
Novembre 2018. Gli uffici barcellonesi dell’impresa Glovo si preparano a conquistare il mercato italiano del food delivery, assorbendo Foodora e diventando la seconda potenza sulla piazza insieme a Deliveroo. Per sostenere l’operazione, nella capitale catalana si assume personale italiano con conoscenza del castigliano preferibile, ma non obbligatoria.
Decine di persone si presentano alle selezioni, le passano facilmente, nel giro di pochi giorni firmano un contratto. Un contratto vero, come non ne vedevano da mesi, forse da anni, per alcuni è il primo. Poco importa se in città gli affitti sono alle stelle, la gentrificazione avanza inesorabile e la situazione politica è nel caos. Per alcuni l’emigrazione a Barcellona è una boccata d’aria fresca. Sono stati gli amici a dirgli di venire: guarda che lavoro se ne trova, la domanda aumenta, non c’è bisogno di imparare il castigliano, figurati il catalano, quando usciamo a prendere una birra in fondo siamo tra di noi. Ma tu lo sai quanti italiani ci sono a Barcellona? 36.276, prima comunità straniera.
In cosa consiste il lavoro per cui è richiesto così urgentemente personale? La figura è operatore di contact center, l’interfaccia tra il rider e l’azienda e tra il cliente e l’azienda. Quando il rider avrà difficoltà a trovare il cliente, il punto di raccolta o di consegna, il prodotto, quando avrà problemi tecnici di qualsiasi tipo o vorrà riassegnare la sua consegna, aprirà una chat per connettersi al contact center. Quando il cliente riceverà prodotti sbagliati, in ritardo, quando cambierà improvvisamente indirizzo, o vorrà cancellare il suo ordine, aprirà una chat per connettersi al contact center.
Formazione generale, primo punto: le scrivanie del contact center devono rimanere immacolate, prima, durante e dopo il tuo turno. Carta, penne, matite, cibo, auricolari personali, smartphone, portafogli, borse, giacche, sono oggetti proibiti, vanno lasciati negli armadietti, al piano di sopra del grattacielo che ci contiene. Liquidi in borraccia, bottiglie o bicchieri monouso, solo se coperti, auricolari in dotazione dall’azienda, sono gli unici oggetti ammessi. Protezione dei dati e pulizia. Poi ti spiegano i diritti, ti istruiscono sui rischi lavorativi e sull’obbligo di alzarti ogni ora dalla scrivania per cinque minuti. Riposo visivo, una conquista dei sindacati. Per il resto, solita aria da call center: niente deve legarti al tuo posto di lavoro, tutto deve comunicarti temporaneità, flessibilità. Ogni giorno cambierai postazione, sarà la prima che ti capita una volta oltrepassato il tornello della sala, casuale come la tua presenza in quel luogo.
Guerra tra ultimi
La formazione specifica appare a tratti improvvisata, dura poco. Due giorni di teoria e simulazioni con giovanissimi supervisori e una settimana di affiancamento coi “veterani”. Dopodiché iniziano le vere chat, quelle coi rider. In teoria basta seguire i processi automatici che si dispiegano davanti ai tuoi occhi, sullo schermo e rispondere alle domande come fossi un bot. File excel strapieni di risposte predefinite dovranno contenere le possibilità del caso. Ctrl + C e Ctrl + V saranno i comandi che più ti verrà richiesto di utilizzare.
Questo in teoria. Nella pratica si scopre che siamo irrimediabilmente umani e che per alcuni le raccomandazioni da tenere più a mente saranno altre: mai trattare il glover come un dipendente, mai obbligarlo a portare a termine un ordine, rispondere gentilmente, ringraziare, salutare. Curioso siano necessarie tutte queste raccomandazioni. Sembra avere a che fare con le parole che i fondatori della app usano nelle interviste: “Ce l’abbiamo molto chiaro. Un glover è un collaboratore e quindi non puoi costringerlo a fare nulla. Altre piattaforme potrebbero chiedere ai rider di soddisfare maggiormente le esigenze dei clienti. Nel nostro caso non è così. Se vogliono impiegare mezz’ora o un’ora, o se vogliono lasciare anche un ordine in corso, possono farlo e il nostro servizio clienti non può costringerli a fare nulla, perché in quel momento cesserebbe di essere un rapporto commerciale e diventerebbe un rapporto di lavoro. Ovviamente ci sono alcune regole affinché il servizio sia buono e rispettoso”.
