dal n. 8 (maggio 2022) de Lo stato delle città
“La conferma che il sottosuolo lucano nascondesse un giacimento molto promettente sotto il profilo industriale, si ebbe con la perforazione del pozzo esplorativo Monte Alpi 1, ubicato nel comune di Viggiano. Avviati i lavori nel 1987, la Snam, del gruppo Eni, raggiunse la profondità di 3.606 metri, quando si registrò un’improvvisa e intensa manifestazione di olio. Il premio economico previsto dalla Snam per l’addetto che avesse segnalato la presenza del greggio, venne assegnato a un operaio proprio di Viggiano, il quale tuttora conserva, senza particolare enfasi, il relativo premio-attestato. Dopo molti mesi di intenso lavoro all’addiaccio della torre di perforazione, secondo contratti che prevedevano turni di dodici ore di lavoro giornaliero, la terra si mostrò ‘generosa’, restituendo il piacere della scoperta, l’onore del rinvenimento, proprio a un viggianese”.
Leggendo questo passaggio dal libro Il Totem nero. Petrolio, sviluppo e conflitti in Basilicata (2012) di Enzo Vinicio Alliegro la stagione petrolifera lucana pare iniziare con un atto, seppur casuale, poetico e mitologico, in quanto fu proprio un lucano a “scoprire” il petrolio in regione. Quel petrolio in ogni dove indicatore di benessere e fonte di ricchezza diventa anche per la regione Basilicata, tra le più povere d’Italia, la frontiera del progresso economico. Ma la storia del petrolio lucano affonda le sue radici molto più lontano di quel rinvenimento datato 1988.
UNA LUNGA STORIA
Già alla fine dell’Ottocento in Val d’Agri, e più precisamente nel comune di Tramutola in provincia di Potenza, si ebbero i primi affioramenti di petrolio, che fuoriusciva spontaneamente dalla terra cosi copiosamente che i pastori evitavano di portare gli animali al pascolo in prossimità di quelle polle maleodoranti e scure presenti in Contrada Caolo di Tramutola. E che si trattasse di petrolio, e anche di buona qualità, lo si certificò quando un’ampolla contenente il nero liquido di Tramutola venne portata all’esposizione di Parigi nel 1878. In quella circostanza una società inglese, dopo una prima analisi, prese a cuore la piccola ampolla e nel 1890 venne in Basilicata ed effettuò dei sondaggi, ma non trovò l’accordo con i proprietari dei terreni e abbandonò l’impresa. Nel 1901 iniziò la ricerca da parte dello stato italiano con i primi sondaggi affidati al regio Corpo delle Miniere. Il responsabile dei lavori, l’ingegnere Camillo Crema, confermò la presenza di petrolio nella zona ma dichiarò che l’entità del giacimento era scarsa e anche negli anni successivi, nonostante le insistenze dei sindaci locali, lo stato non tentò sondaggi più costosi e dunque attendibili.
Sul finire degli anni Venti ci fu la demanializzazione dei terreni e venne sancito con un regio decreto del luglio 1927 che quello che si trovava dopo i venti metri di profondità era bene collettivo e non più del singolo proprietario. Le mire espansionistiche di Mussolini fecero il resto, eliminando definitivamente i piccoli proprietari terrieri dalle trattative. Fu l’Agip (Azienda generale italiana petroli) a coordinare gli scavi dei pozzi nel comune di Tramutola dal 1936 in poi. L’Agip tra il 1939 e il 1947 perforò quarantotto pozzi, di cui ben ventisette a olio, e la produzione risultò accettabile al punto che durante la seconda guerra mondiale il petrolio lucano venne utilizzato per far fronte alle sanzioni che impedivano all’Italia di importare il petrolio dall’estero. Nonostante ciò, le risorse economiche per Tramutola non furono mai sufficienti per portare alla luce l’immenso giacimento che è oggi presente in Val d’Agri. Potenziale che fu scoperto e accertato definitivamente sempre dall’Agip nel 1981, quando iniziò la vera ricerca petrolifera in Basilicata che giunse all’episodio del 1988 raccontato in apertura. Oltre al giacimento in capo a Eni si è aggiunto, nei primi anni del nuovo millennio, un altro grande giacimento in capo alla Total in un’area adiacente alla Val d’Agri, la Valle del Sauro. Dal 1988 sono trascorsi trentaquattro anni e dalla concessione valdagrina l’Eni e la Shell hanno estratto già alcuni milioni di barili di petrolio: in Val d’Agri è presente la più grande riserva petrolifera dell’Europa continentale.
