Mi innamorai del ciclismo nell’estate del 1997. Avevo quasi undici anni, e durante una vacanza in Francia scoprii che lo sport poteva andare addirittura al di là del pallone, mio unico interesse agonistico fino ad allora. Il viaggio sui Pirenei – che già mi aveva turbato per la scoperta che nel mese di luglio potessero esistere in qualche parte del mondo temporali simili – fu interrotto per una manciata di ore dal passaggio del Tour de France, ma tanto bastò per farmi avvicinare e poi appassionare alle imprese di un ciclista italiano di cui tutto il mondo parlava già da un po’, e che amava correre col sole ma staccava tutti anche sotto il diluvio.
Ieri, la prima dello spettacolo di Marco Martinelli sulla vita e sulla figura di Marco Pantani è andata in scena al Teatro Nuovo. Uno spettacolo dalla durata di quasi tre ore, concepito in due lunghe parti che dividevano (più o meno) la narrazione tra l’ascesa e la caduta di uno dei più grandi ciclisti italiani del secolo scorso. I personaggi che si avvicendavano sul palco hanno raccontato con un buon equilibrio tra la cronaca e il coinvolgimento emozionale la vita di Pantani: la sua adolescenza, i suoi maestri e i suoi trionfi; la giornata di Madonna di Campiglio, il ritiro forzato dal Giro del 1999ei problemi con la cocaina, la “sostanza”, come la chiamava Marco.
A tenere le redini del racconto è il personaggio di Philippe Brunel, giornalista francese dell’Equipe e amico di Pantani, che in un importante libro (Vie et mort de Marco Pantani, poi tradotto e sviluppato da Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso in un nuovo testo, Gli ultimi giorni di Marco Pantani, edito da Rizzoli)ha dato vita a una lunga e dettagliata inchiesta sulla vita e la morte prematura – avvolta da molti dubbi – del corridore romagnolo. Il resoconto dell’inchiesta lascia tuttavia il giusto spazio, fino talvolta a farsi sopraffare, ai racconti della madre Tonina (personaggio orgoglioso e a tratti inquietante, grazie alla bravura dell’attrice Ermanna Montanari), del padre Paolo e della sorella Manola, dei compagni-amici-gregari Roberto Conti e Fabiano Fontanelli. I ritratti delle persone che hanno segnato la vita di Pantani vengono così messi in scena, o tratteggiati dai personaggi sul palco, senza mai estromettere il contesto in cui si sviluppa l’azione, proprio tra la nascita dell’impero politico-mediatico berlusconiano e quel suo “post” che tuttora attraversiamo, faticando a decifrarne le fattezze. Tra i più efficaci di questi abbozzati ritratti c’è quello del direttore sportivo della Mercatone Uno, Luciano Pezzi, storico personaggio del ciclismo italiano, punto di riferimento per Pantani, così come lo era stato durante l’infanzia e l’adolescenza il nonno Sotero.
Anche il racconto di quello che con ogni probabilità fu un complotto ai danni di Pantani – fermato per ematocrito alto durante un Giro d’Italia che stava stravincendo, sulla base di un esame che sarebbe stato dichiarato inattendibile dopo appena sei mesi – viene ripercorso con lucidità, senza appesantire l’aspetto drammatico. Viene fuori la figura di un atleta amato all’esasperazione dai tifosi e dai compagni (un “Ghandi in bicicletta”, come aveva avuto modo di definirlo Gianni Mura), ma meno dal resto del “gruppo” – astioso nei suoi confronti a causa dei grandi e numerosi trionfi – e dalle istituzioni sportive. Le stesse che non gli perdonarono mai l’essersi fatto portavoce delle rivendicazioni (più o meno giuste che fossero) e delle richieste di tutela da parte dei ciclisti, in ambito antidoping.
Alla fine dello spettacolo, un filmato girato probabilmente su quella riviera romagnola che Pantani tanto amava (e su cui, racconta Tonina, tante volte da ragazzino aveva fatto a botte con i bolognesi, che volevano sentirsene padroni, dall’alto dei loro macchinoni e vestiti firmati) ci restituisce il Marco privato, raccontato fino a pochi secondi prima nel pieno della sua dipendenza dalla droga. Torna, pur senza essere stavolta pronunciata, la frase che la stessa Tonina aveva sussurrato all’inizio dello spettacolo, e che si ripresenta in ogni occasione in cui il confine tra divo, campione e uomo, viene messo in discussione: «Ne valeva la pena?». Valeva la pena perdere un figlio, un fratello, un amico, un uomo di trent’anni per regalare al mondo una manciata di grandi imprese, e sogni sparsi qua e là ai suoi tifosi?
Difficile a dirlo. Troppo coinvolti, da lettori prima e spettatori poi, nell’assurda storia del Pirata e della sua famiglia, per non dire che forse no, sarebbe stato meglio che Marco avesse smesso prima dei trionfi, prima di diventare Pantani, dopo uno dei tanti, bruttissimi incidenti capitatigli. Certo così ora sarebbe ancora qui, nel negozio di piadine della madre, o aiutando il padre ad aggiustare tubi. Ma forse siamo troppo egoisti, da queste parti (quelle dei tifosi), per non rispondere di sì. (riccardo rosa)
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