Il 29 marzo FedEx Tnt ha annunciato la chiusura del magazzino di Piacenza, uno dei più importanti hub della logistica in Italia. I flussi di merci non sono mai diminuiti e la multinazionale li ha deviati in altri magazzini dell’area padana. Fra questi l’hub di Peschiera Borromeo e gli snodi di San Giuliano Milanese e Tavazzano, controllati entrambi dalla holding Zampieri. In questa primavera i facchini di Piacenza hanno continuato la lotta e hanno bloccato la filiera in diversi punti. La sera del 27 maggio i lavoratori hanno tentato un blocco presso il magazzino di San Giuliano, ma i cancelli erano presidiati da lavoratori di Zampieri e da bodyguard assoldati per l’occasione, guardie private camuffate con pettorine fluorescenti. Secondo i testimoni le guardie possedevano bastoni di ferro, di legno e taser. Le guardie private avevano protetto il magazzino di San Giuliano già nell’estate del 2020, senza mimetizzarsi fra i lavoratori. Il 27 maggio a San Giuliano la polizia ha ignorato i bodyguard, mentre ha accerchiato i lavoratori piacentini in lotta e li ha identificati.
Ieri sera, 11 giugno, quaranta facchini di Piacenza hanno organizzato un picchetto ai cancelli del magazzino di Tavazzano. Fra loro vi è anche Haitam. «Ieri siamo partiti da Piacenza e siamo andati al magazzino di Tavazzano, creato da Zampieri», racconta Haitam. «Lì stanno lavorando la merce di FedEx che prima passava da Piacenza. Dopo dieci minuti sono arrivate le macchine dei carabinieri, poi dopo un’oretta e mezza sono usciti i lavoratori che erano dentro il magazzino insieme ai bodyguard. I bodyguard appartengono a un’agenzia che sempre ha lavorato per Zampieri e FedEx. Sono usciti dal cancello davanti ai carabinieri e alla polizia, e i carabinieri e la polizia hanno accettato che i bodyguard escono dal magazzino per picchiare noi. Sono usciti con pezzi di legno, ferro, pezzi di bancali rotti: hanno fatto un macello, una cosa incredibile. Erano quasi in cento e noi eravamo quaranta, quarantacinque lavoratori che rischiano il licenziamento. Ci hanno picchiati in mezzo alla strada, ci hanno rincorsi, anche lontano dal magazzino. Tutto davanti agli occhi dei carabinieri e della polizia! Ieri stavano guardando come uno guarda un film al cinema. Uno dei nostri è caduto e manca poco che perde la vita, lui ha preso una forte botta alla faccia, al naso, ha perso coscienza, ha perso sangue e l’ambulanza è arrivata dopo venti minuti. Prima i bodyguard erano tutti vestiti neri, adesso hanno utilizzato un altro modo, mettono la pettorina come se fossero lavoratori, ma non sono lavoratori! Conosciamo le loro facce perché tante volte ci siamo scontrati con loro e l’ultima volta era a San Giuliano. Io ho preso il foglio di via da Peschiera Borromeo per sei mesi. Me lo ha dato la questura di Milano». Gli eventi di giovedì sono solo l’ultimo capitolo di una lotta lunga e rilevante che non riguarda solo Piacenza, ma ha un orizzonte nazionale ed europeo. Per ricostruirne la trama principale, pubblichiamo un articolo comparso sul sesto numero de Lo stato delle città.
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Suona la sveglia alle tre di mattina. Ho un appuntamento in Barriera di Milano, quartiere oltre la Dora. È gelido fuori – è il 29 gennaio – e l’aria di coprifuoco soffoca l’ultima oscurità notturna. Salgo sull’auto dei coordinatori sindacali, il mezzo si muove silenzioso verso la periferia. «Hai visto auto della polizia?». Una in corso Novara, ma camminavo in una via secondaria. Alla nostra destra sfila il palazzo degli uffici di FedEx, il logo brilla rosso prima del crepuscolo. Nell’abitacolo sorridono amari. Oltre la Stura la strada sfiora il quartiere di Pietra Alta, poi superiamo due edifici alti come torri che sorreggono in cima i loghi di Intesa Sanpaolo e Lavazza. Sono le porte della città.
