“Scende la sera nell’immobile primavera, la città al tramonto. L’attore resta in casa per tre giorni prima di girare la scena: si disegni il nervosismo nel lividore delle occhiaie. Eppure è quieta la sera, odore di peperoni fritti esce dalle porte lasciate aperte e ci sono richiami, giochi che rompono la tensione d’una giornata. Lui fuma una sigaretta e tutto gli è amaro, anche i resti resistenti dell’umana comunità. Montare alle pareti antenne collegate con un sistema di sorveglianza spaziale. Il futuro appare come tecnologia su polverosi ballatoi, come se il sogno di avvenire fosse invecchiato in una sconsiderata accelerazione degli eventi”. (Appunto autografo di Adolfo B. Casarsa, ritrovato sul verso del quarto foglio della raccolta di storyboard, 23 aprile 1975).
“Cammina inclinato in avanti, occhi a terra sigaretta in bocca. Quando non dipende dal sistema organizzato di consegne, esce. La spesa è possibile nel giorno di riposo dei facchini, operatori generali della distribuzione. Durante la settimana gli spacci alimentari sono frequentati dai membri del direttorio sanitario, guardie sfaccendate, giornalisti e uomini dello spettacolo integrato, funzionari con permesso speciale, avvocati, contrabbandieri del mercato nero. Lui appare di profilo – la sua insofferenza, il suo individualismo colorato d’amore per lei. Che importa della società? Che degli altri legami? Le relazioni con tutti sono soffocanti quanto il regime. Tutti, ma non lei”. (Retto e verso del quinto foglio di storyboard, 25 marzo 1975).
“Per Lei è diverso, a Napoli. Montare insieme le due solitudini, seguire in parallelo due vite mature di rottura. Prova fastidio, Lui, nell’osservare i macchinosi, indigesti gesti quotidiani. E l’eterna sigaretta. Giù dalla ringhiera si vede il vecchio falegname che apre la bottega e lavora, fatica per tenersi occupato. Vocianti istruzioni per la pasta all’uovo volano dai balconi, ma in sottofondo ronza la comunicazione insulsa del governo – «Stiamo scrivendo pagine di storia…»”. (Secondo foglio, 2 maggio 1975).
“«Perché non m’abituo», dice Lui. Intorno vede istituirsi la normalità dell’isolamento forzato. Che la lunga quarantena sia diventata una seconda natura? Prendere spunto dallo Zibaldone di Leopardi, foglio 280: ʻ[…] perché l’assuefazione alleggerisce qualunque male, e l’uomo col lungo uso si può assuefare anche all’intera e perfetta noia e trovarla molto meno insoffribile che da principio. […] Esempio de’ carcerati, i quali talvolta si sono anche affezionati a quella vitaʼ. La città come laboratorio di antropologia. ʻL’assuefazione è una seconda natura, […] che ci fa esser tutt’altri che uomini naturali o conformi alla prima natura dell’uomo e alla natura generale degli esseri terrestri. 29 aprile 1822ʼ. Il protagonista potrebbe leggere Leopardi sdraiato sul letto. ʻPonetelo nelle sventure ed assuefatecelo. Sia pure impazientissimo per natura; col tempo e coll’assuefazione diviene pazientissimo (testimonio io per ogni parte di questa proposizione). 22 giugno 1822ʼ. E così chiude il libro, serra la cerniera della tuta e fugge, fugge via”. (Sesto foglio, gennaio 1976)
“S’allontana lungo la via urbana, esterno giorno in Vanchiglia. Fuma come Jean-Paul Belmondo in Au bout de souffle. Sguardi dai balconi, bisbigli, lontane telefonate forse alla polizia. Marcia indurito mani in tasca. Lui percorre la via e s’avvicina la volante della polizia – sirene dispiegate sotto il sole d’aprile. Il montaggio come nella scena finale del film di Godard. Lo spettatore si disorienta perché non comprende verso quale direzione vada, da quale parte giunga l’auto di pattuglia. Gireremo di domenica e bloccheremo le strade con finti divieti agganciati ai cartelli stradali. La fuga è un pretesto per documentare l’architettura residenziale e industriale della città lungo la Dora. Come appariranno le Officine Grandi Motori nel 2021? Saranno cinquant’anni di dismissione”. (Retto e verso del primo foglio, data non pervenuta).
“Raggiunge la foce del fiume, prima natura. Ed è salvo: si vanno allontanando le sirene dal suono che scruta. La prima notte sul fiume con l’albero. L’albero è il centro dell’inquadratura, come una persona che regge un’addormentata sulle gambe. Lui sdraiato sotto un faggio, esiliato, fugge la città natale. Ogni scena ripete schemi ricorrenti, questa è forse la gabbia in cui mi chiudo. La mia fuga nella fantascienza, scappatoia nella distorsione dello spaziotempo, analoga all’evasione del protagonista”. (Retto e verso del settimo foglio, 22 giugno 1976). (Note a cura dell’Assembramento di Ricerca Cinematografica)
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