
Cinque novembre, mezzogiorno. Fossano, in provincia di Cuneo, circa venticinquemila abitanti, a un’ora da Torino e dalle coste della Liguria. Intorno le montagne e poco lontano un bel paesaggio di Langa. È una splendida giornata di sole. Mi sembra l’ultima occasione per una legale passeggiata in solitaria, perfetta anche rimanendo nel mio comune. In realtà non lascio spazio alla sensazione da ultimo giorno prima della nuova quarantena. Ho una meta precisa, perché so che non lontano ci sono dei ragazzi del liceo che da qualche giorno protestano contro la didattica a distanza e le chiusure delle scuole. E anche contro la chiusura della propria, il liceo Ancina, che, a quanto so, è considerato un istituto di eccellenza a indirizzo scientifico, linguistico e psicopedagogico.
Una volta in cima alla salita, costeggio “la rotonda della fontana” e incrocio via Tripoli, in quello che per tutti è “lo slargo davanti al liceo”, zona pedonale dotata di comode rastrelliere per biciclette. Qui ci sono, se ho contato bene, otto ragazzi con tavolini da campeggio, pc e libri scolastici. Tutti con la mascherina, distanziati. Mi avvicino. Sui tavolini qualche foglio di appunti, un pacco di biscotti aperto, i cellulari, le cuffiette. Posso trascrivere qui quello che ci siamo dette.
«Posso farvi qualche domanda? O state studiando?».
«Certo, ora stiamo solo ripassando…».
«Potete spiegarmi perché siete qui? Come è partita questa protesta, quali le vostre impressioni?».
«Tutto – inizia una di loro – è partito da Sara. La cosa è nata per il ritorno a scuola, per il nostro desiderio di farci sentire, di dire che per noi è importante l’istruzione e tornare a scuola. Però è diventata anche una protesta per dire che non si è fatto abbastanza, a tal punto da non permettere a studenti pendolari di arrivare in sicurezza a scuola. E infatti, confrontandoci, abbiamo visto che il problema principale sono stati i trasporti, perché la scuola in sé era un luogo sicuro».
«Voi vi siete trovati bene a scuola in questo primo mese?».
«Noi sì. Secondo noi sono state prese tutte le precauzioni possibili. Non era la stessa cosa, come prima… però era già qualcosa. Invece la didattica a distanza è una cosa quasi totalmente distaccata da ciò che è in realtà la scuola».
«Hai l’impressione che ci siano molte persone tagliate fuori dalla didattica a distanza?».
«Mah, più che altro, la nostra è una classe dove ci sono molte interazioni, interventi, e ciò con la didattica a distanza non avviene».
«Cosa studiate?»
«Io faccio il corso di scienze umane, e anche loro, poi ci sono alcune ragazze che fanno il linguistico e altri lo scientifico».
«E a che anno siete?»
«Noi in quarta, la ragazza che ha fatto partire la protesta è in terza. Loro due in quinta. E loro due in terza».
«E vi state trovando tutti i giorni nell’orario di scuola?»
«La cosa è nata giovedì da Sara, noi tre ci siamo aggiunte sabato. Veniamo qua all’orario che possiamo, di solito interrogazioni e verifiche le facciamo a casa. E poi magari non facciamo tutte e cinque le ore qui per il problema della carica dei computer».
«Pensate di allargare la protesta ad altri istituti?».
«Adesso, con il nuovo dpcm, ci viene un po’ difficile, perché da domani… Finché non potremo… Noi seguiamo naturalmente tutte le norme del dpcm, perché la nostra è una protesta silenziosa, e pacifica, e nel rispetto di tutte le norme. Per esempio, indossiamo le mascherine e stiamo comunque a distanza. E quindi con il nuovo dpcm fermeremo la protesta e poi la riprenderemo, se sarà possibile e necessario».
«I vostri genitori, e i professori, invece che cosa ne pensano, ne avete parlato?».
«Io posso parlare dei miei genitori e loro mi appoggiano completamente, sono felici che abbia aderito. All’inizio quando gli avevo raccontato di queste ragazze mi avevano subito detto: “Ma vai anche tu”. E anche i professori ci hanno appoggiato, E anche la preside. A volte ci portano magari la cioccolata calda oppure la colazione. E anche le persone per strada si fermano, ci chiedono, ci portano da mangiare…».
«E invece le istituzioni fossanesi?».
«Allora, adesso forse si stava pensando di cercare di scrivere una lettera aperta alla regione, però non lo sappiamo. Per ora è stata una cosa così, spontanea».
«Volete aggiungere qualcosa, le vostre impressioni? Pensate che se ne stia parlando?».
«Sì, i primi giorni che siamo venuti io e mia sorella per far sentire il nostro malcontento, le nostre ragioni, non pensavamo che avrebbe avuto un riscontro così».
«Io invece credo – aggiunge un’altra – che sicuramente siamo tanti e abbiamo fatto passi in avanti in questi giorni, ci sono persone che ci conoscono e che parlano di noi. Ma se fossimo qualche persona in più, se avessimo coinvolto qualche ragazzo in più del liceo… [Al momento insieme alle ragazze c’è solo uno studente un poco distante]. Forse tutto avrebbe avuto un riscontro più grande. Solo che è difficile coinvolgere».
«E rimanere in contatto…».
«Sì, più che altro coinvolgerli. Noi abbiamo provato a mandare una mail a tutti gli studenti della scuola, solo che io vedo per esempio certe compagne che si lamentano di questa situazione, ma poi nel concreto non fanno niente».
«Voi abitate qui nei dintorni? Siete di Fossano? Riuscite a venire qui coi tavolini abbastanza comodamente, o come vi organizzate?».
«Io sono di Alba. Oggi sono riuscita a venire, perché altrimenti mia mamma non riesce a portarmi».
«Io e mia sorella – aggiunge Sara – siamo di una frazione di Cherasco. I nostri genitori ci hanno portato ogni giorno. E poi dopo, questa settimana, abbiamo chiesto alla preside se possiamo lasciare i tavolini e le sedie a scuola, per evitare di portarli ogni giorno. Quindi ci è venuta incontro».
Una volta a casa, F. al telefono mi dice: «È importante occuparsi anche di questo, e testimoniarlo».
Forse ha ragione e da qui sono lontane le proteste della piazza, gli scontri e i lanci di bottiglie. In fondo, non avessi sentito la notizia, questi pochi ragazzi – nell’ordine della decina per un istituto che conta circa seicento studenti – sarebbero rimasti più inosservati ancora di quanto non siano. Mi immagino però che possano essercene altri, in altre parti d’Italia, ignari gli uni degli altri e altrettanto inascoltati. E anche se si tratta di una protesta educata, forse borghese – vorrei aver parlato anche con i ragazzi dei professionali e degli istituti tecnici – questi ragazzi si sono attivati ed esposti, hanno lanciato un segnale. Un segnale che, pur nella sua trascurabilità, da domani non sarà più possibile. Il Piemonte è zona rossa. (stefania spinelli)
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