Dopo gli accordi istituzionali del 1988 tra l’Eni, la Regione e il governo, l’estrazione di idrocarburi in Basilicata venne definita strategica per il “fabbisogno energetico nazionale”. Le aspettative create dal nuovo comparto estrattivo erano alte per i lucani che ambivano a un posto di lavoro dignitoso e la portata dell’investimento industriale (circa tremila miliardi delle vecchie lire) appariva risolutiva, ma come vedremo tutto ciò è rimasto quasi solo una speranza. Nel giugno 1998, a Roma, lo schema del protocollo d’intesa tra Eni e regione Basilicata venne firmato dal primo ministro Prodi, ma nel novembre dello stesso anno, quando il protocollo diventa ufficiale, la firma del primo ministro sarà quella di Massimo D’Alema.
La regione iniziò a beneficiare delle royalties come compensazione economica e ambientale e lo stato lasciò la quota parte riservata al ministero del tesoro completamente in capo alla Basilicata in quanto regione “economicamente depressa”. Gli obiettivi dell’accordo sembravano essere tutti a favore della regione. Gli articoli del protocollo prevedevano di sostenere i costi dei progetti diretti alla compensazione ambientale e allo sviluppo sostenibile, contribuire alla realizzazione di importanti infrastrutture in Val d’Agri, dalle strade alla metanizzazione, l’istituzione dell’Osservatorio Ambientale della Val d’Agri, la costituzione di una Società Energetica Regionale che doveva avere tra le finalità anche la distribuzione di energia a basso costo; un articolo istituì borse di studio e dottorati per l’università lucana, si decise di istituire una sede della Fondazione Enrico Mattei in Basilicata e tra gli ultimi articoli c’era un punto fondamentale, ossia quello di concordare con il ministero dell’ambiente un protocollo per eventuali situazioni di emergenza che un’attività impattante come quella estrattiva, sottoposta ai rigidi protocolli di una legge come la Seveso Ter, poteva determinare sul territorio lucano.
Gli articoli erano tanti e scritti bene, ma non tutti sono stati rispettati e messi in pratica ed è possibile constatarlo con alcuni esempi: due tra le infrastrutture stradali strategiche per la regione, ossia la S.S. di Brienza e la S.S. Fondo Valle del Sauro, strade che erano da completare, a oggi sono ancora lontane dal completamento; ci sono comuni lucani ancora non metanizzati; ancora nessun accordo sulla distribuzione dell’energia a basso costo è stato raggiunto tra regione e compagnie; nel 2017 c’è stato un grave incidente ambientale con lo sversamento di oltre quattrocento tonnellate di greggio nei terreni intorno al Centro Olio Val D’Agri dell’Eni a Viggiano e nessun piano per situazioni di emergenza è venuto in soccorso alle popolazioni lucane, e questo perché il piano semplicemente non è mai stato redatto.
L’occupazione era e resta uno dei nodi cruciali della questione petrolio. A oggi gli occupati dell’intero comparto petrolifero in Val d’Agri non vanno oltre le millecinquecento unità, di cui quattrocento sono dipendenti diretti dell’Eni e questo vuol dire che molti di loro non sono lavoratori residenti in Basilicata, mentre la restante parte sono operai dell’indotto, non tutti lucani. Indotto che da qualche anno ha problemi di occupazione stabile e gli scioperi sono frequenti. Anche con l’entrata in produzione del campo petrolifero della Total a Corleto Perticara, sempre in provincia di Potenza, la forza lavoro non è aumentata, garantendo ai lucani solo pochi posti di lavoro a tempo indeterminato. L’impianto di Tempa Rossa infatti ha un numero di occupati ancora più basso rispetto a quello dell’Eni: in totale, tra indotto e Total, meno di quattrocento. Quindi seppure il numero delle imprese lucane coinvolte nella filiera petrolifera è senza dubbio aumentato, il numero degli occupati non è confortante e su queste aziende del comparto petrolifero permangono forti limiti rappresentati dal fatto di essere rimaste concentrate solo nei servizi a minor valor aggiunto.
