Avevo dieci anni la prima volta che ho messo piede in una biblioteca. Era l’estate tra la quinta elementare e l’inizio della prima media. L’estate in cui avrei abbandonato le bambole, ma non ancora Ken e Barbie. Mia madre, preoccupata del mio ozio estivo, liberato finalmente dai compiti per le vacanze, pensò bene di trascinarmi nella biblioteca comunale del mio paese ai piedi del Pollino, a scegliere un libro da recensire per un concorso dedicato a piccoli lettori e lettrici. La prima impressione, entrando, fu quella di varcare la soglia di un ufficio della burocrazia dove a volte accompagnavo di malavoglia i miei a fare i servizi.
Tutto era asettico e caotico insieme: uno stanzone silenzioso, dalle pareti bianche, su cui erano poggiati scaffali grigi e bassi. I libri, disposti in ordine alfabetico con le dovute fascette bianche, stavano lì come stanno gli oggetti nelle teche dei musei: composti e immobili. Qualche sedia di metallo sparsa per la stanza fungeva da sala lettura.
Fu mia madre a scegliere il libro: Lessico famigliaredi Natalia Ginzburg. Ricordo di averlo letto a fatica e di averci capito ben poco, ma scrissi comunque una recensione, che non vinse il concorso.
Lessico famigliare fu archiviato nella memoria come “libro x” fino a quando, qualche anno fa, non l’ho ripescato da un banco dell’usato e l’ho letto d’un fiato. Quello fu il primo e l’ultimo libro preso in prestito e anche la mia prima e ultima visita lì dentro.
Ci vollero altri dieci anni prima di riaffacciarmi in una biblioteca, quando dalla provincia del sud iniziavo ad abituarmi alla vita da studentessa a Bologna; solo allora ho capito cosa può essere una biblioteca. Innanzitutto mi colpì il numero di biblioteche in città: ogni quartiere, anche quello più periferico, ha una biblioteca comunale che, oltre al prestito, viene usata da associazioni e gruppi per proporvi attività, anche non necessariamente legate alla lettura.
Il primo impatto fu con Sala Borsa, un enorme edificio della Camera di Commercio rifunzionalizzato in biblioteca comunale nel 2001: qui tutto il materiale è consultabile prima di essere preso in prestito, anche senza iscrizione. Oltre ai libri: film, libri fotografici, di arte e architettura, guide turistiche, riviste, anche straniere, a cui è dedicato un ampio spazio di consultazione, spesso frequentato da persone senza fissa dimora che lì trovano un posto comodo e al caldo per leggere il giornale.
All’ingresso, una grande sala lettura dedicata ai più piccoli e alle più piccole, con sedie e scaffali colorati a misura di bambina, pieni di albi, libri illustrati e giochi. I bibliotecari e le bibliotecarie accolgono i bambini e le bambine, giocano con loro, leggono libri ad alta voce, indirizzano alla lettura in base all’età. Non ho potuto fare a meno di chiedermi come avrebbe giovato alla mia curiosità se a dieci anni invece di entrare nella biblioteca del mio paese fossi entrata lì dentro.
A Bologna, più che le biblioteche comunali, frequentavo quelle universitarie, dove i libri facevano da cornice a ritrovi di gruppo, stress pre-esame, fughe da appartamenti sovraffollati in cerca di quiete, nuovi incontri nelle prolungate pause-sigaretta. La mia preferita, però, era una biblioteca di quartiere, al vicolo Bolognetti, aperta fino alle 22. Qui si incontravano facce conosciute, insegnanti che preparavano le lezioni, nonni con i nipoti che prendevano o restituivano i libri in prestito, signore all’appuntamento del gruppo di lettura del giovedì, ragazzi spesso non italofoni che usavano le postazioni pc e l’accesso gratuito a internet.
Quella biblioteca mi sembrava un continuo attraversamento di traiettorie che difficilmente avrebbero potuto incrociarsi nello stesso luogo, eppure erano lì, dove i libri non veicolavano solo la lettura, ma anche altre urgenze, come il non isolarsi nella propria stanza, incontrarsi per condividere riflessioni su un libro che si sta leggendo, ma anche avere un accesso gratuito all’informazione o a un computer o, per chi non ha una casa, avere un posto accogliente dove poter leggere un giornale.
A poco a poco si facevano sempre più chiare in me queste considerazioni: primo, che Ken&Barbie e Natalia Ginzburg sono incompatibili; secondo, che l’accesso alla cultura è una questione di classe, razza, ma anche di geografia; terzo, che se cresci e vivi al sud probabilmente non saprai mai cosa può essere una biblioteca.
