Nel romanzo di Jack London si racconta il duro lavoro di Martin Eden e Joe, sfruttati in una lavanderia. Faticano per sei giorni, dal mattino sino a notte: lavano, stirano, piegano indumenti e lenzuola per freschi, ricchi clienti d’un albergo. Sono macchine schiave del tempo calcolato: Joe “era l’abile amministratore dei secondi” e “lavorava come un pazzo, ammattito dal lavoro, macchina febbrile, efficacemente coadiuvata da quell’altra macchina, che diceva di essere stato una volta un certo Martin Eden”.
Ogni domenica Joe s’annulla nell’alcol, dimentico di sé. Finché, una sera, si risveglia dal torpore di macchina: “Senti, piantiamo qui tutto – suggerì Joe –. Piantiamo qui tutto, e mettiamoci a fare i vagabondi. Io non ci ho mai provato, ma deve essere un mestiere facile, e con niente da fare”. “Meglio vagabondo che bestia da soma”, esclama Martin Eden, esperto di viaggi per mare. Così Joe s’allontana in libero vagabondaggio, hobo americano nascosto sui treni: “Scese per la strada sino al serbatoio, dove, su di un binario secondario, mezza dozzina di carri vuoti attendevano il merci per l’interno”. Joe non appare in Martin Eden di Pietro Marcello, ma credo d’averlo ritrovato nel primo lungometraggio, Il passaggio della linea (2007). Qui Marcello ha trascorso notti e giorni sui treni regionali, attento a cogliere i volti e le storie di lavoratori pendolari, vagabondi ferroviari. Tra loro s’incontra Arturo, un vecchio libertario, europeista e nemico delle frontiere. Arturo trascorre una vita in viaggio, sedili di seconda classe sono la sua dimora: «Sono sempre stato cittadino del mondo… sono sempre stato libero… il destino segna la strada, noi ci adattiamo alle circostanze del giorno». Fuori la notte si tinge di rosa e paesaggi incantati appaiono dal finestrino. Ne Il passaggio della linea il racconto delle vite in treno si trasfigura in un nuovo viaggio in Italia.
In Bella e perduta (2015) Pulcinella e il bufalotto Sarchiapone calpestano un sentiero di campagna, fra l’erba alta e un casale. La terra è fangosa e il filare di alberi si perde all’orizzonte; hanno giorni di cammino alle spalle. Inviato dal mondo sotterraneo, Pulcinella deve accudire il bufalo e accompagnarlo a nord, alle colline del pastore Gesuino. Ancora un viaggio in Italia: l’erba ora è tagliata e lontano s’alzano sfumati gli Appennini, al tramonto un allevatore conduce le bufale al mare. Mentre Pulcinella e Sarchiapone vanno a zonzo, la campagna casertana si trasfigura nello sguardo nostro stupito: il mondo esplorato dai due strani vagabondi appare adesso peculiare e nuovo. Anche l’evocazione di Martin Eden è un espediente che rinnova la visione. Cosa accade se il protagonista del romanzo di London è inviato nei luoghi cari a Marcello? Che aspetto hanno la campagna punteggiata di bufali (Bella e perduta), i treni popolari (Il passaggio della linea), il fronte del porto (La bocca del lupo), se Martin ci passa accanto con passo ondeggiante? Personaggi d’altri mondi sono richiamati per esplorare una volta di più le apparizioni concrete che abitano ossessive la nostra retina.
Dietro ogni svolta della strada l’imprevisto attende il viaggiatore: la camminata è un’esplorazione che s’adatta all’accadimento inatteso. Afferma Pietro Marcello in un’intervista: «Quello che ho imparato dai documentari è l’imprevisto, farsi le ossa sull’imprevisto, come è stato per la morte di Tommaso. L’imprevisto è la linfa, è la parte alchemica del cinema».
Il piccolo bufalo orfano apparteneva a Tommaso, il pastore che badava alla reggia abbandonata di Carditello. Tommaso è un volontario nel silenzio delle istituzioni: pulisce il terreno dai rifiuti, rinforza le recinzioni, tiene in vita le mura antiche. Quando, all’improvviso, Tommaso muore, la macchina da presa s’avvicina a Sarchiapone e Pulcinella e segue la storia dei due viandanti lungo la strada che lascia la reggia. Anche l’autore di cinema è un viandante, il film è un sentiero nello spazio aperto. Durante il cammino s’incontrano storie diverse: la resistenza di un angelo custode, la mattanza di un bufalo, il racconto di Pulcinella che s’innamora, la vita di un pastore solitario che declama poesie a memoria. Davvero la via, esile filo che connette le vicende, è soggetta alle intemperie, ai cangiamenti di luce e non si può sapere con certezza dove porti. Per questo il cinema di Marcello è una rivolta contro la dittatura della sceneggiatura.
