Il 26 giugno 2022 ero a Parigi in una place de la République gremita di gente. Il presidio era stato convocato per difendere il diritto all’aborto nel mondo, e in solidarietà con le donne statunitensi. Due giorni prima, la Corte suprema degli Stati Uniti aveva infatti annullato la sentenza “Roe v. Wade”, che dal ’73 garantiva l’accesso costituzionale all’interruzione di gravidanza in tutti gli stati del paese. Prima di quella sentenza, negli Stati Uniti l’aborto era disciplinato singolarmente da ogni stato federale; in almeno trenta tra questi era considerato reato e in soli quattro la volontà della donna di interrompere una gravidanza era l’unico requisito richiesto; nei restanti stati era possibile abortire solo in casi eccezionali, tra cui casi di pericolo per la salute della donna, stupro, incesto o malformazioni fetali.
La storica sentenza del 1973 aveva sancito che in tutti gli stati federali l’aborto fosse accessibile a tutte le donne, indipendentemente dalle motivazioni della scelta. Gli effetti del suo annullamento sono stati clamorosi: quattordici stati hanno vietato il ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza, e in tutto il paese si sono registrate in un solo anno circa sessantacinquemila gravidanze seguite a uno stupro. Di queste, quasi il quarantacinque per cento è stato registrato in Texas, stato che ha negato alle donne un accesso legale all’aborto anche in caso di incesto e violenza sessuale. Gli stati in cui non c’è accesso all’interruzione volontaria di gravidanza sono anche quelli in cui i sostegni alla maternità sono minori, mentre sono più alti che altrove i tassi di mortalità materna e povertà infantile.
Già nel giugno 2022, prima ancora di poter verificare questi prevedibili e tragici effetti, era chiaro l’attacco ai diritti delle donne negli Usa. Proprio in quei giorni, inoltre, si riaccendeva in Francia il dibattito sull’introduzione del diritto all’interruzione volontaria di gravidanza in Costituzione, una questione accantonata da quando, nel 2018, era stato respinto il progetto di legge costituzionale n. 911, che chiedeva di inserire nel preambolo della costituzione la frase: “La Francia riconosce alle persone che lo richiedano il diritto di avere accesso a una contraccezione adeguata, così come di ricorrere liberamente e gratuitamente all’interruzione volontaria di gravidanza, senza giustificazioni, nei termini di almeno quattordici settimane di amenorrea”.
La legge 911 sarebbe stata un passo avanti nella storia francese del diritto all’aborto, introdotto dalla legge Veil del 17 gennaio 1975. Vale la pena ricordare tuttavia altre quattro tappe fondamentali che avevano preceduto il provvedimento. La prima fu la legge Neuwirth, 1967, che depenalizzava l’uso, l’acquisto e l’importazione di contraccettivi in Francia (paese che dagli anni Venti vietava non solo il loro utilizzo, ma anche ogni metodo di divulgazione di informazioni a riguardo). Qualche anno dopo, nel 1971, appariva su Le Nouvel Observateur il Manifesto delle 343, firmato in realtà da un numero ben superiore di donne – tra cui Simone de Beauvoir, Catherine Deneuve e Marguerite Duras − che, rischiando conseguenze legali fino alla prigione, dichiaravano di aver fatto ricorso all’interruzione volontaria di gravidanza e rivendicavano un aborto libero e gratuito.
Altra tappa fondamentale fu il processo di Bobigny del 1972. Marie-Claire Chevalier, sedici anni, fu perseguita per aver abortito in seguito a uno stupro. Insieme a lei, sotto processo finirono le donne che l’avevano aiutata, ovvero sua madre e le sue colleghe. Il processo, grazie alla decisione delle imputate e della loro avvocata, la militante femminista Gisèle Halimi, nonché ancora una volta di Simone de Beauvoir, divenne un processo politico e di forte impatto mediatico. Durante le udienze davanti al tribunale per minori la folla scandiva slogan come: “L’Inghilterra per i ricchi, la prigione per i poveri”, in riferimento alle impari possibilità delle francesi povere che dovevano far ricorso ad aborti clandestini, rischiando la prigione e gravi conseguenze per la salute, e delle benestanti che andavano ad abortire nel Regno Unito. Marie-Claire Chevalier e Gisèle Halimi vinsero il processo. Il verdetto è storico, e l’anno successivo un’altra petizione comparve su Le Nouvel Observateur: 331 medici dichiaravano di aver praticato aborti nonostante il divieto della legge.
Dovranno passare ancora due anni prima di arrivare alla legge Veil, che viene promulgata con un periodo di prova di cinque anni. Nel dicembre ’79 le disposizioni vengono rese definitive e da allora varie altre sono arrivate ad ampliare questo diritto fondamentale: nel 2013 la pratica diventa totalmente gratuita per le donne che desiderino ricorrervi, nel 2014 viene soppressa la dicitura “situazione di emergenza”, nel 2017 viene esteso anche all’interruzione volontaria di gravidanza il reato di impedimento (che punisce chi impedisce o intralcia una determinata azione anche attraverso la diffusione di informazioni sbagliate), e nel marzo 2022 il limite di dodici settimane viene esteso a quattordici.
