Il film Il loro natale, diretto da Gaetano di Vaio e prodotto dalla casa di produzione napoletana I figli del Bronx, presentato a settembre nella sezione fuori concorso “Controcampo italiano” alla mostra del cinema di Venezia, è un documentario che descrive la vita quotidiana di donne, mogli e figlie di detenuti rinchiusi per reati comuni nelle carceri di Poggioreale e Secondigliano. Le protagoniste raccontano le loro vite, sono intervistate all’interno delle proprie abitazioni in un clima prenatalizio, familiare, di fronte a una telecamera che ha fretta di registrare queste voci dissonanti. Il carcere non è l’oggetto principale del film, semmai rappresenta lo sfondo lugubre sul quale si intrecciano le esistenze e i racconti che si sviluppano nel tempo.
Lo sguardo si posa su ciò che accade appena fuori le mura ai parenti dei detenuti, che pur non essendo fisicamente dentro è quasi come se lo fossero. Bastano le scene delle file interminabili fuori al portone del carcere di Poggioreale in attesa del colloquio settimanale e le affermazioni e i lamenti dei familiari in fila a rendere l’idea.
I ritratti che emergono sono quelli di Titina, Mariarca, Maddalena e Stefania, “vittime” (del destino, della storia o di qualcos’altro?) attraverso le quali il regista mette in evidenza i principi che fungono da architrave del film: la descrizione del mondo di povertà immediatamente fuori dal carcere; la condizione di un sottoproletariato abbandonato da stato e istituzioni ma non per questo interno ai meccanismi delle organizzazioni criminali; l’assenza di garanzie di recupero e riabilitazione per i detenuti.
Lo sguardo di Di Vaio penetra senza indugi nella realtà che osserva, riuscendo a “specchiarsi” con disinvoltura, come se quelle storie gli appartenessero (e sotto un certo aspetto gli appartengono). Ci mostra un reale senza orpelli al punto da rendere intimo ogni racconto personale al di là degli stessi contenuti. Il risultato è un film in presa diretta, con qualche sbavatura, del resto inevitabile se si considera l’irrequietezza con cui le scene si susseguono. Le immagini non riducono la complessità di queste vite condizionate ma le mostrano per ciò che sono nella loro immediatezza. Storie non proprio al margine, come si vorrebbe far credere. Quello che vediamo in effetti è un mondo di vittime, ma non per questo privo di quel potenziale e ideale orgoglio capace di spazzare via ogni forma di mero vittimismo, ogni passiva accettazione, ogni debolezza. Non si tratta semplicemente di un popolo degli abissi, della suburra dei disperati, di un mondo a parte o peggio ancora della “plebe”. È un mondo che appartiene al regista tanto quanto allo spettatore, o almeno dovrebbe. Eppure alcune scene del film dicono tutto ma è come se non dicessero niente. Troppo urgenti per essere approfondite, esse rivelano appena altri argomenti di maggiore rilievo, senza lasciare spazio a una riflessione più acuta proprio quando se ne avverte il bisogno, proprio per il loro carattere impellente, perentorio, per via di un linguaggio diretto, che ha fretta di dire, di denunciare, di testimoniare.
Infine, il lavoro di Di Vaio appare decisamente migliore del docufiction Napoli Napoli Napoli sempre prodotto dai Figli del Bronx, se escludiamo le interviste alle detenute della casa circondariale di Pozzuoli, presenti nel film diretto da Abel Ferrara e di cui Il loro Natale è un ideale e meritorio sviluppo (ma un film va considerato nel suo insieme, e nel caso dell’operazione affidata a Ferrara il risultato è fastidioso, la somma di finzioni melodrammatiche finisce per stridere con le immagini documentarie e “reali”).
Sembrerà grossolano, ma nel vedere questo documentario mi è venuta in mente la pagina di un romanzo di Vasilij Grossman, quella in cui Ivan Gregor’evic torna in città dopo trent’anni di prigionia, e mentre cammina estraniato per le strade di Leningrado pensa che tutto sommato c’è poca differenza al di qua del filo spinato: «Guardando le finestre della polizia di Leningrado, ascoltando – seduto alla sua opulenta tavola – i discorsi del cugino, osservando l’insegna dell’ufficio passaporti, Ivan Grigor’evic aveva percepito l’odore di caserma (…). E aveva confusamente pensato che non occorreva più il filo spinato, che la vita al di qua del filo poteva essere comparata, nella sua essenza più nascosta, a quella delle baracche della prigione». (andrea bottalico)
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