Violenza della polizia non è solo quando un agente stringe il collo di un afroamericano fino a farlo morire soffocato. È violenza anche quando una pattuglia di celere si presenta in forze alle sei del mattino per sbattere fuori casa una donna lavoratrice migrante e suo fratello invalido. Begum Rabeya Bakul e Shahadad Hossein venerdi 14 luglio mattina sono stati sfrattati dalla loro casa nel quartiere romano del Quadraro.
Hossein è sordomuto, quasi cieco e ha un solo polmone: dorme attaccato a un respiratore e ha bisogno dell’aiuto della sorella per quasi tutto. Già nei giorni precedenti allo sfratto non aveva retto la tensione ed era scappato di casa. Rabeya lo aveva trovato perso in mezzo al parco degli Acquedotti, sotto il sole di luglio. Trasferito in un centro di emergenza a dieci chilometri da quello di Rabeya, anche lui rischia di non riuscire più a respirare, come conseguenza della violenza subita.
Rabeya e Hossein da diversi anni faticavano a tenere testa alle richieste ingiustificate e illegali del maxi proprietario immobiliare a cui la polizia ha restituito l’abitazione, e che ora la userà per sfruttare un’altra famiglia migrante. Rabeya è in Italia da trent’anni e per quattordici ha fatto le pulizie all’ospedale Vannini di Torpignattara; poi è stata licenziata con altri trenta lavoratori, e dopo diversi anni di difficoltà, aggravate dal Covid, stava risollevando la testa grazie a un corso da operatrice sociosanitaria e a due nuovi lavori. Con l’invalidità del fratello, il nucleo ha più di trenta punti per accedere a una casa popolare e avrebbe diritto anche agli alloggi di emergenza, ma il Comune preferisce tenerli vuoti, in attesa di chissà quale calamità naturale. Ma quale disastro è peggiore dell’avidità della grande proprietà immobiliare?
Racconto questo ulteriore episodio della guerra delle istituzioni contro la stessa popolazione che le mantiene non solo a onore della cronaca, ma per sottolineare la necessità di mobilitarci in modo più efficace perché queste cose smettano di succedere. I migliori alleati di sfruttatori e palazzinari sono lo scoraggiamento e l’annebbiamento che portano le persone a dividersi in gruppi rivali o in competizione tra loro, quindi a perdere di vista gli obiettivi comuni e la capacità collettiva di raggiungerli. È indispensabile sconfiggere questi fantasmi e riprendere in mano le redini della trasformazione sociale: sfratti e sgomberi possono essere bloccati, le leggi possono cambiare, se c’è una mobilitazione in grado di imporre queste trasformazioni.
Lo sfratto è avvenuto al Quadraro, storico quartiere dell’antifascismo romano, che oggi fatica a trovare le forze per impedire la violenza del nuovo fascismo ultraliberista. Nonostante si trovi in una delle zone di Roma politicamente più attive, tra Torpignattara, Centocelle e la via Tuscolana, circondato da centri sociali e da sedi di organizzazioni politiche, non piú di un pugno di abitanti solidali sono riusciti a organizzarsi per difendere i loro vicini. Questo non è solo un segno del fatto che le strutture militanti stanno dando poco peso alle continue violenze contro gli inquilini più impoveriti; è anche un sintomo dello sfilacciamento sociale del quartiere, a sua volta prodotto della gentrificazione e delle costanti espulsioni della popolazione locale. All’aumento dei locali, delle iniziative culturali e delle installazioni artistiche corrisponde un crollo della solidarietà tra abitanti, oltre che un aumento dello sfruttamento da parte dei proprietari immobiliari. La gentrificazione non porta “capitale sociale” né aumento della coscienza politica sui territori; al contrario, disperde le collettività e indebolisce l’organizzazione politica. Le attiviste e gli attivisti che hanno provato a opporsi allo sfratto sono state strattonate, spinte e minacciate dagli agenti. Un agente dopo aver eseguito lo sfratto ha schiaffeggiato un attivista che protestava.
La via dove abitavano Rabeya e Hossein è una piccola traversa senza nome su via dei Ciceri, quasi tutta proprietà dei discendenti di una storica famiglia di costruttori romani, i Federici. Qualcuno avrà presente palazzo Federici, dove si ambienta il film Una giornata particolare; l’intero quartiere intorno a piazza Bologna è stato costruito da questa stirpe di costruttori. I due fratelli Roberto e Giovanni Federici, che hanno poco più di quarant’anni, hanno ereditato trentacinque case su via dei Ciceri. Sono tutte poco più che baracche di pessima qualità, piene di umidità e di muffa, affittate a migranti (per lo più filippini) a cui i due palazzinari chiedono cifre fuori misura. Già nel 2020 la Asl aveva certificato a Rabeya che la sua casa era di qualità mediocre; poco prima dello sfratto Rabeya stessa aveva commissionato una perizia a un ingegnere, che aveva calcolato che per una casa di quelle dimensioni e in quello stato non avrebbe dovuto pagare più di seicentocinquanta euro. Per cinque anni Rabeya ne aveva pagati ottocento al mese: migliaia di euro di profitto illecito per la proprietà, responsabile anche dei danni alla salute provocati dall’umidità, sia a lei che al fratello invalido.