Visitando le biblioteche comunali napoletane, parlando con chi ci lavora e intervistando i responsabili, queste riflessioni trovavano, purtroppo, sempre più conferma. Raccontare lo scarto, renderlo visibile, non può però rimanere incastrato nel solito confronto nord-sud, ma deve spingersi oltre. La posta in gioco è un diritto alla città che, nel caso delle biblioteche, come di molti servizi essenziali, è spesso svilito in nome di altri interessi, in primis quelli economici portati dalla turistificazione massiva. Di tutta risposta, dietro lo scudo della mancanza di fondi e di “altre priorità”, si cela una pigrizia istituzionale che non mette in atto alcuna strategia per colmare questo scarto, per togliere il margine dal margine. Raccontarlo, questo scarto, significa allora evitare che rimanga solo uno scarto da raccontare, ma farne terreno fertile di riflessione e (re)azione, moltiplicarne l’eco.
LO STATO DELL’ARTE DELLE BIBLIOTECHE COMUNALI NAPOLETANE
A Napoli ci sono quattordici biblioteche comunali, collocate soprattutto in periferia: San Pietro a Patierno, Scampia, Ponticelli, Barra, San Giovanni, Soccavo, Pianura, Secondigliano, Bagnoli, Poggioreale, Fuorigrotta, Vomero, San Carlo all’Arena e Montecalvario. Spesso unici presidi culturali nella zona, sembrano luoghi in cui il tempo è rimasto fermo per anni, come la selezione dei libri sugli scaffali, che non sembra aggiornata dal primo allestimento, come i giornali vecchi negli espositori, dal momento che da anni si è interrotta la fornitura di quotidiani e riviste, fermo come l’accesso a internet, mai installato. Questa sensazione di stasi è accentuata poi dall’assenza di una programmazione culturale che le renda luoghi vivi, in cui il sapere può circolare in modi diversi.
Ad accogliermi, bibliotecari(e)-non bibliotecari(e), spesso sulla via del pensionamento, che ancora prima che glielo chiedessi, confessavano di non essere bibliotecari(e) ma funzionari(e) comunali e di aver appreso da soli il mestiere senza aver avuto alcuna opportunità di formazione. In nessuna delle biblioteche visitate ci sono postazioni computer. Il wi-fi, richiesto più volte alla municipalità, non è mai arrivato. Tranne rare eccezioni, il prestito è poco utilizzato e in genere è più frequente che studenti vadano lì a studiare con i loro libri e il loro computer, oltre che muniti di chiavetta personale per connettersi a internet. In molte biblioteche, inoltre, l’orario di apertura ridotto dalle 9 alle 14 a causa della riduzione del personale disincentiva bambini(e), studenti e studentesse delle superiori e universitari(e), soprattutto dei paesi limitrofi, a frequentarle. Alcune biblioteche, come quella di Piscinola, a causa di mancanza di personale, sono chiuse al pubblico a tempo indefinito. Per quanto riguarda la digitalizzazione dei titoli, non tutte le biblioteche li inseriscono sull’Opac (il catalogo digitalizzato delle biblioteche) rendendo ancora più farraginosi la ricerca e il prestito interbibliotecario.
A Napoli il disinvestimento nelle biblioteche comunali ha risentito del decentramento, a partire dal 2007, di alcune funzioni amministrative alle municipalità, a cui sono state affidate, tra le altre, anche l’istituzione e la gestione delle biblioteche e di centri culturali polivalenti. Sotto le dipendendenze della municipalità, le biblioteche sono pressoché dimenticate dall’agenda politica. Annamaria Palmieri, attuale assessora alla cultura, sostiene che «la spesa per il loro mantenimento (in termini di personale e manutenzione) incide sulle singole municipalità e sui loro asfittici bilanci. Dal centro il Servizio Cultura le governa e si occupa delle forniture di libri nonché della partecipazione negli ultimi anni a bandi promossi dal ministero per la promozione del libro e della lettura. Proprio lo scorso anno, è stato garantito un investimento dal Fondo messo a disposizione da Franceschini in termini di acquisto libri e abbiamo investito circa 90 mila euro in nuove opere». Dalle mie visite recenti nelle biblioteche e dalle interviste al personale, tuttavia, i libri acquistati da questo fondo non risultano ancora arrivati, né sono state date informazioni al riguardo ai dipendenti.
Nel bilancio del comune di Napoli nell’anno 2020, in effetti, le biblioteche non compaiono in nessuna voce del budget di spesa. Anche Nino Daniele, penultimo assessore della giunta de Magistris, conferma che l’assessorato alla cultura non dispone di alcun budget da investire in valorizzazione delle biblioteche e del patrimonio librario e che gli unici finanziamenti provengono da bandi regionali o ministeriali su progetti specifici. Nel pieno della turistificazione che attraversava Napoli in periodo pre-covid, alcune iniziative culturali sono state finanziate con le tasse di soggiorno, spiega l’ex-assessore. «Non c’è una strategia per le biblioteche. Quello che il Comune fa è mettere a disposizione degli spazi, come quello in cui ora c’è la biblioteca Annalisa Durante a Forcella, che vanno avanti grazie a donazioni e alle risorse che ci sono».
