“Per quanto ci addolori ogni singola vittima del #Covid19, dobbiamo tenere conto di questo dato: solo ieri tra i 25 decessi della #Liguria, 22 erano pazienti molto anziani. Persone per lo più in pensione, non indispensabili allo sforzo produttivo del Paese che vanno però tutelate”. Giovanni Toti, governatore della Liguria, 1 novembre 2020
La frase di Toti che ha indignato l’Italia è una scheggia di verità sfuggita all’autocensura e alle narrazioni ecumeniche della pandemia. Malgrado la torsione finale, il velo è strappato. Il linguaggio pacificatore e paternalista della propaganda Covid mostra il suo rovescio, il torbido realismo capitalista che intima lealtà verso il mondo “come è”.
Toti ha solo sottratto all’implicito un dato di fatto. Al di là di privatizzazioni, contrazione del pubblico, deregolazione del mercato e mercificazione generalizzata, vi è un elemento socio-culturale del neoliberismo che concerne l’abbattimento delle barriere morali e religiose alla base della non misurabilità e non negoziabilità della vita umana. Non che la vita sia sempre stata onorata nella storia, tutt’altro, ma il carattere di quest’epoca è la banalizzazione della morte come mero esito di calcoli legati al valore monetario e alle dinamiche del mercato. Toti ha dato voce a ciò che è già vero e all’opera: la gerarchizzazione delle vite in base al contributo relativo sui bilanci della crescita economica.
Si è disquisito a lungo della contraddizione tra economia e salute nella pandemia come se vi fosse davvero discontinuità con il recente passato. Raramente è stato chiarito che la contraddizione è inestirpabile in un modello di organizzazione economica in cui il ritorno sugli investimenti prevale sulle “esternalità” negative in termini di salute e danno agli ecosistemi. È in questo tipo di economia che i flussi finanziari sono piú rilevanti della circolazione di inquinanti, che l’acciaio ha piú valore del respiro salubre e il rifiuto tossico piú valore dell’aria tersa e dell’acqua potabile.
Cosa si intende per valore è cruciale. Lo slittamento da valore sociale a valore monetario come misura del mondo è un progetto di classe guidato politicamente che abbraccia ormai il complesso dell’esistente – carbonio, laghi, foreste, pensieri, materiale genetico, ecc. L’assunto di base pone il mercato come strumento di valutazione supremo per gestire la vita sociale e biologica. Il nodo è questo, e bisogna affrontarlo direttamente per evadere dalla dittatura che comporta. L’imposizione della misura è un presupposto del dominio, e il dominio è effimero, risultato di relazioni di potere che non sono eterne. Ancora piú importante, nel desiderio di misurazione e riduzione assoluti si cela un’arroganza, una hybris, che concerne la possibilità di realizzare il controllo totale del mondo e che inevitabilmente è destinata all’autodistruzione, come attestano la crisi climatica ed ecologica. In realtà, fuori dalla misura – quella misura che riduce le morti da Covid al loro peso relativo nella struttura produttiva – c’è il mondo per come è realmente, irriducibile ai singoli elementi poiché è la somma delle relazioni a tenere tutto in piedi piuttosto che la funzione individuale delle singole parti.
Pensiamo al complesso di azioni di cura, nutrimento, manutenzione e riparazione della vita che vanno sotto il nome di riproduzione sociale. Sono queste pratiche a fornire l’impalcatura intorno alla quale la società si erge. È in questi gesti che la trama del tessuto che tiene insieme vita biologica e simbolica si articola ed espande. Ebbene, tali azioni non figurano nei bilanci delle aziende, nei conti degli stati e nelle valutazioni codificate dal Pil. Come ci ha insegnato la critica femminista, l’esclusione ideologica della riproduzione sociale dall’ambito del valore ha permesso il parassitismo del sistema di produzione su quelli che sono i suoi presupposti, le sue reali condizioni di possibilità, cioè le pratiche di cura.
Allo stesso tempo, tale invisibilizzazione non si risolve misurando e monetizzando queste pratiche. L’insieme delle azioni di cura non sono riducibili alla strumentalità. Quanto vale la cura dei genitori verso i figli, o dei figli nei confronti dei genitori? Come si quantifica il passaggio di conoscenze e abilità da una generazione all’altra? E qual è il ritorno economico della solidarietà? O il prezzo per la curiosità di un bambino? È questo che fa girare il mondo, ma è impossibile misurarlo, poiché gli effetti e la natura di queste azioni non sono isolabili tra loro o riducibili ai criteri di valore monetario. Gli anziani o i malati diventano gli improduttivi quando l’imperativo della produzione fagocita il resto e la misura monetaria diventa il compasso attraverso cui spiegare e ordinare il mondo.