Com’è ormai abituale, tuttavia, il tribunale di Roma ha ubbidito servilmente ai due proprietari, ordinando lo sfratto per morosità anziché richiedere ai Federici di rispettare le leggi sugli affitti. Dovrebbero essere i proprietari a rimborsare Rabeya e Hossein per i canoni riscossi illegalmente e per i danni causati alla salute di una persona invalida; ma il razzismo e il classismo delle istituzioni fanno sì che siano invece le vittime dello sfruttamento a essere considerate colpevoli, cioè “morose”. L’indifferenza dei media abitua la popolazione a considerare normali queste situazioni, e a naturalizzare l’idea che ogni tanto delle persone che lavorano come muli siano cacciate di casa.
Dopo i primi due accessi dell’ufficiale giudiziario, Rabeya ha chiesto all’Onu di essere considerata persona vulnerabile, pertanto di intervenire per fermare lo sfratto. Come era già avvenuto in altre occasioni, l’Alto Commissariato per i Diritti Umani ha scritto allo stato italiano chiedendo di sospendere lo sfratto o di fornire un’abitazione adeguata alla famiglia. Un trattato firmato dall’Italia nel 2015, infatti, prevede che le commissioni Onu possano intervenire nei procedimenti giudiziari e amministrativi se sospettano il rischio di danni irreparabili. Ma nessuna delle due richieste è stata rispettata dallo stato italiano: il tribunale ha negato la sospensione dello sfratto e il Comune ha negato una casa popolare al nucleo familiare. Un dipendente del commissariato di polizia a cui era stata fatta notare la violazione ha detto espressamente che “lo stato preferisce pagare la multa all’Onu”. I servizi sociali hanno proposto a Rabeya un centro di emergenza per passare le notti (di giorno deve stare per strada), sostenendo che il fratello sarebbe dovuto rimanere fuori. Solo dopo varie proteste davanti ai vari assessorati, il Comune ha riconosciuto di dover dare un riparo di emergenza anche a Hossein. La Asl aveva chiesto che il nucleo non fosse diviso perché Hossein dipende dalla sorella: neanche questa misura è stata rispettata. Il medico legale, su pressione del proprietario, ha certificato invece che Hossein poteva essere portato via. Con un’ironia crudele, l’ufficiale giudiziario ha messo a verbale il cattivo stato dell’immobile per giustificare la necessità dello sfratto. Ma nessuno ha chiesto il sequestro della casa per violazione delle norme sugli affitti.
Le uniche richieste soddisfatte integralmente dalle istituzioni sono quelle dei Federici, a cui la polizia ha fieramente restituito l’immobile. L’avvocato di Rabeya aveva diffidato il commissariato di Torpignattara dall’eseguire lo sfratto; anche il presidente del V Municipio, Mauro Caliste, aveva chiesto al commissario di rinviare l’esecuzione, e al Dipartimento patrimonio di dare una casa di emergenza a Rabeya e Hossein. Nessuna risposta, né dalla prefettura né dall’assessore Tobia Zevi, perché l’unica legge che conta davvero è quella della proprietà. Tutti i funzionari e i politici responsabili di questa violenza, dall’ufficiale giudiziario agli assessori agli assistenti sociali, ripetono il mantra della banalità del male: non posso fare niente, eseguo gli ordini.
E non è vero! È solo per vigliaccheria, se non per compiacenza con gli interessi dei grandi proprietari, che nessuna delle cariche dello stato solleva la questione centrale, cioè l’incostituzionalità di questi sfratti. Se l’Italia non voleva rispettare i trattati sui diritti umani, non c’era bisogno di firmarli. Una volta firmati, però, essi rientrano tra gli obblighi internazionali garantiti dalla Costituzione. Dovrebbe essere semmai la Corte Costituzionale, e non un giudice qualunque del tribunale di Roma, a decidere se prevale il rispetto dei trattati o quello della proprietà. Ma alla Corte Costituzionale possono ricorrere solo altri giudici o cariche dello stato. Nessuno di questi assessori e presidenti lo farà, finché non ci sarà una pressione collettiva perché le istituzioni rispettino almeno le loro stesse leggi, come presupposto per cambiarle. Bloccare gli sfratti a oltranza, come sta succedendo da anni con altre famiglie a Roma (per esempio in via Silvio Latino, dove l’Onu ha chiesto la sospensione ma l’esecuzione viene rimandata ogni mese grazie alla presenza di centinaia di persone ai picchetti, o a via Casale de Merode, i cui abitanti proprio oggi hanno occupato la regione Lazio), significa costringere gli stessi proprietari a fare pressioni sulle istituzioni perché riattivino la concessione delle case popolari. Ma finché a difendere gente come Rabeya e Hossein non ci saranno cento o duecento persone, e non dieci o venti, continueremo ad avere sfratti, violazioni dei diritti umani, soprusi e impunità. Al massimo poi pagheranno le multe, con i soldi degli stessi lavoratori sfrattati. Chissà quanti di loro, già adesso, non riescono più a respirare. (stefano portelli)
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