La filantropia c’entra poco. Il glover è un rider che lavora per Glovo, la guerra alle vecchie regole del lavoro si combatte anche sul piano del linguaggio, se le parole in italiano non esistono c’è sempre l’inglese, che fa più cool: non si parla di busta paga ma di fattura, non si parla di turni, ma di slot, non hai più un curriculum, ma un rating, non si viene assunti, si sale a bordo.
Nelle ore di punta (ore serali, weekend) la sala operazioni si trasforma. Bisogna smaltire fino a quattro chat alla volta, non si può rimanere inattivi per più di tre minuti. Risolvere velocemente e chiudere le chat, ne seguiranno altre assegnate in automatico. Classifiche sui tempi di reazione e sulle prestazioni saranno fornite quotidianamente. L’approssimazione e le lacune della formazione si fanno sentire, ma i supervisori assicurano: solo con la pratica si acquisisce dimestichezza.
La pratica però non risolve un problema grave: in certi momenti sembra di essere in un esperimento di Milgram, l’impeto aziendalista di alcuni operatori è fortissimo anche solo dopo qualche giornata di lavoro. Peccato che da questi uffici si gestiscano le sorti di chi è in strada sotto le intemperie.
Di cosa parliamo? Le regole per rendere il servizio efficiente hanno a che fare col rating, un punteggio che viene dato ai glover e che dipende dai clienti ma anche dalle valutazioni degli operatori del contact center. Il glover può liberamente chiedere che la consegna venga riassegnata, tuttavia chi risponde dal contact center dovrà valutare la spiegazione fornita dal glover e classificarla secondo un elenco ristretto di opzioni: 1. Too far away, il rider è troppo lontano, 2. Broken vehicle, il rider dovrà fornire via chat una foto che testimoni la rottura del veicolo. 3. Client absent, 4. product absent, 5. order not feasible, 6. issue with cash, 7. issue with credit card, 8 technical problems, condizioni più o meno verificabili da remoto. L’ultima opzione: 9. Glover refuse to do it, letteralmente “il glover si rifiuta di farlo”. Problematica questa che compromette di più il rating del rider. Gli operatori sono istruiti a ricorrere a questa opzione se non è possibile usare nessuna delle precedenti.
In Italia, come negli altri luoghi in cui Glovo è sbarcata, quello del rider è diventato il lavoro immediatamente disponibile per i migranti in cerca del primo impiego. Ora, non risultano esagerati i richiami all’empatia: ho personalmente assistito a un uso quasi vendicativo di questa opzione davanti a scontri verbali avvenuti con i rider, insulti razzisti, rimproveri, uso di un linguaggio degradante al telefono o in chat con persone che conoscono a stento l’italiano, le strade, il paese in cui stanno lavorando. Alcuni sentono in qualche modo di poter contare su una gerarchia che li mette un gradino più in alto dei rider, specie quelli stranieri. Succederà questo in tutti gli altri uffici? Probabile. È facile perdere la bussola quando la confusione regna sovrana: tra ultimi e più ultimi la precarietà fa faville, per chi non possiede documenti e non può fatturare direttamente, si subaffittano gli account.
Il subaffitto è più diffuso di quanto si pensi. I glover si scambiano gli account per mantenere alto il rating o per essere sostituiti durante malattie, vacanze, per qualsiasi tipo di assenza. Avere un buon rating significa ulteriori slot abilitati, così che l’algoritmo ti assegni sempre più consegne. Si trovano facilmente in rete annunci con richieste di affitto: il proprietario prende una commissione e il sostituto lavora per lui, magari nelle “ore diamante”, in cui è molto importante mantenere alta la media. (Allora non è vero che puoi scegliere tu quando lavorare e quando no?). L’azienda conosce il problema? Sì, dicono, l’hanno “intercettato”. Soluzioni proposte? Più sicurezza, più garanzie? Niente affatto. Migliorie tecnologiche, come il riconoscimento facciale, o quello dell’impronta digitale. A Barcellona la pratica è venuta a galla in seguito al tragico evento dello scorso maggio. Un rider è stato investito in piena notte durante una consegna. È deceduto sul colpo. Il suo nome era Pujan Koirala. Lavorava con un account in subaffitto.
Quasi coetanei
“Sono sicuro che sempre più persone in futuro vorranno vivere senza capi, senza orari e avranno diverse fonti di guadagno: daranno lezioni, lavoreranno come glover, metteranno il proprio appartamento su Airbnb… Questa è la tendenza del futuro”. Parola di Oscar Pierre, che di Glovo è l’inventore. Classe 1992, catalano e figlio di imprenditori. Mentre fa queste affermazioni sembra ignorare, chissà se in buona o cattiva fede, i modi contorti in cui l’economia di piattaforma stia condizionando l’esistenza di milioni di persone. Magari se ne sarà fatto un’idea proprio negli ultimi mesi, dopo la più grande “crisi aziendale” dalla sua formazione, lo scorso maggio.