A Settimo Torinese il magazzino di SDA è incastrato tra la ferrovia e l’autostrada. Davanti al cancello distinguo un gruppo di venti uomini in pettorina fosforescente, battono i piedi a terra e si massaggiano le mani. Petre ha un cappello di lana e parla veloce, chiedo come sta andando lo sciopero nel magazzino. «Per me va bene, anche se alcuni sono rimasti in casa. Era bene se eravamo tutti e quaranta qua fuori, si vedeva un bel gruppo. Ma il disagio c’è per l’azienda». Da un’auto sono tratti piccoli bicchieri di plastica, una Vecchia Romagna e una grappa romena fatta in casa. Non è forte come temevo, anzi dolce al palato, e qualcuno discute sulle tecniche di distillazione. «Uva, è fatta con l’uva». Sono entrati a lavoro solo in cinque su una cinquantina di magazzinieri. «Oggi lavorano così tanto che la prossima volta faranno lo sciopero con noi!», dice qualcuno mentre beve il liquore. Un romeno chiede al gruppo di nigeriani: «Voi potete bere?». Victor, senza rispondere, tira fuori dalla tasca una bottiglia con un liquido denso e ambrato, sorseggia divertito con la mano sinistra sul ventre. Oggi inizia lo sciopero nazionale indetto dal sindacato SiCobas, le bandiere rosse sono appese al cancello. Petre mi spiega le mansioni d’un magazziniere: «Dobbiamo scaricare i tir e caricare la merce sui furgoni dei corrieri che devono partire. La mattina, entro le dieci, dobbiamo smistare tutte le merci che sono arrivate. Per ogni corriere dobbiamo portare la sua roba davanti al portone giusto, carichiamo tutto su una pedana e dopo il corriere si carica il furgone, parte e va in giro. Poi la sera arrivano i ritiri, i pacchi da mandare in altre città, e quelli devono essere ancora lavorati e li carichi sui tir che vanno a Milano, a Bologna, a Piacenza, per le filiali di Roma».
Vicino sfrecciano le auto sotto un cartello verde, i fari all’ingresso nascondono alla vista l’insegna dell’azienda. Il turno comincia alle quattro di mattina. «Oggi i corrieri usciranno con poca roba. Di solito escono con novanta, cento pezzi. Oggi saranno trenta, forse nemmeno. I corrieri ci saranno tutti, ma non possono lavorare perché non hanno quasi niente da caricare. E ci sarà un accumulo di merci!». Un delegato mi dà una lezione di strategia. Il blocco dei cancelli è una mossa necessaria quando non vi è unità tra i magazzinieri; se tutti scioperano, invece, non è necessario fermare il traffico perché i tir e i corrieri entrano, ma nessun lavoro può essere compiuto. Uno sciopero riuscito, e senza il blocco dei cancelli, consente di evitare il confronto con la polizia chiamata a forzare il picchetto. Il freddo acuto morde le articolazioni delle gambe. Alle sette del mattino arrivano i corrieri in tuta blu. Salutano, uno stringe il pugno e dice ai magazzinieri: «Lotta dura!», con ironia e affetto. I magazzinieri in sciopero distribuiscono volantini ai cancelli, discutono con i corrieri e ripetono: «Se vi mandano a casa perché oggi non c’è lavoro, fatevi pagare lo stesso!».
