al bar davanti alle palazzine dell’Ex Moi. Il barista puliva il tavolino accanto e mi ha sorriso amaro: «La giornata è iniziata storta. Ho messo la sveglia alle cinque e mezza e mi sono svegliato alle sei. Corro fin qui, da lontano vedo i lampeggianti della polizia. Ecco, ho detto, non è un lunedì mattina normale». Alle sei di lunedì 17 dicembre era iniziato lo sgombero degli scantinati della palazzina arancione. «E ancora non ho metabolizzato la sconfitta del Toro», il barista ha sospirato a denti stretti e sono entrati tre poliziotti, il freddo li accompagnava. Al banco un’agente della Digos ha ordinato quattro caffè per i colleghi. Là fuori c’erano otto camionette della Celere, agenti con gli scudi schierati, uomini in mascherina e tuta bianca, quattro Punto grigie, giornalisti appollaiati oltre il nastro rosso e bianco. Dalla radio del bar, Ligabue cantava che certe notti la macchina corre, le strada va e il vizio non smette; due studenti della scuola Holden vagavano inquieti: «Giriamo un documentario sugli occupanti. Una produttrice romana è interessata, a patto che il film non sia la solita denuncia politica». Sfogliavo la Gazzetta e osservavo celerini in cerca di rifugio e caffè. Ho sfiorato il gomito di un agente in borghese, ma ho salutato i ragazzi del comitato di solidarietà che discutevano nell’angolo. Un fotografo al tavolino ritoccava le immagini catturate: dallo schermo emergeva un ragazzo nero che solo camminava fra muri e macerie.
I poliziotti, quella mattina, hanno intimato a più di cinquanta abitanti di uscire dagli scantinati mentre un pullman attendeva nel cortile retrostante. Un abitante che resisteva è stato sollevato a braccia e condotto in ospedale. Poi gli uomini in tuta bianca hanno smantellato le baracche del sottosuolo, hanno portato via i beni e gli oggetti accumulati nel tempo. Le merci dei carrettieri – ferro recuperato, bici, frigoriferi – sono state caricate su camion diretti a nord della città. La giornalista del notiziario regionale ha confezionato il suo pezzo e lentamente gli spettatori si sono allontanati, solo le camionette controllavano una strada chiusa al traffico. La sera dopo, i garage sotterranei erano ormai vuoti, ogni via d’accesso murata e sigillata. Ancora nei giorni seguenti una camionetta della polizia e alcune auto scure di ronda presidiavano il muro fresco costruito all’ingresso; poco oltre sostavano i soldati del presidio fisso. Così s’è concluso il nuovo capitolo della “liberazione dolce”, il “primo passo, concreto, verso l’inclusione” ha annunciato La Stampa. Lo sgombero delle palazzine occupate è iniziato due anni fa grazie a un progetto sostenuto dalla giunta Appendino e da Compagnia di San Paolo.
Leggo sul sito di Compagnia di San Paolo che il progetto MOI – Migranti un’Opportunità d’Inclusione “è un’iniziativa del tavolo inter-istituzionale formato da Città di Torino, Città Metropolitana di Torino, Regione Piemonte, Diocesi di Torino, Prefettura di Torino e Compagnia di San Paolo. Gli enti hanno sottoscritto un protocollo d’intesa e definito i relativi strumenti di governance”. Gli abitanti dovrebbero lasciare l’occupazione e accettare soluzioni abitative temporanee, garantite per un periodo di sei mesi o un anno. Le istituzioni promettono l’organizzazione di corsi di formazione e l’offerta di “soluzioni lavorative stabili e sostenibili”. Le palazzine, una volta rimesse in sesto, non saranno rese agli occupanti, ma ad abitanti che assicurino maggiori garanzie economiche. Dal marzo 2017 una equipe di esperti – guidata dal project manager Antonio Maspoli – dirige le operazioni. Il 21 novembre 2017 le forze dell’ordine hanno sgomberato gli scantinati della palazzina arancione. Nei primi giorni dell’agosto 2018, quando molti abitanti erano impegnati nelle raccolte stagionali, nuovi contingenti di polizia hanno accerchiato, svuotato e sigillato la seconda palazzina, quella dei somali. A inizio ottobre 2018 Chiara Appendino e Francesco Profumo, presidente di Compagnia di San Paolo, hanno incontrato Salvini in Viminale: il ministro ha assicurato l’appoggio politico ed economico al progetto. Sinora sono stati stanziati quasi sette milioni di euro, divisi fra la fondazione bancaria e il governo.
