Nell’attesa che gli “accordi di Malta” si traducano in uno strumento più concreto, rimane inalterata la situazione dei richiedenti asilo soggetti alle ridistribuzioni. Alle violenze subite prima del viaggio in mare e alle settimane in balia delle decisioni degli stati europei e della politica dei “porti chiusi”, stanno seguendo mesi di attesa e mancanza di informazione circa il proprio destino e la propria situazione giuridica.
Le procedure di ridistribuzione cui stiamo assistendo non hanno nessun fondamento normativo che ne regoli lo svolgimento. Sono basate unicamente sulla clausola di sovranità posta dall’articolo 17 del Regolamento di Dublino, che prevede che uno stato membro possa farsi carico dell’accoglienza di richiedenti asilo anche in deroga ai criteri con cui il Regolamento attribuisce la competenza. Di fatto, si tratta di un accordo tra stati del tutto informale che determina, da una parte, l’arbitrarietà della ridistribuzione e, dall’altra, un allungamento indefinito della permanenza dei richiedenti asilo nei cosiddetti “hotspot”.
Al momento, le pratiche di ridistribuzione sembrano seguire il seguente iter: si inizia con dei colloqui con gli operatori EASO e gli agenti della polizia italiana, al fine di compilare il foglio notizie e il modello C3 per la formalizzazione della domanda di protezione internazionale. Da quanto riferito, non viene fornita alcuna copia dei documenti sottoscritti dai richiedenti asilo, a cui viene detto che soltanto in seguito gli sarà rilasciato un documento identificativo. In effetti, l’attestato nominativo, certificante la loro condizione di richiedenti asilo, viene consegnato agli ospiti dei centri con tempistiche diverse e comunque nell’ordine di settimane, se non di mesi.
L’incontro con le delegazioni dei paesi della ridistribuzione inizia subito dopo la formalizzazione del modello, a detta di molti con domande che ricordano un interrogatorio, piuttosto che finalizzate a raccogliere le storie dei candidati. Molti richiedenti asilo hanno percepito queste interviste come dei “test” da superare. Al termine del colloquio, soltanto le delegazioni di alcuni paesi consegnano un documento attestante l’avvenuta intervista.
Un’altra circostanza che abbiamo avuto modo di rilevare è il trasferimento di alcune persone dall’hotspot di Pozzallo in alcuni CAS della provincia di Ragusa, nonostante si tratti di persone che hanno sostenuto il colloquio con le varie delegazioni dei paesi e ai quali è stato riferito di attendere il trasferimento nel paese meta. Anche tale prassi risulta discrezionale e foriera di ulteriore confusione tra i richiedenti asilo che non capiscono le motivazioni di percorsi così differenti.
Alcuni dei candidati ancora presenti in Italia raccontano che le persone trasferite in altri paesi, come la Francia, avrebbero ottenuto il riconoscimento della protezione internazionale senza dover ricominciare la procedura d’asilo nel paese di destinazione. Se così fosse ci sarebbe una selezione a monte dei candidati per essere ammessi in un determinato stato, sulla base di criteri che potrebbero spaziare dalla nazionalità all’età o altri requisiti soggettivi. O ancora essere basata sulla prevalutazione della sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione internazionale. Se fosse vera quest’ultima ipotesi, cosa succederà a coloro i quali non sembrano ricadere all’interno delle stringenti definizioni della protezione internazionale, anche alla luce dell’abrogazione della protezione umanitaria a seguito dell’entrata in vigore del Decreto sicurezza?
IL CASO SEA WATCH E LE PRATICHE DI CONFINAMENTO
Data l’informalità degli accordi e delle pratiche di ridistribuzione, non tutte le delegazioni seguono il modello sopra riportato. Emblematico è il caso delle persone salvate dalla nave Sea Watch III a fine giugno scorso, coinvolte nell’iter di ridistribuzione. Mentre la maggior parte delle cinquantatre persone salvate dalla nave tedesca è già stata ripartita nei paesi di destinazione, il destino di diciotto migranti rimasti in Italia è ancora sospeso. Ormai da quasi quattro mesi aspettano invano all’interno del CPA di Messina di sapere se verranno trasferiti come richiesto in Germania, che non solo non ha ancora ufficialmente dichiarato quante e quali persone prenderà in carico, ma non ha nemmeno fornito ai richiedenti un documento attestante l’avvenuta intervista.
Nel corso dei quattro mesi in attesa in Italia queste persone non hanno ricevuto alcuna informazione sulla loro ridistribuzione. Ancora una volta la mancanza di regolamentazione delle procedure genera una situazione di incertezza, di sospensione del diritto e di discriminazione. La ridistribuzione va inoltre a inficiare anche il diritto alle cure mediche, che non vengono fornite con la scusa che saranno i paesi destinatari a doversene fare carico. Per queste diciotto persone la permanenza a Messina si è trasformata nel confinamento in un limbo dove non si ha accesso ai servizi base e i diritti vengono sistematicamente calpestati. La ridistribuzione, per molti, non è altro che un miraggio lontano.
LA PRECARIETÀ NELL’EX CASERMA BISCONTE
La struttura di Messina risulta, come noto, divisa in due zone, adibite una a CPA e una a CAS. Nonostante siano due strutture separate con due enti gestori diversi (nello specifico Medihospes per il CAS e Badia Grande per il CPA), di fatto entrambi i centri svolgono funzioni di hotspot. Infatti, il collocamento e il trasferimento dei richiedenti asilo da una zona all’altra risulta arbitrario.
Dalle conversazioni con le persone incontrate fuori dal centro è emerso che tra CPA e CAS sono presenti attualmente circa trecento persone. Le criticità sono tante. La più grave è probabilmente l’assenza di cure mediche, praticamente inesistenti. Da più voci emerge come gli ospiti, alcuni dei quali presenti dallo scorso luglio, non vengano sottoposti a un adeguato screening, ma ricevano in somministrazione antidolorifici (peraltro in quantità insufficiente) come rimedio per qualunque malessere. Alcuni ospiti riferiscono anche che per accedere alle cure mediche non basta chiederle: bisogna protestare con gli enti gestori, “farsi sentire”, “fare rumore”.
Altra criticità è la mancanza di personale adeguato per la mediazione linguistica. Ci viene raccontato che il personale è italiano e non parla fluentemente né comprende bene l’inglese e il francese. Anche il pocket money fornito è insufficiente e viene rilasciato con modalità inadeguate a far fronte ai bisogni degli ospiti (i ragazzi con cui abbiamo parlato hanno detto di aver ricevuto circa 15 euro al mese). Altre persone segnalano la mancanza di prodotti per l’igiene personale; ci viene riferito della distribuzione di un solo sapone al momento dell’ingresso che deve bastare per l’intero periodo di permanenza. (valeria pescini/giuseppe platania – …continua a leggere)
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