Petre è in SDA dal 2004, in questi ultimi anni la forza lavoro è gestita dall’azienda ManHandWork. «La logistica è l’unico settore che ha guadagnato nei tempi di crisi. Loro hanno un bel guadagno, e noi niente. Prima questo movimento si vedeva solo per sei settimane, prima di Natale. Dopo Natale calava. Adesso non cala, lavoriamo come se fosse sempre dicembre!». I volumi di merci da spostare sono aumentati in modo sensibile, ma i lavoratori non chiedono solo un riconoscimento in busta paga. «Prima di tutto vogliamo ottenere il rispetto. Il responsabile dell’azienda ha detto, a dicembre, che non sappiamo che cosa voglia dire uno sciopero generale. Ah, no? Oggi sarà lui a vedere che cos’è! Noi non siamo degli stupidi». S’avverte – ed è un’energia che aggrega – un risentimento verso il fornitore e la direzione della filiale: «E da oggi ci dovranno rispettare!». Il blocco è il ritrovamento d’un senso d’orgoglio. Petre mi descrive i loro turni. «Un disastro. Si comincia alle quattro di mattina, finisci alle dieci. E poi alle tre, tre e mezza al massimo, cominci di nuovo e finisci alle otto di sera. E poi ancora, il giorno dopo. Non riposi né di giorno, né di notte. Dopo il primo turno devi fare la doccia per riposare un po’ e poi devi mangiare e dormire due ore. Alle due e mezza di pomeriggio devi tornare a lavorare. Alle otto di sera vai a casa, doccia, mangi e ti metti nel letto e hai quattro ore da dormire. Si chiama il turno spezzato. È da quando parliamo di lotte che vogliamo il turno unico e non spezzato. Anche se non faccio dieci ore al giorno, ma otto, a me mi sta bene uguale. Così ho la mia vita sociale. L’azienda paga undici euro al giorno per indennità di turno spezzato, ma io preferisco non prenderli e fare un turno unico. In Romania si dice: “Tra dieci euro al sole e cinque all’ombra, preferisco cinque all’ombra”».
È mattina, mentre ascolto i racconti dei facchini tengo a mente le loro richieste puntuali, peculiari a questo magazzino. Con lo sciopero i lavoratori chiedono un aumento del ticket per il pranzo: da cinque a sette euro. I loro ragionamenti, tuttavia, hanno anche un respiro nazionale. Nonostante l’aumento dei traffici di merci e i rischi di contagio corsi nell’ultimo anno, il contratto dei lavoratori della logistica è scaduto nel dicembre 2019 e non è ancora stato rinnovato. Lo sciopero di Petre, Victor, Youssef e degli altri accanto al cancello m’appare allora legarsi alle esigenze e alle lotte non solo dei lavoratori in SDA, ma anche in Bartolini, GLS, FedEx Tnt.
VITTORIA ILLUSORIA
Dopo il presidio in SDA ho tentato di tracciare, a distanza, un disegno delle lotte e della repressione nella logistica in questo ultimo inverno. Ho raccolto testimonianze telefoniche e materiali video tratti dalla rete; delegati sindacali e lavoratori mi hanno inviato documenti, foto, notizie. Le parole perdono la concretezza di un’alba davanti ai cancelli, ma l’intelligenza, almeno, può avere una cognizione parziale del reticolo nazionale e internazionale che collega magazzini, lavoratori, vertenze. Gli eventi relativi alle scelte di FedEx Tnt sono i più rilevanti.
A gennaio FedEx – multinazionale statunitense – ha annunciato seimila esuberi in tutta Europa e il primo polo di smistamento colpito è il magazzino di Liegi, dove si prevedono più di seicento licenziamenti. «Fin dall’annuncio della ristrutturazione della filiera abbiamo fatto molti scioperi e abbiamo rallentato il traffico», mi ha raccontato Hassan a fine marzo. «Io lavoro nel magazzino FedEx di Liegi, il magazzino sta nell’aeroporto. L’azienda vuole licenziare 671 persone e vuole abbassare le paghe dei lavoratori. Siamo ancora lontani dall’accordo, qui fanno come vogliono in FedEx, dobbiamo resistere il più possibile. A livello europeo ci vorrebbe un’unione internazionale dei sindacati, e prima o poi avverrà. In Francia, a FedEx, non c’è stato un solo giorno di sciopero e io mi chiedo: perché?».