Nel 2018 arriva il primo tentativo di introdurre il diritto all’aborto nella costituzione. Il progetto viene respinto poiché la maggioranza dei partiti ritiene che sia un diritto già sufficientemente garantito. Tra questi c’è La République en Marche, oggi Renaissance, fondato da Emmanuel Macron. Sei anni dopo quel no, ironia della sorte, è proprio il presidente Macron ad annunciare il progetto di legge per far entrare l’interruzione volontaria di gravidanza nella carta costituzionale, presentato da Élisabeth Borne il 12 dicembre 2023. Il progetto viene approvato dai deputati dell’Assemblea Nazionale senza modifiche, con 493 voti favorevoli e trenta contrari, poi dai senatori il 28 febbraio scorso, con una maggioranza di 267 voti contro cinquanta, e ventidue astensioni.
Il 4 marzo il Parlamento approva il progetto di legge con 780 voti favorevoli, settantadue contrari e cinquanta astensioni: la legge viene promulgata l’8 marzo e la Francia diviene il primo paese al mondo a garantire nella propria costituzione la libertà per le donne di ricorrere all’IVG. Viene inserito un unico articolo: “La legge determina le condizioni in cui si esercita la libertà garantita delle donne di ricorrere a un’interruzione volontaria di gravidanza”.
Da un punto di vista non solo formale, ma sostanziale, l’aver sostituito la parola “diritto”, presente nelle prime proposte avanzate da alcuni partiti e dai movimenti femministi, con la parola “libertà”, non obbligherà lo stato francese a garantire un accesso libero e uguale a tutte coloro che volessero ricorrere a un’interruzione volontaria di gravidanza e che quotidianamente si scontrano con la mancanza di mezzi: umani, materiali, economici. Vale la pena ricordare che negli ultimi quindici anni centotrenta centri per l’interruzione di gravidanza sono stati chiusi, rendendo l’accesso a questa pratica complesso e costoso, a causa degli spostamenti necessari. In alcune regioni abortire è molto più difficile che in altri e a esserne toccate sono soprattutto le donne che vivono nelle zone rurali, spesso costrette a cambiare regione per abortire (non solo per l’assenza di strutture, ma anche di posti disponibili laddove le strutture ci sono, o di professionisti preparati o disposti a farlo).
I tagli alla sanità pubblica hanno avuto un impatto anche su questo diritto fondamentale. I reparti di ginecologia hanno subito tagli importanti, e anche i centri IVG all’interno di molti ospedali pubblici sono stati chiusi. Inoltre, il passaggio del limite massimo da dodici a quattordici settimane implica una preparazione differente per il personale medico e ostetrico, che spesso non è formato per praticare un aborto chirurgico, più lungo e più complesso rispetto a un’IVG sempre chirurgica ma praticata entro le dodici settimane. In aggiunta, nella maggior parte dei casi la scelta della donna è limitata alla sola interruzione di gravidanza per via farmacologica, che è meno invasiva ma che dovrebbe comunque restare una scelta e non la sola opzione.
Tutto questo, poi, ha una sua validità se parliamo della Francia metropolitana. A Mayotte, nelle isole Comore, il dipartimento più povero di Francia, continuano a non esistere né AME (Aiuto Medico dello Stato) né la Complémentaire santé solidaire, un aiuto per pagare le spese mediche per chi ha entrate economiche modeste. Mentre nel resto dei dipartimenti francesi l’interruzione di gravidanza è presa in carico al cento per cento dallo Stato, qui le spese sono tutte a carico delle donne, destinatarie di una forte campagna di “invito alla sterilizzazione”.
In ultima analisi va sottolineato che in Francia esiste la doppia obiezione di coscienza, specifica per l’interruzione volontaria di gravidanza. Una sua eventuale abolizione non costringerebbe i professionisti a praticare aborti, potendo questi avvalersi dell’obiezione generica, ma la sua eliminazione avrebbe comunque una portata simbolica.
Durante l’iter di discussione e poi di approvazione del testo di legge costituzionale, molte associazioni transfemministe hanno fatto notare come l’utilizzo del termine “donna” al posto di “persona” potrebbe rischiare di rendere di difficile accesso l’IVG agli uomini trans. Parliamo di associazioni femministe come Nous Toutes, e di centri di Planning Familial, che continuano a subire attacchi dalle associazioni pro-vita, l’ultimo a Strasburgo, dove il 4 marzo scorso è comparsa la scritta “Planning Assassin” proprio davanti a una struttura equiparabile al nostro consultorio.
Evidente è, pertanto, l’importantissimo passo in avanti rappresentato da questa vittoria normativa, che è tuttavia solo parziale. È importante pretendere che questa libertà garantita costituzionalmente diventi un diritto reale e accessibile a tutte e tutti, ed è importante continuare a parlare, nel contempo, di diritto alla salute e alla maternità, lotte che hanno assoluta necessità, con tante altre, di contaminarsi e autoalimentarsi tra loro. (giovanna castiello)
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*disegno da: Ottoeffe, Non siamo figlie di Eva, in: Lo stato delle città, n. 9 / novembre 2022
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