CPH:DOX è il festival internazionale di film documentari di Copenaghen, che dal 2003 si tiene ogni anno nella capitale danese. È considerato il terzo festival al mondo per grandezza e numero di film in concorso nelle diverse sezioni, e quest’anno ha superato tutti i record precedenti con più di duecento film selezionati e un calendario fittissimo di proiezioni, dal 5 al 15 novembre, all’interno di cinema storici, multisala e cineteche appartate. Poco interessato al concorso e ai vincitori, mi sono invece immerso nella visione.
I titoli migliori, probabilmente, non li vedremo mai distribuiti nei cinema italiani (eccezion fatta per Bella e Perduta, il film di Pietro Marcello che ha riscosso molto successo di pubblico a Copenaghen e ha quasi vinto la sezione principale, appena uscito in molte sale italiane). Contro ogni opportunità, propongo qui le recensioni di quei film che non mi hanno lasciato quando sono finiti e le luci in sala si sono riaccese. Vi consiglio di cercarli in qualche buon festival. E agli organizzatori di festival, suggerisco di tenere d’occhio questi titoli. (salvatore de rosa)
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Le immagini consumate e i disturbi di linee grigie orizzontali tradiscono il supporto vetusto del VHS, palese per chi è stato cinefilo negli anni Ottanta e Novanta. L’occhio si apre su una barca bianca, una specie di vaporetto gigante punteggiato dagli oblò di decine di cabine, attraccata al bordo di un canale di una città del Nord Europa. La voce dell’autore del film, Vladimir Tomic, in serbo-croato, accompagna questi primi frammenti con riferimenti al sogno, al viaggio, alla nuova vita in Danimarca. E siamo già sulla tolda della Flotel Europa, la nave-casa che il governo danese mise in rada nel 1992 per ospitare temporaneamente circa un migliaio di rifugiati della guerra di Bosnia. A partire da una lungo lavoro d’archivio tra i filmati della croce rossa danese, e dopo una caccia in Europa alla ricerca di filmini amatoriali sopravvissuti in vecchi scatoli e polverose librerie nelle case degli ex-residenti di quella nave, Tomic mette insieme un diario intimo della vita quotidiana nella comunità artificiale di famiglie serbe, croate, musulmane e miste scappate per ragioni simili e diverse dalla stessa guerra.
Che sarà un racconto prettamente personale si manifesta da subito nel messaggio che la madre registra in video di fronte alla nave per raccontare ai parenti rimasti in Bosnia la nuova vita nel paese scandinavo. Vladimir entra nel quadro insieme al fratello: un ragazzino sedicenne con vestiti due volte la sua taglia, lo sguardo timido e i capelli neri che gli coprono la fronte. Non sa cosa dire ai nonni che riceveranno la cassetta, farfuglia dichiarazioni d’affetto, racconta brevemente che i danesi li fanno andare a scuola e li tengono occupati con tanto sport. Poi sparisce, mentre la camera inquadra l’imponente nave e le torri in lontananza immerse nella nebbia di Copenaghen.
Dalla Flotel Europa, i residenti volevano mandare ai parenti qualcosa di più delle lettere. Grazie all’iniziativa di un paio di cineamatori fra loro, in decine di filmati, vennero registrate le sfaccettature della vita sospesa tra le piccole cabine e il selciato del porto, così che in Bosnia i nonni, i padri, i fratelli e le sorelle rimasti potessero partecipare dell’incerto, promettente e nostalgico farsi di una nuova vita.
Nel montaggio di Tomic abbondano i momenti di pura ilarità, come quando entriamo nelle cucine di bordo trasformate dalle donne nel teatro di una sagra paesana. O quando ci viene mostrata una terrorizzata poliziotta danese in balìa di due abili ballerini che la fanno volteggiare sulle note della musica tradizionale balcanica. Lo spettatore è invitato all’interno delle vite altrui, assistendo soprattutto ai momenti più frivoli, a quelle gioie belle da ricordare e raccontare in video, a quell’ironia che esorcizza le cause della fuga e le fosche notizie dalla madrepatria. I rifugiati sono gli autori del proprio racconto, preferendo celare dietro la discrezione dei gesti di chi si costruisce una casa in un’altra casa, quel fondo tragico di sacrificio, incertezza e speranza che resta sospeso, visibile solo nei dettagli.
Il montaggio e la voce di Tomic trasformano questo materiale grezzo in qualcosa molto di più e molto più prezioso del documento. La trasfigurazione operata dal racconto che accompagna le immagini, dai raccordi, dalle pause, rende il film un’esperienza profondamente umana, e conduce al di là della storia di una comunità dell’ex-Jugoslavia assemblata dal caso e dalla fortuna. Tomic ha fatto altri film (su un viaggio in Bosnia da adulto, sul trauma che gli Inuit si portano dietro dalla colonizzazione danese della Groenlandia) in cui la riflessione individuale sul destino, la memoria e il senso che gli eventi hanno impresso alla sua vita filtra le storie collettive, e le racconta senza mai forzare uno sguardo analitico, gravitando nel reame del sogno e della poesia. Qualche accademico del cinema li chiamerebbe “film d’arte”, in cui lo stile e l’autore fanno la sostanza e la forma dell’esperienza filmica. Eppure la definizione non rende giustizia alla capacità d’identificazione che permette la spudorata onestà di mostrarsi come individuo nel mezzo di un evento storico. La voce di Tomic che cuce insieme i quadri della Flotel Europa non suona mai affettata o artificiosa, e guida l’indiscreto spettatore nel diario emotivo di un adulto che prova a ricostruire il suo passato attraverso la meditazione su tracce audiovisive conservate dal tempo. Certe volte il racconto a voce sembra non avere relazione con le immagini, ne è una sublimazione; in altre le completa, le approfondisce, dà elementi sulle facce di individui che compaiono pochi istanti, sulle loro traiettorie incrociatesi con la sua per qualche tempo e poi finite nell’eroina o in lontani villaggi del nord; ricama una storia d’amore solo sospirata tra Vladimir e Melisa, una dolce ragazzina che vediamo danzare in abiti tradizionali in una festa organizzata dai danesi per tirare su il morale all’equipaggio, stremato dopo più di dodici mesi di vita galleggiante.
Alla fine, tra il riso e il pianto, lo spettatore si può ritrovare a farsi domande sulle politiche d’immigrazione, così diverse a quel tempo (con i danesi che si premuravano di tutto) rispetto a oggi, o a riflettere del destino e della storia, suo e degli altri, oppure a pesare l’amicizia che sente sorgere con Vladimir dopo essere entrato nelle pieghe della sua esistenza passata. Conosco Vladimir da qualche anno, e sono un infiltrato della Jugo-crew, i bambini ex-rifugiati, ormai cresciuti, figli delle stesse onde della storia di quegli anni, dal momento che la mia compagna è stata anche lei una rifugiata da Sarajevo. Parlando di questo e di altri film, del ricordare attraverso il lavoro di regista per meglio comprendere e comprendersi – unacostante delle sue opere – abbiamo convenuto sul fatto che poesia e cinema hanno molto di più in comune di quanto si pensi o si dica. È proprio l’esperienza di un cinema lirico e senza versi che resta, dopo tutto, della visione di Flotel Europa. Un racconto in cui immaginazione, ricordo, fatti e sensazioni non si distinguono. Un po’ come accade nella realtà. (salvatore de rosa)
Flotel Europa
Vladimir Tomic. 70 min, Danimarca e Serbia, 2015
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