In Italia, il 29 gennaio, lo sciopero nazionale dei lavoratori di FedEx avveniva anche in solidarietà con la mobilitazione belga. Nella notte i facchini di Milano hanno bloccato lo stabilimento di Peschiera Borromeo e quello di San Giuliano. Arafat, coordinatore del sindacato SiCobas a Piacenza, il giorno stesso mi ha spiegato al telefono: «Tnt FedEx di Piacenza è bloccata già da ieri sera, dentro sono fermi circa duecentocinquanta camion. Di tutte le merci internazionali che devono partire con l’aereo, nessun pacco è partito, lo sciopero dovrebbe finire oggi, ma i lavoratori hanno deciso di portarlo a oltranza fino a lunedì. L’hub di Piacenza è il centro di smistamento più grosso di tutta Italia». Interrompere il flusso di merci a Piacenza significava stimolare effetti a catena in tutta la penisola. Nel corteo del 29 gennaio a Torino un lavoratore impiegato presso il magazzino FedEx fuori città mi ha confidato: «Quando bloccano un grande hub come quello di Piacenza, il lavoro per noi è quasi pari a zero. Arriva solo dagli aeroporti quel poco di estero che riescono a mandare». Fin da gennaio Piacenza mi è apparsa come la capitale della lotta nella logistica.
Lo sciopero iniziato a Piacenza il 29 gennaio è continuato a oltranza. I lavoratori dell’hub Tnt FedEx mantenevano il presidio presso i cancelli, di giorno e di notte. Pretendevano dall’azienda e dal fornitore ragguagli sul piano gestionale dopo l’annuncio dei seimila esuberi in Europa. I lavoratori chiedevano anche l’adeguamento del ticket mensa, la mezzora di pausa nel turno da otto ore e una gestione corretta del trattamento di malattie e infortuni eventuali. Il lunedì sera del primo febbraio sei camionette delle forze dell’ordine, accompagnate da auto di polizia e carabinieri, sono entrate all’interno dell’azienda per forzare il blocco e disperdere il presidio organizzato all’esterno dei cancelli. Obiettivo dell’intervento era aprire la via ai mezzi di trasporto carichi di merci in uscita. Il mattino dopo Arafat mi ha descritto l’andamento degli eventi: «Noi già da giovedì avevamo l’incontro con la Lintel per la questione degli esuberi». Lintel è il consorzio cui FedEx ha appaltato la gestione del lavoro. Lintel a sua volta s’affida al fornitore Alba Srl per reperire la manodopera. «Abbiamo chiesto il piano gestionale dell’azienda – ha continuato Arafat –, ma FedEx ha fatto finta di niente, non ha voluto dare risposte e anche il fornitore non ha riconosciuto la nostra rivendicazione. Loro non dicono dove prevedono i licenziamenti per non avere resistenze nei vari magazzini. Allora giovedì i ragazzi erano incazzati perché non si aspettavano questo atteggiamento e sono partiti con lo sciopero. Lo sciopero non si è fermato. Ieri sera sono arrivate le camionette con tantissime altre macchine di polizia e carabinieri. Hanno avvertito che avrebbero concesso mezzora e poi avrebbero sgomberato tutti. I lavoratori si sono seduti per terra e senza nessun preavviso le forze dell’ordine hanno cominciato a lanciare i lacrimogeni e poi hanno manganellato i lavoratori. I lavoratori non hanno voluto andare via e hanno resistito nonostante le cariche, nonostante i lacrimogeni. Alla fine sono rimasti uniti e non hanno fatto uscire un solo camion e hanno continuato finché la polizia si è ritirata. I lavoratori hanno ripreso il blocco. Da ieri a oggi non è uscito neanche un camion».
Ho visto un video dove la polizia arretra, s’allontana mentre i magazzinieri festeggiano. Ho chiesto ad Arafat di spiegarmi meglio la dinamica dell’intervento: «Noi abbiamo tenuto il cancello dall’esterno, ma la polizia era all’interno dell’azienda: sono entrati con le camionette all’interno e volevano forzare il nostro blocco e fare uscire i mezzi di trasporto. Alla polizia non interessava l’ordine pubblico, ma l’interesse del padrone. Il bello è che i lavoratori all’inizio non erano in tanti perché facevano il cambio per il freddo, qualcuno va e qualcuno viene. Quando i lavoratori delle altre aziende hanno saputo che c’era polizia, sono arrivati per dare un sostegno contro la carica violenta, hanno dato una grande mano per mantenere in piedi lo sciopero».