Negli uffici direttivi si lamentano: la pressione giudiziaria è troppa. Glovo non menziona però che la Spagna è il paese europeo che più ricorre alla gig economy, il mercato dei piccoli incarichi. Triplicato in appena due anni, da 1,3 milioni di clienti nel 2016 si è passati a 3,2 milioni nel 2018, le previsioni parlano di crescita esponenziale. Grandi speranze sull’Italia per il prossimo anno. Ma nonostante le proteste, un tribunale di Madrid ha creato un precedente giuridico molto interessante: cinquecento lavoratori legati alla app Deliveroo sono stati dichiarati “falsos autonomos” dai giudici. Non è possibile considerarsi autonomi se è la piattaforma a fornire il lavoro ai rider. Non è poco, ma non è abbastanza.
L’economia di piattaforma lavora tra i meandri di una giurisprudenza contraddittoria (attualmente ci sono sei sentenze contro Glovo e otto a favore), impreparazione sindacale e non ultima una massa di consumatori che stenta ad anteporre la “necessità” individuale al benessere collettivo. Fa parte del gioco: la realtà del lavoro di piattaforma deve essere quanto più nascosta possibile, intangibile, liquida, perché il cliente diventi parte attiva nella diluizione e mercificazione del rapporto con chi fornisce il servizio. Nessuno deve sapere cosa succede nei contact center, i rider non devono avere possibilità di aggregarsi, il consumatore non deve percepire ciò che c’è dietro la consegna della sua pizza. Conseguenze: le numerose rivendicazioni dei rider sia in Spagna che in Italia, gli scioperi, il tentativo di coinvolgere anche i clienti o di sensibilizzare sulle discriminazioni nei contact center, ricevono puntualmente una risposta debole se non nulla (l’1 agosto a mezzogiorno, davanti la Sagrada Familia, ci sarà il prossimo sciopero a Barcellona).
La gig economy sa adattarsi bene in luoghi in cui esistono tre condizioni: un gran volume di persone che tendono a consumare online; stipendi che garantiscono consumi frequenti; parecchia manodopera casuale in giro. Sguazza nel fomentare atomizzazione del lavoro, competitività, individualismo, di fatto uscendone perfettamente o quasi pulita. È questo che si sta cercando di esportare in blocco anche in Italia.
Pujan Koirala aveva ventitré anni, era nepalese, si era trasferito a Barcellona nemmeno quattro mesi prima di quel maledetto 26 maggio, dopo un periodo di permanenza in Germania. La sua ragazza di vent’anni aspettava che tornasse a Syangja, un villaggio a quasi trecento chilometri da Katmandu, dopo aver risparmiato un po’ di soldi per potersi sposare. Di Oscar Pierre era quasi coetaneo, ma cosa pensasse Pujan del futuro non interessava a nessuno. Il suo, in ogni caso, si è interrotto tra calle Balmes e Gran Via, scontrandosi con un camion dell’immondizia.
Un amico racconta che Pujan sapeva andare bene in bici, ma non era molto pratico delle strade di Barcellona. Chissà se quella notte si è rivolto a un contact center per farsi aiutare col tragitto, e chissà se il destinatario del suo pacchetto, vedendo dal suo smartphone il puntatore di google maps fermo in un punto, avrà contattato un operatore, lamentandosi del grave ritardo nella consegna.
A pensarci bene Pujan il futuro ce lo sta raccontando proprio ora: è il totale disinteresse per la sua vita spezzata, è la difficoltà che ho avuto a ritrovare il suo nome, la sua storia, la sua immagine, è la constatazione che sarà sempre più facile incontrare altre storie, altre immagini sulle copertine dei giornali, quelle dei suoi coetanei occidentali, inventori di app dai nomi alla moda rilasciate nelle capitali d’Europa come bombe silenziose, di cui nessuno si accorge. Queste facce sono celebrate ovunque, sono tutte uguali: giovani dallo sguardo pulito, tanta fiducia in se stessi, nemmeno un dubbio mai. Sono quelli che stanno riscrivendo la storia di milioni di persone a suon di indecifrabili algoritmi, istruiti dal più feroce capitalismo a non prendersi nemmeno una responsabilità. (giusi palomba)
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