Una storia breve delle operazioni mostra come l’azione di polizia di lunedì 17 dicembre abbia ripetuto lo sgombero tentato un anno prima: la “liberazione” degli scantinati era stata mossa vana, nuovi abitanti avevano occupato ancora il sottosuolo. In verità, i garage servivano anche da deposito e luogo di lavoro dei carrettieri e non erano mai stati abbandonati. Perché non s’era trovata una soluzione per i rivenditori di ferro e oggetti dismessi? E perché l’anno scorso gli abitanti delle cantine avevano tentato una resistenza, nonostante i negoziati e le promesse di ricollocamento? E se gli sgomberi sono “dolci”, perché è necessario un tale dispiegamento di forze? Gli amministratori, nonostante i proclami, sono poco lucidi nella lettura del contesto. Nel febbraio 2017 Appendino assicurava che la prima palazzina sarebbe stata sgomberata entro la primavera, ma le forze di polizia sono intervenute più di un anno dopo. Le difficoltà incontrate dalla giunta e dalla equipe di San Paolo – difficoltà sinora superate soltanto grazie all’impiego massiccio delle forze dell’ordine – stimolano domande e suggeriscono linee d’indagine che potrebbero illuminare le contraddizioni dei governi e dei loro funzionari. Ho cercato di ordinarle in forma di appunti e ipotesi di ricerca.
Strategie di controllo
I primi occupanti erano uomini e donne originari di paesi al di là del deserto. Fino al 2011 erano in Libia per lavoro, lasciarono la costa nordafricana durante i bombardamenti Nato e sbarcarono da noi. Dopo due anni di assistenza affidata alle associazioni del terzo settore, i rifugiati si ritrovarono in mezzo alla strada e occuparono le palazzine. Da allora l’area dell’Ex Moi accoglie profughi dalla Libia, flussi di lavoratori itineranti, rifugiati in attesa di miglior sorte, uomini senza documenti, disoccupati. La loro è una storia di spostamenti in condizioni precarie, i loro diritti sono limitati o inesistenti. Sono a Torino, ma domani potrebbero essere in un’altra città; sono in Italia, ma molti progettano, o sognano, di andare altrove – le loro identità non corrispondono a punti verificabili su una mappa. Formalmente gli occupanti hanno la residenza in via della Strada Comunale 3, una via inesistente: uno stratagemma inventato da istituzioni povere di strumenti. Le istituzioni (cittadine, regionali, nazionali) traggono origine da una concezione di territorio obsoleta, inadatta a comprendere i flussi migratori odierni, e i loro funzionari ignorano la complessità del mondo attorno, le ragioni di uomini e donne vaganti. I governanti comprendono solo le ragioni dei residenti, ovvero dei cittadini localizzabili sulla mappa e detentori di diritti civili e di voto, e così stiracchiano vecchie parole alla ricerca di consenso. Per questo le affermazioni del sindaco di Torino o del ministro dell’interno si colorano di insipienza e furbizia, d’ignoranza e malafede.
L’inefficacia delle istituzioni democratiche formali è sopperita da una speciale tecnologia di controllo che si raffina anno dopo anno. Da tempo gli uffici comunali e la questura s’impegnano a redigere e aggiornare un censimento degli abitanti e l’equipe di Compagnia di San Paolo aveva aperto un ufficio al piano terra per monitorare la situazione e acquisire informazioni sugli occupanti. S’aggirano fra le palazzine membri dell’equipe e funzionari del comune ricchi di promesse e buone parole. Quali sono le procedure utilizzate per ottenere i dati? A quali condizioni gli abitanti forniscono informazioni? E come avvengono, in questi rapporti informali, i negoziati? Lo scorso agosto, durante lo sgombero della palazzina dei somali, alcuni agenti si presentarono con pacchi di documenti riservati a chi aveva accettato di andarsene senza opporre resistenza. E non sono state le uniche offerte a favore degli abitanti disposti a collaborare.
Alcuni abitanti, fra i più consapevoli, avevano manifestato contro l’insediamento dell’ufficio dell’equipe di Compagnia di San Paolo. Avevano organizzato delle proteste, avevano contestato i membri del progetto e, secondo l’accusa, avevano tirato un pugno al project manager. Era l’autunno del 2017. Dal febbraio 2018 tre ragazzi sono in custodia cautelare in carcere mentre il loro processo è ancora in corso. Atti di protesta possono giustificare un anno di detenzione in attesa della sentenza? E quali sono state le procedure e le motivazioni dell’arresto? Come si sta svolgendo il processo e secondo quali capi d’accusa? Esistono casi analoghi oppure è in corso una procedura giudiziaria eccezionale? Forse misure così dure sono intimidazioni rivolte a chi, fra gli occupanti, abbia ancora intenzione di opporsi alla “liberazione” e allo “sgombero dolce” organizzati dalla città e da Compagnia di San Paolo. Una ricostruzione della storia giudiziaria – ancora avvolta dal silenzio – potrebbe illuminare i legami fra la repressione politica e l’uso apparentemente neutro degli strumenti giuridici.