In quei giorni gli scioperi hanno colpito tutta la filiera di FedEx. Sherif da Peschiera Borromeo mi ha raccontato il 6 febbraio: «Sia a Peschiera Borromeo che a San Giuliano abbiamo fatto quasi due giorni di blocchi. Abbiamo bloccato la sera, il pomeriggio e tutto il giorno dopo, fino alle quattro del mattino. Scioperiamo conto gli esuberi annunciati da FedEx, in solidarietà con Liegi, ma anche per le nostre vertenze interne. Intanto hanno deviato alcune merci di Piacenza ai magazzini di Milano. Perché a Piacenza fanno in un giorno centomila colli e non ce la fanno a mandarli in un magazzino solo, devono dividerli su altri magazzini». A Piacenza lo sciopero e blocco dei cancelli sono durati, senza interruzioni, per più di dieci giorni, finché, l’8 febbraio, la multinazionale e i fornitori hanno ceduto e hanno firmato un accordo sindacale in prefettura.
Nel verbale del tavolo di mediazione l’avvocato in rappresentanza di FedEx afferma che “il piano industriale del gruppo FedEx per l’Italia non prevede alcun impatto sul personale addetto alle attività di handling e pick-up delivery anche compreso quindi il sito di Piacenza”. E nel primo punto l’accordo garantisce il “pieno e totale mantenimento dei livelli occupazionali, escludendosi qualsiasi ipotesi di riduzione del personale” a Piacenza. Gli altri punti stabiliscono il rimborso delle differenze del premio di rendimento nel 2020, il rinnovo del premio di rendimento per il 2021, la retribuzione della mezzora di pausa, la corresponsione del ticket mensa a sette euro, il rispetto degli accordi in merito al trattamento di malattia e infortuni. Il documento è sottoscritto dai rappresentanti di FedEx, Lintel, Alba Srl, dai delegati del sindacato SiCobas. Sono presenti il prefetto e il questore di Piacenza. La soddisfazione per la vittoria, tuttavia, dura poco.
PIACENZA CHIUDE
A inizio marzo la procura di Piacenza ha notificato che vi sono ventinove indagati tra i magazzinieri e i delegati che parteciparono ai picchetti fuori dall’hub FedEx. Tra questi, cinque lavoratori hanno ricevuto il divieto di dimora a Piacenza e due coordinatori (Arafat e Pallavicini) sono stati costretti agli arresti domiciliari. I reati contestati sono violenza privata, occupazione di suolo pubblico, resistenze e lesioni durante il tentativo di sgombero del picchetto. In un’intervista rilasciata ai giornali, la procuratrice di Piacenza ha sostenuto che i capi d’accusa dipendono da «condotte particolarmente violente che avevano un trend di pericolosità in crescita». Questi «comportamenti» sarebbero «privi di ogni valenza sindacale, tanto è vero che i sindacati che hanno sempre mantenuto un dialogo aperto con Tnt – tipo la Cisl – hanno con forza stigmatizzato il comportamento di questi soggetti». L’impianto dell’accusa tenta dunque di negare la natura sindacale degli eventi, definendo quali enti possano definirsi “sindacato”, e quali no. Ho notato un interessante scivolamento dall’interpretazione giudiziaria a una valutazione politica; un movimento del pensiero forse inconscio e poco elaborato, come se la mediocrità dei funzionari dello stato procedesse in armonia con nuove possibili strategie repressive. «Se posso aggiungere – ha concluso la procuratrice con il dito alzato –, le forze dell’ordine sono state appellate con la parola “servi”». Ha stretto un poco gli occhi per enfatizzare l’ultima parola.
