Capita raramente che la lettura di un testo di saggistica sia così stimolante da indurci a riflettere sul nostro modo di abitare il mondo. La sensazione di essere empaticamente partecipi della narrazione, l’abbiamo avuta in questi giorni leggendo l’ultimo libro dell’antropologo Stefano De Matteis, Le false libertà. Verso la postglobalizzazione (Meltemi editore), che interroga il nostro tempo a partire dai mutamenti avvenuti con la rivoluzione tecnologica e con la globalizzazione.
De Matteis ci ritrae interconessi, chini sul cellulare, come sospesi in una bolla d’aria, esiliati dal mondo e da noi stessi. Ma questa immagine non dice tutto, e se guardiamo alle dinamiche relazionali tra le persone, ci accorgiamo che essa è anche in qualche modo fuorviante. A dircelo sono proprio quelle storie, quei “pezzi di vita” raccolti nella sua ricerca sul campo in varie parti del mondo, che contrastano la tesi secondo cui questo nuovo modo di comunicare abbia determinato un ineludibile processo di deculturazione finendo per disintegrare con le identità locali la memoria stessa delle nostre comunità.
Le cose sono più complesse, e sia l’inaspettato incontro all’aeroporto Kennedy di New York con un addetto al controllo dei documenti – che mitizza Napoli attraverso i ricordi del padre –, sia gli scambi avuti con Amitrav e la sua famiglia bengalese, dimostrano invece come il medium informatico sia sempre più adoperato come strumento per tenere unite comunità disperse negli angoli più remoti del pianeta. Da questi microcosmi lontani, la nostalgia della propria terra sembra lentamente sparire per far posto a un nuovo sentimento della contemporaneità che assume il “globale” come una realtà in qualche modo familiare, “locale”. In tal senso è rivelatrice l’amicizia stretta dall’autore con Tariq e la sua famiglia di emigranti pakistani a Londra, che ci permette di scoprire come la loro comunità abbia resistito a diverse forme di esclusione, “mescolando il loro mondo a quello locale”, trasformando un quartiere di una grande metropoli occidentale in Lahore, il loro piccolo paese indiano. Ciò che qui colpisce è una multiculturalità “che non veniva intesa come integrazione, cioè accettazione dell’altro, né era un restare sempre e solo se stessi”.
Nella seconda parte della sua ricerca, De Matteis narra, tra l’altro, la sua esperienza con un gruppo di giovani studenti napoletani tra i sedici e i vent’anni, offrendoci un inedito spaccato del Mezzogiorno in cui la famiglia ha ancora un ruolo dominante, ma con genitori che, diversamente dal passato, nei confronti dei figli non si pongono più il problema di educarli, né di stabilire con loro un vero dialogo; e questo perché essi stessi, incapaci di dare risposte a mutamenti così radicali, avvertono una sensazione di spaesamento e di vuoto. Allora ai figli non resta che apprendere dagli altri, in quanto “la loro vita è divisa tra il grande frastuono dell’esterno cui non sanno come contrapporsi e il silenzio della famiglia”.
Alla trasformazione dei comportamenti tra vecchia e nuova generazione, naturalmente non è estranea quella globalizzazione, “incarnazione del postmoderno”, che ha portato al trionfo della società dei consumi, all’acuirsi delle disuguaglianze sociali, a nuove guerre e povertà in tante parti del mondo. De Matteis riflette su questa acuta contraddizione che in fondo ci porta a considerare errata la tesi espressa da Jean-Francois Lyotard ne La condizione postmoderna, secondo cui la fine delle grandi narrazioni, cioè delle ideologie – ma Fredric Jameson osservò, non senza sarcasmo, che il filosofo francese aveva in mente solo quelle di derivazione marxiana –, avrebbe generato un mondo pacificato, o, addirittura, per Francis Fukuyama, con la caduta dei muri, la fine della Storia. In realtà, la globalizzazione del sistema finanziario, il potere economico concentrato nelle mani di pochi, ha accresciuto in modo esponenziale il divario tra il Nord e Sud del mondo, generando precarietà e privazioni per milioni di esseri umani. Questa rincorsa alla competitività globale, a eccezione delle periodiche esplosioni nelle banlieue delle metropoli occidentali, non ha tuttavia dato origine, osserva De Matteis, a veri e propri conflitti di classe, ma solo a “microconflittualità silenziose”.
Dunque, come uscire da questa postmodernità dove in ogni istante si mescolano vero e falso e ognuno crede che sia giusto difendere esclusivamente i propri spazi individuali, i propri interessi, quelle false libertà generate dal consumismo che impediscono l’incontro e l’accettazione dell’Altro? De Matteis dà una risposta antropologica (e anche psicologica). L’alternativa, dice, non può prescindere dalla cultura, da un processo educativo che parta dal vissuto quotidiano e insegni la generosità, l’apertura verso l’altro attraverso forme partecipative che, come negli antichi riti, prefigurino un “ordine normativo con principi e regole di comportamento”. Il discorso – sul filo di un originale intreccio tra investigazione antropologica e narrazione – è ancora più convincente quando, in conclusione, sulla scia di Kapuscinski, De Martino e Lévi-Strauss, intercetta quel filo invisibile che unisce l’esperienza “come declinazione dell’essere con gli altri” e come responsabilità al Self. È la riscoperta del “noi stessi” nascosto, di una soggettività che trascende la maschera e finalmente ci consente di riscoprire un pensiero critico che decolonizzi il nostro immaginario e ci liberi dalle false libertà della globalizzazione. (antonio grieco)
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