Anche i linguaggi non sono neutri e oggettivi, ma funzionali al contesto di potere in cui sorgono. Per questo è interessante analizzare come i principali organi di stampa della città descrivono gli abitanti. I toni possono essere benevoli o foschi, gli occupanti possono apparire poveri sfortunati o criminali dediti al racket: la configurazione del discorso dipende dagli interessi sostenuti in un contesto specifico. Altrettanto fecondo sarebbe adottare uno sguardo storico, e non assoluto, per interpretare gli articoli di giornale. Sembra che negli ultimi mesi La Stampa abbia modificato appena il punto di vista: se prima non esisteva voce contraria al progetto di Compagnia di San Paolo, ultimamente il giornale ha pubblicato articoli venati di critiche. “Costa tre milioni l’anno ma solo il 5% degli assistiti è diventato indipendente”, titola il 18 dicembre 2018. Il giorno dopo Federico Genta menziona una vertenza dell’estrema destra e denuncia come “I soldi per l’Ex Moi finiscono nelle tasche delle solite coop”. La linea editoriale, forse, muta insieme ai mobili assetti di potere in città: al tempo del dibattito sulla linea ad alta velocità il foglio torinese modula nuovi segnali rivolti alla giunta Appendino.
Una riqualificazione sognata
Quali sono le cooperative che nel 2013 abbandonarono al loro destino più di cinquecento rifugiati dopo aver ricevuto fondi europei per due anni? E quali enti stanno collaborando con il progetto di Compagnia di San Paolo? Che il sistema dell’accoglienza si regga su impreparazione, cinismo e velleità paternalistiche è una tesi credibile, ma non è ancora stata corroborata da ricerche approfondite. Una linea d’inchiesta interessante riguarda la cooperativa Babel, associazione nata dalla costola di Terra del fuoco e inquisita per la gestione ambigua di fondi riservati all’accoglienza dei rom. Oltre a essere coinvolta nel progetto di sgombero, Babel è nota per il ritardo dei pagamenti e dei rimborsi spese ai lavoratori. Quali sono, poi, le strutture che hanno accolto gli abitanti sgomberati dagli scantinati e dalla palazzina dei somali? Le condizioni in cui vivono adesso i rifugiati sono soddisfacenti? E i programmi di inserimento nel mondo del lavoro sono efficaci? Un’analisi degli effetti concreti del progetto dovrebbe partire dai racconti dei diretti interessati, ma è difficile, forse impossibile, ottenere testimonianze pubbliche. Il rischio d’esporsi è troppo alto per chi non ha, come noi, un passaporto italiano in tasca.
Le quattro palazzine occupate furono costruite in via Giordano Bruno per ospitare atleti e giornalisti durante le Olimpiadi invernali del 2006. Oggi appartengono al Fondo città di Torino, nato per valorizzare e vendere immobili del patrimonio pubblico. Il fondo versa in pessime condizioni economiche ed è controllato dalla società Prelios, dalla Città di Torino e da una società legata a Intesa San Paolo. La storia urbanistica degli edifici è stata raccontata bene altrove, ma rimangono inesplorati gli interessi e i progetti attuali. Durante la conferenza stampa relativa all’ultimo sgombero Chiara Appendino ha affermato: «Dobbiamo iniziare a lavorare sulla seconda palazzina, dobbiamo dare continuità. Quell’area verrà riqualificata nel momento in cui abbiamo fatto un intervento su tutte le palazzine. Quindi la seconda palazzina darà maggior forza al progetto e ci darà maggior credibilità nei confronti dei fondi immobiliari». Se nuovi investitori comprassero le palazzine del villaggio olimpico, il Fondo città di Torino coprirebbe parte dei debiti e la città sarebbe meno esposta. Forse le ragioni filantropiche del progetto sono il versante pubblico e visibile di strategie finanziarie più complesse. Sinora si sono presentati investitori interessati? Perché Politecnico di Torino e Università degli Studi hanno rinunciato alla concessione delle Arcate dell’Ex Moi? E quale ruolo avrà nella riqualificazione la società Parcolimpico che detiene parte della proprietà delle Arcate? La conferenza stampa non concede nuovi elementi di riflessione. «Entro il mandato vogliamo liberare tutte e quattro le palazzine», rassicura Appendino. Mentre ascolto la voce del sindaco, recupero le descrizioni del villaggio olimpico redatte dallo studio di architettura che ideò il progetto prima del 2006: “Brio, vivacità, energia semantica si contrappongono all’atmosfera di abbandono in cui versava l’area, la riscattano, la ripopolano di nuovi segni, inediti, originali, che dalla loro eterogeneità traggono le premesse per scrivere una nuova pagina di storia della città”. Le promesse mancate del passato illuminano il nostro presente.
Sono ipotesi di ricerca parziali: il lavoro sul campo potrebbe modificare i presupposti, variare i metodi e individuare nuovi percorsi. Nel contesto urbano, tuttavia, non esiste un ente istituzionale, un dipartimento accademico o una redazione strutturata determinati a condurre una ricerca in sintonia con le domande avanzate. L’iniziativa resta alle poche nostre forze. Ho tralasciato intenzionalmente tutte le domande e i percorsi di indagine che abbiano gli abitanti come oggetto. La conoscenza che vorrei si acquisisse non riguarda i marginali, ma il cuore della nostra società: funzioni delle istituzioni, procedure di governo, linguaggi delle élite. Più che la difesa degli ultimi, che sapranno reagire e organizzarsi da sé, vorrei scrutare il nostro mondo bianco – sino a smontarlo dall’interno, corroderlo se necessario. (francesco migliaccio)
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