Il 13 marzo, a Piacenza, sono stato alla manifestazione di solidarietà con gli indagati e i lavoratori in lotta. La questura aveva autorizzato un presidio statico e i manifestanti erano chiusi da ogni lato da camionette e cordoni di celere. In un’aria di provocazioni ho ascoltato il racconto di Ruben, coordinatore del sindacato: «È successa una cosa vergognosa: nel momento in cui eravamo tutti seduti a terra [il primo febbraio], e stavamo scioperando davanti ai cancelli, appena sono scoccate le dieci la questura ha iniziato lo sgombero, e senza nemmeno annunciarlo. Hanno lanciato i lacrimogeni subito addosso alla gente, senza farci capire quello che stava accadendo. Ci sono ventinove indagati, tra cui io. Sono venuti a casa alle sei del mattino, come se fossimo dei criminali, ci hanno perquisito tutta casa, ci hanno sequestrato telefoni e pc. È arrivata la Digos, da me sono arrivate quattro persone e ci hanno portato alla questura di Piacenza». Mentre ascoltavo gli interventi al microfono, mi colpiva il sentimento doloroso d’una ferita collettiva aperta da un’accusa di “criminalità”.
Una settimana dopo ho chiamato un delegato SiCobas nel magazzino di Piacenza, Ramadan. Gli ho chiesto se l’azienda avesse rispettato gli accordi siglati in prefettura: «Parliamo sinceramente. Loro hanno rispettato solo un punto! L’aumento del ticket dei pasti giornalieri da cinque a sette euro. Questa differenza, secondo l’accordo, doveva essere pagata entro il 15 marzo. Sono passati sei giorni dal termine e non è stata pagata. Un accordo firmato in prefettura non è stato rispettato! Il nostro legale del sindacato ha mandato una Pec a Fedex e alla prefettura e nessuno ha risposto». La reazione della multinazionale è stata dura, secondo Ramadan: «Adesso, e da più di sei giorni, nel magazzino non c’è più neanche un collo. Le merci del magazzino di Piacenza sono state spostate a Peschiera Borromeo, al magazzino nazionale e a quello internazionale, a Bologna, a Padova, a Verona, in parte anche a Genova e a Torino. Ma in tutta Italia non c’è un magazzino che può fare la roba che noi facciamo! Prima degli scioperi noi facevamo novantamila colli al giorno, possiamo anche arrivare a centomila, centoventimila. Nessun altro magazzino può farlo, per quello hanno spostato le nostre merci in vari magazzini. L’altro ieri, giovedì scorso, i delegati di Peschiera Borromeo hanno detto: “Non c’è spazio dentro al magazzino per camminare, il magazzino è pieno della vostra roba”. Questa è una serrata. Alba Srl e Lintel dicono che il lavoro è calato. Ma come il lavoro calato? In altri magazzini ci sono merci con l’etichetta dove è scritto sopra “Piacenza”».
Ho chiesto a Ramadan quali fossero le comunicazioni dell’azienda. «Una mail da Alba srl dice che i lavoratori vanno in cassa integrazione perché il lavoro è calato. Noi abbiamo risposto che il lavoro non è calato, ma è stato spostato in altri magazzini e non c’è necessità di applicare la cassa integrazione. Questa è una serrata e la cassa integrazione è una truffa allo stato. Hanno risposto che per questi giorni pagano come ferie, poi hanno iniziato a mandare messaggi ai singoli lavoratori: “Sei in cassa integrazione, devi andare a casa e non al lavoro, perché non c’è attività”. Noi comunque andiamo in magazzino, facciamo otto ore seduti in magazzino e poi torniamo a casa».