In realtà, era un dato assodato fin dall’inizio che l’industria petrolifera non avrebbe generato molto lavoro e dunque la governance regionale avrebbe dovuto aiutare i comuni nel generarne di nuovo, soprattutto investendo sulle fonti rinnovabili dove realmente si può creare occupazione e allo stesso tempo cercare un’uscita futura e inevitabile dal petrolio preparando un “campo base rinnovabile” proprio dove si sta “coltivando” cosi intensamente il sottosuolo (e non più il suolo come accadeva nei decenni scorsi con l’agricoltura anche di grande qualità, di cui per fortuna si conservano ancora le tracce). Un altro cattivo esempio del mancato utilizzo delle risorse rinvenenti dal petrolio riguarda appunto il comparto agricolo che risulta dimezzato in tutta la regione, e quindi anche nelle valli petrolizzate, ma qui si avevano a disposizione più risorse per contenerne la caduta vertiginosa.
La produzione petrolifera attuale è di 80 mila barili al giorno per l’Eni nella concessione Val d’Agri dove viene estratto anche il gas che poi dal centro olio Val d’Agri (Cova) di Viggiano in provincia di Potenza viene immesso nella rete nazionale della Snam adiacente all’impianto di trattamento dell’Eni, un grande vantaggio in termini economici per la compagnia. Dall’altra concessione, denominata Gorgoglione, la Total estrae 40 mila barili di petrolio al giorno e a valle del suo centro olio Tempa Rossa, costruito a 1.050 metri di quota, è presente un deposito di stoccaggio del Gpl con delle baie di carico già attive per la vendita dello stesso: anche qui si estrae oltre al petrolio il gas. E questi sono numeri destinati a crescere perché la soglia per Eni è fissata a 104 mila barili giorno e per Total a 50 mila barili giorno che porteranno nelle casse della regione Basilicata e dei comuni ricadenti nelle due concessioni molti milioni di euro di royalties.
Le royalties sono state reintrodotte dallo stato italiano nel 1996 al fine di indennizzare i territori. Per le attività di idrocarburi hanno una duplice natura: compensano sia lo sfruttamento delle risorse presenti nel sottosuolo che le conseguenze procurate in termini ambientali. Dal primo gennaio 1999 lo stato ha disposto per legge che anche la parte delle aliquote a esso riservata venga versata alle regioni meridionali a statuto ordinario e quindi la Basilicata ha ottenuto fin da subito un sette per cento netto sul valore del barile di petrolio, mentre dal 2009 si è passati a un definitivo dieci per cento, con l’eliminazione della quota che finanziava la famigerata “card carburanti” riservata ai lucani patentati, una vera e propria stortura perché i soldi tornavano nelle casse delle multinazionali del petrolio. Dacché l’estrazione è cominciata la regione e i comuni hanno beneficiato di una cifra che ha superato nel 2021 i due miliardi di euro. Ma stabilire quanto hanno realmente inciso finora le royalties sul bilancio regionale e quale sia l’incidenza sulla spesa corrente piuttosto che su quella in conto capitale è impresa quasi impossibile.
Come già accennato gli accordi prevedevano destinazioni che propendevano verso spese in conto capitale. In questa direzione la Basilicata ha finanziato il Programma operativo Val d’Agri (Pova) con una dotazione di trecentotrenta milioni di euro, operativo dal 2003 ma le cui risorse non risultano a oggi totalmente impiegate. Peraltro, cercare un dato che indichi le cose fatte attraverso lo strumento del Pova all’interno dei siti istituzionali non è facile. Per capire come sono stati utilizzati i soldi delle royalties in Basilicata, vista le difficoltà nel recuperare dati certi, bisogna affidarsi a dichiarazioni fatte dai politici a capo dei vari governi regionali.