Un film da vagabondi
La dittatura della sceneggiatura domina tanti film di successo. In questi film l’autore conosce dal principio cosa deve accadere, cosa diranno i personaggi, e in quali scenari, quale il significato complessivo e il valore dei simboli evocati. Qui il tempo è ferreo, lineare e calcolato a priori. Spesso questi film dittatoriali – film precisi come macchinari, film a forma di orologio – sono governati da una sceneggiatura intelligente ed equilibrata, ma sono poveri dello stupore scatenato da un’esplorazione. Martin Eden, invece, è un altro film da vagabondi dove il tempo procede incerto, le connessioni logiche si slabbrano, la sceneggiatura non ha potere sulle immagini. L’ascesa sociale del rozzo marinaio è un’occasione per smarrirsi ed esplorare altre storie: i bambini che una volta ballavano felici e che poi sono cresciuti, il riscatto della povera madre di campagna, una nave destinata ad affondare, le condizioni di vita nei vicoli d’una città di mare. La sovversione della sceneggiatura procura sollievo allo spettatore. Egli, viandante fra le immagini, scopre una nuova libertà mentre fuori dal cinema ci attende un mondo governato da copioni già scritti, ruoli definiti, linguaggi che non parliamo ma che ci parlano.
«Il montaggio invece per me è il momento più adrenalinico, più creativo», afferma Marcello. Il privilegio riservato al montaggio dissolve il dominio della sceneggiatura, perché il film si scrive dopo o durante le riprese, ma non prima: «La bocca del lupo è un film che è stato scritto al montaggio, che non poteva essere scritto su carta». Ne La bocca del lupo (2009) l’amore di Enzo e Mary è il tema principale di una partitura che richiama visioni di crolli, uomini in tuffo da un trampolino, onde infrante sul fronte del porto. Sembra vi sia una logica segreta, e carsica, a muovere il montaggio. Ho compreso meglio questa sensazione quando ho letto le note di Artavazd Pelešjan sulla “teoria del montaggio a distanza”. Pelešjan, regista armeno e abitante di Mosca, sostiene che il montaggio non consiste in una giustapposizione di sequenze, ma nella loro separazione: «Mi apparve chiaro che quel che mi interessava, innanzitutto, non era riunire due elementi del montaggio, piuttosto separarli, inserendone tra loro un terzo, un quinto, fino a un decimo». Il film è così una composizione di legami spezzati e distanziati fra loro. Anche il cinema di Marcello procede per richiami interni dislocati a distanza: penso alla danza dei bambini che torna in Martin Eden, o alla statua di Rodin ripresa in rotazione ne Il silenzio di Pelešjan (2011), lungometraggio d’omaggio al maestro. Scrive Pelešjan che il montaggio a distanza «conferisce alla struttura del film non tanto la forma di una solita catena di montaggio, né la forma di una congiunzione di differenti “catene”, ma crea a parte una figura circolare, o, più precisamente, una figura sferica che gira su sé stessa». Immagino che il cinema di Marcello e Pelešjan rifiuti il tempo lineare e lo spazio euclideo per disporsi su una sfera dove il tempo è simultaneo.
Una mente cinematografica
S’inganna il viandante se crede di percorrere un cammino lineare e continuo. In ogni paesaggio, infatti, riposano in stratificazione vari tempi che lo sguardo in movimento può risvegliare, sospendendo il presente. Queste apparizioni temporali rompono la retta sequenzialità d’una camminata, o d’una pellicola. Ne La bocca del lupo rivela una voce fuori campo: «I luoghi che attraversiamo sono archeologie di una memoria». I portici di Genova tratti dalle immagini di repertorio s’accostano alle arcate di un altro presente, il porto di Napoli in Martin Eden appare antico e recente. Secondo Pelešjan i temi visivi montati a distanza si trovano «in diverse posizioni d’interdipendenza compositiva e nel medesimo tempo form[a]no un tutto finito, da cui sprigiona non soltanto la sensazione di legami profondi tra il passato e il presente, ma anche l’idea di un legame tra il presente e il futuro». È il tempo compresente e simultaneo a giustificare l’uso dei materiali di repertorio nel cinema di Marcello. Racconta il narratore di Jack London a proposito di Martin Eden: “Il passato, il presente e il futuro si mescolavano tra loro, ed egli procedeva barcollando, per l’ampio, caldo mondo…”.