Volevo comprendere in che modo FedEx riuscisse a modificare la rete della logistica rinunciando a un hub d’importanza strategica fondamentale. Sherif da Peschiera Borromeo mi ha spiegato quali sono stati i cambiamenti nell’area milanese: «Hanno fatto venire i driver da Piacenza, al mattino. Arrivano a caricare la merce spostata nel nostro magazzino. E pure il capo-filiale di Peschiera ha chiesto a Salerno Trasporti – che ha dei driver a Peschiera – quindici loro furgoni a noleggio per dare una mano ai driver di Piacenza, e sono diventati trentacinque furgoni in tutto che portano la merce a Piacenza. E hanno pure trasferito il capo-filiale di Piacenza qui, a Peschiera. Ho saputo che sono venuti due responsabili che erano a Piacenza, ieri, per vedere come funziona il lavoro e per riorganizzarsi: pensano di portare lavoratori interinali per lavorare a Peschiera la merce di Piacenza». Possono i magazzini di Peschiera Borromeo sopperire interamente alla sospensione del traffico piacentino? «Loro dividono la merce sui magazzini. Hanno aperto vari mini-hub al nord, uno a Bologna e forse uno a Torino, e mandano anche il lavoro al magazzino di San Giuliano, qui vicino. Adesso stanno costruendo un magazzino nuovo a Novara per spostare la merce di Piacenza a Novara». Era dunque in corso lo smantellamento del magazzino più importante della penisola.
Il 26 marzo il tribunale del riesame di Bologna ha revocato le misure cautelari per i due coordinatori del sindacato. Ho domandato al loro avvocato il significato della sentenza: «È un ridimensionamento dell’impianto di accusa. Le misure sono state revocate in quanto non sono stati ritenuti responsabili del reato di resistenza. Per gli altri lavoratori, ad alcuni sono state revocate totalmente le misure cautelari mentre a due rimane la misura, ma è stata sostituita con un obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria. È stato spiegato qual era il contesto in cui si sono verificate quelle condotte: un contesto sindacale». Per sei manifestanti resta la minaccia di una revoca del permesso di soggiorno. «È una procedura legittima, sì, si può fare – dice l’avvocato –. Però non ho mai visto revocare il permesso di soggiorno in base a un’indagine in corso. Questo è un punto importante perché nella logistica la grande maggioranza dei lavoratori è straniera, quindi colpirli con la minaccia di revocargli il soggiorno ha un senso repressivo importante. La minaccia li invoglia ad abbandonare questo tipo di lotta». La storia di Piacenza m’è sembrata un campo sperimentale del diritto.
Il 29 marzo mi ha chiamato al telefono Sherif, la voce vibrava: «Hai letto la notizia? I lavoratori di Piacenza hanno trovato il magazzino chiuso con la catena, hanno messo una trentina di buttafuori all’esterno e hanno detto che non si lavora, che il magazzino è chiuso. E la società ha fatto la disdetta». Quel giorno FedEx ha annunciato la chiusura dell’hub di Piacenza, nonostante gli accordi presi a febbraio. La scelta deriva da politiche aziendali ponderate nei mesi e le lotte dei lavoratori hanno avuto il merito di portare alla luce un processo che forse si sarebbe compiuto nella nostra incoscienza. Quando chiedo ai lavoratori e ai coordinatori del sindacato quali siano le ragioni di chiusure e licenziamenti, la risposta è sempre netta: la multinazionale intende colpire l’unica organizzazione che davvero si batte per i diritti. Vorrei avere la capacità di arricchire questa ipotesi con un’interpretazione complessa della ristrutturazione delle filiere deputate al trasporto delle merci. Vorrei intravedere il punto di confluenza tra la repressione dei lavoratori e la logica dei mutamenti strutturali nella logistica durante i mesi della pandemia. «Hanno messo questi buttafuori pure in altri magazzini – ha continuato Sherif –. A Peschiera hanno messo due buttafuori su ogni cancello. Così quando i lavoratori fanno sciopero questi si mettono davanti, come nel modello americano». Sherif e i suoi compagni hanno bloccato l’hub di Peschiera Borromeo la notte tra il 25 e il 26 marzo, durante il nuovo sciopero nazionale della logistica. E ancora, nell’ultima notte del mese, hanno impedito l’entrata e l’uscita dei mezzi dal magazzino di San Giuliano; in contemporanea i lavoratori hanno interrotto il traffico di merci presso gli snodi di Parma e Reggio Emilia. Forse la primavera sarà una stagione aspra per i vertici italiani della multinazionale.