Toti non è stato l’unico a dire involontariamente la verità. Quando la prima ondata della pandemia ha investito gli Stati Uniti, Trump ha dovuto dichiarare un’emergenza nazionale che frenava l’economia. A malincuore; le misure di confinamento e chiusura furono di breve durata. L’insufficienza di quelle misure si palesa oggi con gli Stati Uniti all’apice della diffusione del contagio. Allora, un suo sodale, il governatore repubblicano del Texas, Dan Patrick, articolò l’insofferenza verso la sospensione del motore economico del paese con una domanda retorica: «Come cittadino anziano, saresti disposto a rischiare la tua sopravvivenza in cambio del mantenimento dell’America per i tuoi figli e nipoti? Se è questo che serve, io ci sono». In altre parole, se per “mantenere l’America”, cioè preservare l’iniqua e rapace economia di mercato americana, si debba rischiare che i vecchi e deboli si ammalino e muoiano, lasciamo che accada, è un sacrificio che possiamo (possono) accettare. E che lo facciano con il sorriso, poiché permetterebbero ai giovani di continuare a godere del “sogno americano”. Racchiuso in un sillogismo che rende impensabili modelli economici e di organizzazione sociale alternativi, sta l’etica del capitalismo neoliberale. Che l’economia di mercato sia superiore alla vita e che ogni sacrificio sia auspicabile per preservarla, è dato per scontato.
Toti, Trump e Patrick mi hanno fatto pensare a un libretto del 1978 dello scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark, La Morte Moderna. In questo romanzo satirico, sinistramente premonitore, lo scrittore inscena un simposio a porte chiuse organizzato da un comitato ministeriale di esperti, politici, medici, teologi e intellettuali di Svezia, riuniti per trovare soluzioni alla recessione economica e al fallimento delle finanze pubbliche in un paese che invecchia. La domanda che aleggia sugli astanti è: come risolvere il problema del mantenimento di anziani, malati cronici e incurabili, di tutti i soggetti deboli e improduttivi, che gravano sulle spalle dei membri attivi sempre piú scontenti della recessione? La risposta si fa strada fino a chiarirsi in una soluzione: pianificare in modo razionale e democratico la morte. Basterà convincere i membri anziani e deboli della società ad accettare volontariamente la morte per il bene della collettività. Arrivato a un’età determinata, per esempio settanta anni, l’individuo sarà sottoposto a una dolce eutanasia per lasciare spazio e risorse alle nuove generazioni. Lo spasso delle giustificazioni teologiche, sociologiche, economiche e politiche per un tale abominio morale, per quanto “razionale”, è presto temperato dalla serietà e dal rigore con cui la soluzione si impone nel nome dell’etica utilitaristica. In uno dei passaggi più acuti si legge: “Se le risorse non bastano per salvare tutti quelli che, da un punto di vista puramente tecnico, potrebbero essere salvati con i metodi attuali, bisogna per forza o lasciare che sia il caso a decidere chi deve morire, o procedere a una selezione razionale che comporti una valutazione comparativa delle vite umane”. E ancora: “Dobbiamo seguire la linea del condizionamento psicologico degli anziani così che siano loro stessi a voler farla finita. Diretto o attraverso quello che possiamo chiamare il sentimento del bene comune”.
“La sacralità del valore umano regge solo finché ci sono i mezzi”. Ora che con il Corona queste disquisizioni sono diventate dei veri suggerimenti, si farebbe bene a riflettere sui limiti all’immaginazione che il dominio della razionalità propria all’economia di mercato esercita sul pensiero. Immaginare altro al momento significa riformulare la gerarchia dei valori. Significa rimettere la società al di sopra dell’economia, riconoscendo l’incommensurabilità dei gesti che riproducono la vita e la rendono degna. Su questa strada si potrebbe arrivare a capire che le risorse ci sono. Non vi è mai stata tanta ricchezza accumulata da così pochi individui. In un’ottica trasformativa, una patrimoniale sui redditi alti e sulle rendite – per potenziare il pubblico, distribuire reddito e sopperire ai bisogni materiali di tutti – è un modo giusto non di aiutare i poveri, ma di ristabilire il valore della vita, individuale e collettiva, rispetto al calcolo monetario della sua “produttività”. (salvatore de rosa)
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