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23 Luglio 2018

In morte di una operaia

Luca Rossomando
(disegno di cyop&kaf)
(disegno di cyop&kaf)

Articolo pubblicato su Napoli Monitor il 29 maggio 2014

Maria Baratto, quarantasette anni, si è suicidata la settimana scorsa nella sua casa di Acerra. Lavorava alla Fiat di Pomigliano da più di vent’anni. Da sei era al reparto logistico di Nola, dove l’azienda ha relegato gli operai più combattivi e quelli con problemi di salute. Nel febbraio scorso un altro operaio confinato a Nola, Giuseppe De Crescenzo, si era tolto la vita nella sua casa di Afragola.

Avevo intervistato Maria Baratto nel 2009, per un documentario sullo stabilimento di Pomigliano dal titolo La fabbrica incerta. Ci eravamo dati appuntamento nella sede del sindacato Slai Cobas, uno spoglio locale situato in una stradina fuori mano poco distante dalla fabbrica. Maria mi aveva descritto la sua parabola lavorativa con grande naturalezza, nonostante il momento non facile. Senza enfasi né risentimento, ma con una sofferenza evidente, che cresceva sul suo viso man mano che il racconto andava avanti. A un certo punto la tensione divenne così forte da indurci a spegnere la telecamera. Poi riprendemmo, cercando di girare al largo dalle questioni più delicate. Maria non aveva recriminazioni da lanciare, piuttosto sembrava attonita, disarmata, profondamente addolorata dalla piega degli eventi. Faceva pensare, la sua, alla storia di un amore deluso.

Era stata assunta a Pomigliano all’età di ventidue anni. Per descrivere quel periodo usava parole come orgoglio, passione, indipendenza. Dopo dieci anni di catena di montaggio erano cominciati i problemi alla schiena. Costretta a fermarsi, cominciarono le visite mediche, le richieste di certificazioni, un periodo di emarginazione e sofferenza, anche psicologica. Poi finalmente la assegnarono a un ufficio. E non importa se non le cambiarono il livello salariale. «Non stavo più otto ore in piedi. Mi ero reintegrata, ero più serena. Mi svegliavo di nuovo la mattina, forse anche con l’entusiasmo di andare a lavorare…». Poi un altro disagio fisico l’aveva fermata, e subito dopo era arrivato il telegramma: la comunicazione del trasferimento al reparto di Nola. Come accade ad altri operai, e non di rado a quelli più conflittuali con l’azienda, traspariva dalle sue parole un attaccamento profondo, dimostrato attraverso il rispetto e la dedizione, a quel sistema che adesso la respingeva. «Un lutto affettivo», definiva così il distacco dallo stabilimento che aveva segnato la sua vita, nel bene e nel male.

I reparti confino non sono stati inventati a Pomigliano. La Fiat ne allestiva già durante gli anni Cinquanta. In Campania, quando la Fiat acquisì l’Alfa Romeo, vennero create le cosiddette Upa, unità produttive autonome, reparti distaccati nei comuni del napoletano in cui venivano trasferiti i lavoratori invalidi e sindacalizzati. Oggi a Nola si concentrano gli indesiderabili in un capannone avulso alla fabbrica, condannandoli all’inattività. Otto ore vuote davanti. Ogni giorno, per anni. Il polo di Nola serve anche a fare le preselezioni in vista dei prossimi esuberi. Non a caso, la cassa integrazione per questo reparto scade il 13 luglio e l’azienda non ha ancora comunicato come intende regolarsi.

I reparti confino sono luoghi allestiti con l’obiettivo premeditato di umiliare le persone. Sono un monito, una minaccia nemmeno tanto velata. Fai il cattivo? Non fai quello che ti dice il capo? Non reggi i ritmi del lavoro? Te ne vai a Nola. Da un giorno all’altro, senza possibilità di scelta. Esiste un nesso strettissimo tra autoritarismo, organizzazione del lavoro e strategia industriale.

I reparti confino sono un segreto di Pulcinella. La loro essenza è stata descritta in decine di articoli, interviste, conferenze. Eppure restano lì. Il reparto di Nola esiste dal maggio del 2008, un luogo dell’assurdo, che non ha nemmeno bisogno di occultarsi, forse perché nella mattanza dei diritti compiuta in questi anni dalla Fiat a Pomigliano, ogni ulteriore aberrazione scolora, perde forza, diventa accessoria a confronto con le precedenti. E tutte insieme finiscono per essere accettate o subite, dentro e fuori la fabbrica, in nome di qualcosa che all’inizio aveva un nome – lavoro, salario, futuro, sopravvivenza – ma che di giorno in giorno sembra smarrire senso e valore, spezzando il residuo legame con la vita e trasformandosi nel suo contrario.

«Io voglio credere che questa situazione si ribalti – diceva Maria Baratto nel film –, che la figura dell’operaio torni a essere quella che era un tempo. Io non sono preparata come altri, non mi posso esprimere con chissà quali parole, ma penso che la figura dell’operaio è quella che ha mantenuto in piedi la nazione. Noi siamo le formiche, se ci fermiamo noi che cosa accade?». (luca rossomando)

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