UN’ALTRA ALBA
Sono le quattro di mattina di venerdì 26 marzo, giorno di sciopero nazionale nella logistica. Ancora una volta scendo dall’auto e vedo quindici magazzinieri fuori dai cancelli della SDA di Settimo Torinese. «Lotta dura!», urla un coordinatore. «Ma quale lotta dura?», risponde una voce. I volti sono contratti. Lo sciopero è riuscito, sono entrati solo in dieci. Eppure ManHandWork, l’azienda fornitrice, ha inviato nel magazzino quindici dipendenti impiegati altrove. «È arrivato uno che non sapeva neanche dove entrare, non trovava l’ingresso», mi dice nervosa una lavoratrice. Mi chiedo come sia possibile sostituire i magazzinieri con lavoratori senza esperienza. Guido, uno tra i facchini più anziani, mi spiega che basta avere quattro persone preparate alla codifica e il lavoro può essere svolto, sebbene lentamente. La codifica è la procedura che attribuisce a ogni pacco la corretta destinazione. Chiedo a Guido quali siano stati i risultati dello sciopero precedente. «Niente ticket dei pasti a sette euro. Ci hanno dato cinquanta centesimi al giorno in più per l’indennità di turno spezzato. Calcola, sono dieci euro per venti giorni di lavoro». Nonostante il senso di scoramento Victor sorride ancora e Petre mi sembra determinato. Mi spiega che la controparte vorrebbe abolire l’articolo 42 del vecchio contratto di categoria. In questo articolo vi è un comma che garantisce il mantenimento dei contratti, e alle stesse condizioni, in caso di avvicendamento tra fornitori o cooperative in appalto: «Loro vogliono fare i contratti a tempo determinato quando subentra un’altra cooperativa. Non solo SDA, ma tutti i trasportatori vogliono arrivare ai contratti a tempo determinato. Fino adesso – io avrò cambiato dieci cooperative – il contratto rimane lo stesso. Quando c’era un avvicendamento, venivano con due contratti: la dimissione e l’assunzione. Non stavi a leggere, firmavi. Se passa l’abolizione dell’articolo, da quel momento non puoi fare più niente. Non puoi fare sciopero».
Nella penombra del crepuscolo appaiono alcuni sostituti che escono per poco dal magazzino. «Si prendono i colpi oggi. Ma ti scanno tutto, pezzo di merda. Ti do i colpi!», esclama una voce al mio fianco. Un altro lavoratore suggerisce: «Guarda che non è colpa loro, non ne possono nulla. Hanno contratti più precari dei nostri: prendono cinque euro all’ora; se si rifiutano di sostituirci, perdono il lavoro». Giunge una volante dei carabinieri, scendono un ragazzo in divisa e un funzionario in borghese. Un coordinatore descrive la condotta antisindacale dell’azienda. «Che la procedura sia scorretta, dobbiamo verificarlo», risponde il funzionario. E suggerisce: «Eventualmente potreste fare un esposto scritto dove poi dopo verrà valutato se questo comportamento è giusto o no. Se è ingiusto, l’azienda ne risponderà». Petre fa segno di no con la testa: «Se noi non facciamo entrare i tir, loro chiamano i carabinieri senza niente scritto e ci bastonano. Non c’era niente di scritto, ma i carabinieri anni fa sono intervenuti! E il lavoratore si prende paura e dice: “Meglio che me ne vado”. Ma l’azienda chiama altri lavoratori per bloccare il mio sciopero, che è un mio diritto, e nessuno interviene! Non va bene». Youssef osserva la scena, silenzioso e attento come sempre. Accanto a lui Mohammed esclama: «Avete capito perché a Piacenza, a Bologna si bloccano i camion? Per evitare questo, che loro portano altri a fare il tuo lavoro». Alle nove di mattina, quando il turno in magazzino sta per finire, l’ispettorato del lavoro informa i carabinieri: si tratta di un comportamento illecito da parte dell’azienda. «Abbiamo preso i nomi dei sostituti. Voi fate un esposto!», consigliano gli agenti prima di entrare in auto, e andarsene. (francesco migliaccio)
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