In passato timidi tentativi di valorizzare le biblioteche comunali si sono accennati a livello istituzionale, come quelli dell’assessore alla cultura Diego Guida, durante il secondo mandato della giunta Iervolino, in cui sono state aperte nuove biblioteche in alcuni quartieri di periferia, è stato riformato il regolamento delle biblioteche in materia di acquisto, aggiornamento e catalogazione e sono stati richiesti fondi per l’aggiornamento di titoli («un mutuo di 200 mila euro alla Cassa depositi e prestiti per l’acquisto di libri in librerie indipendenti – mi spiega Guida in un’intervista telefonica – che non si sa ancora se è stato speso effettivamente, perché ci sono stati problemi con la ragioneria»).
O quello di Antonella Di Nocera, assessora alla cultura durante il primo mandato de Magistris, che in un Comune pre-dissesto e senza fondi, ha organizzato, insieme ad associazioni di promozione della lettura come A voce alta, un programma, itinerante tra le biblioteche comunali, di incontri con autori, presentazioni di libri e laboratori di scrittura. Si tratta tuttavia di casi isolati nel vuoto di una progettualità di lungo termine che veda le biblioteche come presidi territoriali di accesso gratuito alla cultura e all’informazione, luoghi di formazione permanente di bambini e adulti.
INVESTIMENTI, PER CHI? L’AMBIGUA COPPIA TURISMO-CULTURA
Nel Recovery Plan, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), l’“intervento epocale” che entro il 2026 dovrebbe riparare i danni economici e sociali causati dalla pandemia, 1,1 miliardi di euro sono destinati al “patrimonio culturale per la prossima generazione”, ossia musei, aree e parchi archeologici, biblioteche, archivi, teatri e cinema. Gli obiettivi sono “promuovere la trasformazione digitale del Paese, sostenere l’innovazione del sistema produttivo, e investire in due settori chiave per l’Italia, turismo e cultura”. Le linee di intervento relative alla cultura, in effetti, sono inserite nella visione di un patrimonio culturale al servizio dell’industria del turismo, come dimostra l’attenzione rivolta a “quattordici grandi attrattori culturali”, tra cui c’è anche il Real Albergo dei Poveri, a Napoli, in piazza Carlo III, a cui sarà destinato un investimento di cento milioni di euro per convertirlo in un nuovo polo museale e di formazione.
Il vincolo che questi bandi impongono in termini di crescita economica non giova sicuramente alla valorizzazione delle biblioteche, considerate improduttive e passive in termini economici.
Il rischio di far coincidere il supporto alla cultura con un incremento del turismo è un’altra delle facce che potrebbe assumere il progetto “Procida capitale della cultura 22”, salutato con entusiasmo dai più, e che di fatto si inserisce in una logica di mega-eventi e manifestazioni in cui lo straordinario si impone sull’ordinario, fornendo così un’alibi ai processi di privatizzazione e turistificazione, come spiegato bene in questo articolo. In un momento in cui l’industria della cultura e quella del turismo figurano tra i settori più colpiti dalle conseguenze della pandemia, la fiducia incondizionata nei confronti delle virtù del turismo potrebbe continuare a far scomparire dall’agenda politica i presidi territoriali di cultura, come le biblioteche, i teatri, i musei, i cinema di quartiere, continuando a investire su una fruizione della cultura mordi-e-fuggi, senza alcuna progettualità di lungo termine per chi i territori li abita e non li consuma di passaggio.
Eppure, nel caso delle biblioteche, si potrebbe partire da poche, indispensabili, mosse: pubblicare concorsi pubblici per bibliotecari(e) o formare il personale in servizio, attrezzare le biblioteche con postazioni pc e installare il wi-fi, riprendere la fornitura di quotidiani e riviste, stipulare convenzioni con le università per tirocini curriculari, coinvolgere gruppi e associazioni di quartiere che possano proporre attività, ma anche librerie e associazioni che contribuiscano a creare una programmazione culturale, fare rete con le altre biblioteche e con le realtà già presenti nei territori. Se si considera che le biblioteche napoletane sono situate quasi tutte in territori di periferia, una progettazione mirata potrebbe dare alternative concrete a quei problemi che spesso diventano gli unici filtri con cui viene rappresentata la periferia: microcriminalità, dispersione scolastica, spaccio…
UNA MAPPA NARRATA DELLE BIBLIOTECHE
Quante sono e quali sono le biblioteche comunali a Napoli? Che libri si trovano? Come funziona l’accesso, in quali orari? Chi ci lavora? Chi le attraversa? Come è la relazione con il quartiere? Quali iniziative si svolgono e si possono svolgere al loro interno?
Queste sono alcune delle domande da cui parte questo viaggio nelle biblioteche comunali napoletane, che verrà raccontato in brevi reportage a puntate. Il desiderio è quello di portare all’attenzione questi luoghi dal potenziale prezioso, luoghi che non vanno “tutelati”, ma aperti, vissuti, attraversati. Luoghi che, con una programmazione attenta e una partecipazione attiva, possono diventare incroci di bisogni diversi, piccole cellule di resistenza all’isolamento, dove i libri vanno oltre i libri e dove cultura smette di essere sinonimo di privilegio. (cecilia arcidiacono)
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