Il Martin di Jack London arde d’amore per Ruth e in un attimo d’incanto vede le altre donne della sua vita: “E improvvisamente la sua memoria brulicò di una serie infinita di visioni, di come aveva fatto la conoscenza di varie donne, e per poco non vi si smarrì”. In un “interminabile secondo” si figura una “galleria di quadri” dove l’immagine di Ruth è posta al centro mentre “ai due lati prendevano forma numerose donne, che dovevano tutte venir misurate e pesate con un colpo d’occhio e confrontate con lei”. La memoria di Eden è un sistema di immagini spezzate, in essa tempi differenti s’accalcano in simultanea compresenza. Ancora la “vivace immaginazione” di Martin è un “ampio schermo” capace di interrompere il presente per proiettare una folla di fantasmagorie del passato. Un giorno, mentre egli si trova con Ruth, la mente s’incanta e rammemora “altre scene tra vapori e pennacchi di nebbia”, “bovari al bar”, “il ponte insanguinato del John Rogers, quel grigio mattino che avevano tentato di ammutinarsi”. Infine Martin torna in sé, “alla scena centrale, limpida e serena in quella pura luce, dove Ruth, tranquillamente seduta, conversava con lui tra libri e quadri…”. Scrive altrove il narratore: “E improvvisamente gli balenarono agli occhi mille immagini della città e del porto di Yokohama. Ma scartò rapidamente il caleidoscopio della memoria…”. La mente di Martin, caleidoscopio di memorie, è uno schermo dove appaiono immagini disgregate, incrostazioni temporali distanti ma compresenti. Emerge qui un’analogia sorprendente: l’immaginazione di Martin Eden funziona come il cinema di Pietro Marcello. Mentre la trama si disfa, nel buio del cinema appare in proiezione la facoltà immaginativa caleidoscopica di Martin e del regista. Anche London sapeva che il suo protagonista possiede una mente cinematografica: “…mormorò sotto voce Martin, mentre rievocava le varie fasi di quella lotta. Dato il suo magnifico dono di saper visualizzare ogni ricordo, era come se rivedesse quella lotta in un cinetoscopio…”.
Il cinema di Pelešjan è ancora “un organismo vivente” perché i frammenti montati a distanza mantengono connessioni sotterranee che garantiscono l’unità dell’opera. Credo che Marcello si discosti da Pelešjan per sperimentare un montaggio di frammenti in via di disgregazione. C’è una scena del romanzo di London che ritorna fedele nel film: Martin visita per la prima volta la casa di Ruth e contempla un quadro dove una goletta naviga in balia di una terribile tempesta. La tela attrae Martin che goffamente s’avvicina: “La bellezza di colpo sparì dalla tela. Il suo volto espresse un profondo stupore. Rimase a contemplare ciò che gli sembrava un’incomprensibile serie di macchie e poi si allontanò. Immediatamente la tela riacquistò il suo incanto di prima. ‘Un’illusione ottica’, si disse”. Per Martin l’unità complessiva dell’opera è un’illusione perché, a guardar bene, essa è un montaggio di macchie prive di significato. Il cinema di Marcello mi sembra posizionarsi su una soglia della nostra coscienza, in quell’istante d’indecisione dove i frammenti stanno per raggrumarsi in un senso unitario, dove il senso sta per frantumarsi in macchie e ombre in movimento.
Quand’ero bambino m’ostinavo a fissare immagini a due dimensioni con trame colorate ripetitive, composte da sistemi di forme o di punti. Se fissi l’immagine, dicevano i grandi, una figura esce fuori in rilievo. In particolare ricordo una serie di triangoli viola e blu dalla quale doveva emergere una statua della libertà, ma i miei sforzi erano vani e non riuscivo a visualizzare il disegno promesso. Quelle immagini, ora lo so, si chiamano auto-stereogrammi, e per me sono un’allegoria del linguaggio. La figura in rilievo equivale al significato di un’opera o di una frase, lo sfondo rivela invece il montaggio: aggregazione di forme e colori, mescolanza di elementi linguistici. Come ricorda la voce animale di Sarchiapone in Bella e perduta: «Il senso è forse dato, o forse no». Il senso esiste ma è un’illusione ottica. Chi, come Martin Eden, s’accosta al quadro, dissolve il senso e prende finalmente coscienza della grana materica che tutto compone: il cinema di Marcello è il passo di avvicinamento verso la tela.
In principio, forse, il mondo davanti a noi era una composizione di materia confusa: un’accozzaglia di macchie aggregate senza senso. Nel tempo abbiamo imparato a interpretare, ovvero a dare forma alle illusioni ottiche dei significati, delle verità condivise, dei simboli trascendenti che definiamo “realtà”. Ormai, assuefatti dall’illusione, ne abbiamo dimenticato l’origine e non vediamo più la tessitura sfilacciata delle cose. Il cinema di montaggio di Pietro Marcello potrebbe allora essere un cammino a ritroso verso l’origine, un’occasione per dimenticare quello che ci hanno insegnato e vedere di nuovo il mondo come un caleidoscopio di apparizioni fluttuanti. Questo non è un cinema di realtà – perché la realtà è ancora metafisica, un’altra illusione ottica in rilievo – ma è un cinema politico di apparenze materiali. Sostiene Marcello: «Poi quando dicono cinema del reale, che cos’è il cinema del reale? Non esiste, perché c’è il montaggio. Il cinema sceglie da che parte stare, col montaggio». E Martin Eden: “Mi piace vedere, e voglio vedere sempre di più, e vedere qualcosa di diverso”. (francesco migliaccio)
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