Descolarizzare la società. Liberarsi di questa ingombrante “macchina del vuoto”, dove le “vestali della classe media” si preoccupano solo ed esclusivamente di adattare i bambini alle richieste che il sistema economico rivolge al mondo dell’educazione, senza via di scampo. Non ci sono alternative. O almeno, sembrano essere sempre più isolate. Chi attraversa il mondo della scuola credo faccia un’enorme fatica a non prenderne atto, a non cedere all’analisi impietosa che Ivan Ilich ha condotto ormai quasi cinquant’anni fa sull’istituzione educativa. A credere che, ancora oggi, al suo interno possano essere formate generazioni di futuri cittadini dotati di pensiero critico e non consumatori assuefatti alle logiche del mercato.
Il disagio che si vive all’interno delle classi nelle quali passano centinaia di ore della loro vita i nostri bambini, ha ormai raggiunto livelli intollerabili. A scuola si sta male e sarebbe bene confessarselo, condividerlo, con un po’ di lucidità, per iniziare a fare un ragionamento serio e provare a spiegare perché si sta così male. Qualche giorno fa, mentre portavo i bambini a mensa, mi sono ritrovato un foglio svolazzante, caduto chissà da dove, tra i piedi. L’ho raccolto, e con grande sorpresa mi sono accorto che si trattava di una frase di Gianni Rodari sulla lettura. “I libri sono come dei semi…”. Già. Alimentano la mente, la creatività, come il cibo le ossa e i muscoli. Certo, non credo che Rodari si riferisse a quelli vecchi e rovinati che si trovano negli armadi, in polverose biblioteche scolastiche dove non va mai nessuno. Con quel tipo di libri è difficile possa germogliare qualcosa. Storie semplici, scritte in modo dozzinale, illustrate con pochissima cura, più che affabulare i bambini e spingerli ad avventurarsi nel mondo immaginario della letteratura, toccando corde profonde della loro sensibilità, li allontano definitivamente e irrimediabilmente dalla magia dalla narrazione.
Se il nostro Gianni fosse oggi qui tra noi, chissà cosa penserebbe di queste storie così lontane da quelle che lui suggeriva di inventare, a partire anche da poche parole, da un accostamento bizzarro, da un’associazione inaspettata, fonetica, semantica, simbolica, e che potevano portare i bambini a fare esperienze creative. Veramente creative. O quelle che proponeva di modificare a partire dai grandi classici, dalle fiabe tradizionali, facendo incontrare i sette nani e la bella addormentata, Cenerentola e Biancaneve, immaginando che invece del lupo ad aspettare Cappuccetto Rosso nel bosco ci fosse una giraffa. Senza filtri, senza tabù. Diceva che “la fantasia non è un lupo cattivo del quale si debba aver paura, o un reato da tallonare in permanenza con un puntiglioso pattugliamento”, e che un giorno avrebbe scritto una storia, l’avrebbe consegnata a un notaio e gli avrebbe dato l’ordine di pubblicarla solo nel 2017, quando sarebbe certamente cambiato il concetto che ha la società di ciò di cui è bene parlare e di ciò che invece è meglio tacere e nascondere. “A quel tempo sembrerà di cattivo gusto sfruttare il lavoro altrui e mettere in prigione gli innocenti e i bambini, invece, saranno padroni di inventarsi storie veramente educative anche sulla cacca”.
Proiettati come siamo verso l’anniversario del centenario della sua nascita, della nascita dell’unico scrittore italiano ad aver mai vinto il premio internazionale Andersen, il Nobel della letteratura per l’infanzia, in pochi si accorgono (perché forse non vogliono vedere quello che è sotto lo sguardo di tutti) che nel momento in cui il suo nome campeggia sempre più spesso negli ingressi delle scuole, la sua immagine occupa pareti intere, strade a lui sono state intitolate, il ricordo di quello che ha detto e fatto per la scuola, nella scuola, con insegnanti e bambini, sfuma e si rivela sempre più opaco, sempre più assente nelle programmazioni e nella didattica. Chi si ricorda veramente di Gianni Rodari? Chi lo conosce, chi lo legge? Chi si preoccupa di evitare riduzionismi e semplificazioni e di permettere agli insegnanti di avvicinare un personaggio il cui contributo alla riflessione sul mondo della scuola, dell’insegnamento, dell’apprendimento, del rapporto tra democrazia, educazione, trasformazione sociale, è difficilmente misurabile?
Di lui a scuola si fa un uso superficiale e mediocre. Una filastrocca natalizia, una favola al telefono, un omino di vetro o una fabbrica di cioccolata, ma della sua gigantesca eredità intellettuale nelle aule delle scuole del nostro paese, neanche l’ombra. Dov’è il suo amore per i bambini? Il rispetto che nutriva per le loro capacità? Il calore con il quale accoglieva e rispettava le loro idee sul mondo, sulla vita, le loro teorie, ingenue, ma non per questo meno importanti o utili a svilupparne di più complesse. La convinzione che da loro ci si potesse aspettare grandi cose, che se accompagnati nel percorso di scoperta del mondo e delle sue ingiustizie, da loro forse sarebbero venute risposte che noi non abbiamo saputo trovare. Era convinto che il bambino dovesse far “provvista di ottimismo e di fiducia, per sfidare la vita. E poi, non trascuriamo il valore educativo dell’utopia. Se non sperassimo, a dispetto di tutto, in un mondo migliore, che ce lo farebbe fare di andare dal dentista?”.
Non basterebbero centinaia di pagine per contenere tutti i versi più belli. A me tornano in mente quelli delle filastrocche per tutto l’anno: “Vedo… vedo un signore ben poco originale: ha in testa solo quello che legge nel giornale. Guardiamo nella testa di quel giovanottone: ci si leggono appena le parole di una canzone. Una signora. Spiamo sotto il suo cappellino? ‘Bau!Bau’ Cosa? Ho capito: pensa al suo cagnolino. Vedo un bambino. È piccolo. Ce l’avrà almeno un pensiero? Sorpresa! Guardate voi stessi: sta pensando al mondo intero”.
A me stesso, ai tanti colleghi e colleghe, ai genitori, con i quali non aveva paura di polemizzare, spesso dalle colonne del giornale con cui collaborava, il romano Paese Sera, ma anche sulle riviste per insegnanti come La Riforma della scuola, o Il giornale dei genitori, andrebbe ripetuto spesso che le verità e le certezze di cui ci sentiamo portatori non hanno dato grandi risultati e che il mondo che lasciamo ai bimbi in eredità, forse non è peggiore di quello che abbiamo ricevuto noi, ma neanche migliore. Il nostro lavoro quindi, lascia parecchio a desiderare. Ricordarselo, ripeterselo più spesso fa bene, ci metterebbe in quella disposizione d’animo e di intelletto che quando si è genitori o si lavora con i bambini aiuta a scendere da alti piedistalli e ascoltare di più, fidarsi di più dei bimbi e credere di più nelle loro possibilità, invece di spegnere rapidamente qualsiasi slancio.
Oggi purtroppo la scuola e la nostra società di Rodari si sono dimenticate. Lo celebrano riempiendo un muro di alcuni suoi versi, convocano esperti, organizzano convegni, ma a farsi carico del suo messaggio, viverlo e condividerlo con i bambini, sono proprio in pochi. (giovanni castagno)
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