Un esempio per capire la confusione che si genera quando si parla di queste risorse può venire da dichiarazioni sul gettito di royalties che sono state versate per la sanità lucana. L’ex presidente Vito De Filippo, in carica fino al 2013, sostenne che le royalties impegnate per la sanità arrivavano fino a trenta milioni all’anno, mentre il suo successore Pittella, in carica fino al 2019, sosteneva che fossero pari a zero. Stabilire la verità non è facile, di certo però le risorse derivanti dal petrolio nella spesa sanitaria non dovevano entrarci per nulla, come non dovevano entrarci nel sostegno ai programmi di forestazione e delle Vie Blu. Le royalties del petrolio hanno assunto così un mero valore di bancomat e non di strumento per realizzare tutte le misure previste dagli accordi del 1998.
LE INCHIESTE
In Basilicata il petrolio lucano è ormai centrale nel dibattito politico e ultimamente anche in quello che riguarda la legalità. Nel 2016 la procura di Potenza ha aperto un’inchiesta su un probabile traffico illecito di rifiuti speciali, tra il Cova di Viggiano e il Tecnoparco di Pisticci Scalo, società di trattamento di rifiuti industriali nella vicina Val Basento, zona tra l’altro già interessata dall’estrazione di gas da parte dell’Eni durante la gestione Mattei all’inizio degli anni Sessanta. L’inchiesta ha coinvolto dipendenti dell’Eni, imprenditori dell’indotto e funzionari della Regione. All’Eni si contestano la sostituzione arbitraria e illecita dei codici Cer (Codice europeo rifiuti) che permetteva di trasformare da pericolosi a non pericolosi i rifiuti speciali in uscita dal Cova; e si contestano le mancate comunicazioni di superamento dei parametri degli inquinanti rilasciati in atmosfera. È stato sequestrato il pozzo reiniettore delle acque di lavorazione Costa Molina 2 a Montemurro. La procura nelle motivazioni ha scritto che, da parte di alcune maestranze Eni, c’è stata “una cosciente volontà di eludere i controlli stabiliti per legge sulle matrici ambientali interessate dall’attività dell’Eni”, da cui “deriva un modus operandi delittuoso nel settore ambientale”. L’inchiesta ha portato nel marzo 2021 alla condanna in primo grado di ben sei dirigenti Eni, comprese figure apicali, oltre a un funzionario della Regione oggi in pensione, direttore di un ufficio determinante per le autorizzazioni utili all’estrazione.
I danni ambientali si sono manifestati a più riprese. Nel febbraio 2017 viene scoperto uno sversamento di quattrocento tonnellate di greggio dai serbatoi del Cova. Da un tombino della rete fognaria della zona industriale si evidenziò la perdita di greggio e il danno ambientale fu subito evidente. I carabinieri del Noe sequestrarono il tombino dell’area consortile e la Regione dispose il fermo del Centro Olio, durato ben quattro mesi, mentre la procura di Potenza contestava all’Eni il reato di disastro ambientale. Lo sversamento non rimase circoscritto all’area di lavoro ma raggiunse località Campestrini, nel comune di Grumento Nova, dove con un’ordinanza del sindaco venne vietato il prelievo delle acque dai pozzi artesiani e il pascolo. La zona è molto vicina all’invaso del Pertusillo, uno dei serbatoi d’acqua potabile più grandi del meridione.
Alla luce di questa lunga disamina, sulla scorta dei danni ambientali accertati, dei tanti campanelli d’allarme sullo stato della salute dei residenti a Viggiano e Grumento, della scarsa attuazione di quelli che erano gli intenti degli accordi del 1998 e anche di un reale mancato investimento alternativo al petrolio da parte dell’Eni e della Total, possiamo asserire che la vicenda petrolio ha molti più svantaggi che vantaggi e soprattutto che una nuova stagione economico-sociale in Basilicata senza petrolio davvero non sembra possibile, eppure la transizione energetica cosi tanto discussa certo non può passare per una risorsa fossile anacronistica, e fortemente impattante, come il petrolio. (mimmo nardozza)
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