Lo Stato è il carabiniere.
Perché tutti i codici, tutte le dottrine, tutte le leggi sono nulle,
se a un dato momento il carabiniere colla sua forza fisica
non fa sentire il peso indistruttibile delle leggi.
[Benito Mussolini, 1923]
Meno di due anni fa qualcuno ha provato a spiegarci che “giustizia” era “il carcere”. Quattro anni e quattro mesi di galera per un uomo che senza motivo aveva sparato a un ragazzo. Lo aveva scambiato per un altro tizio, l’aveva inseguito, scaraventato via dal suo motorino e ammazzato. Quattro anni e quattro mesi era tutto quanto si poteva fare, in quella situazione. Tutto quello che concedeva la legge. A deciderlo, però, era stato un processo pieno di ambiguità, punti oscuri, prove sparite, comportamenti anomali e indagini approssimative. D’altra parte, nonostante sembrasse tutto un grosso imbroglio, pareva anche che fossero state giocate le carte giuste per restare nel gioco.
Il (non) processo di ieri ha mostrato invece che “giustizia” è compensazione tra poteri, è mettersi attorno a un tavolo e decidere. Ha detto che la vita di Davide Bifolco non vale nulla, che la sola ammissione di avergliela tolta è condizione sufficiente per non parlarne più. Sebbene l’evidenza dicesse il contrario, si è continuato ad affermare che “legge” è uguale a “giustizia”, e forse noi tutti, da osservatori di una vicenda che sembrava via via più assurda, ci abbiamo creduto, anche solo accettando quelle regole di cui non ci accorgiamo nemmeno, e che tolleriamo fino a quando non fanno a pezzi il nostro mondo. Come quando al Monopoli non riesci a trovare un motivo valido per dover ripartire dal via.
Ieri, più o meno a mezzogiorno, si è concluso il processo a Gianni Macchiarolo, carabiniere nonché assassino di Davide Bifolco, adolescente del Rione Traiano. Iniziata l’udienza, la difesa del carabiniere ha presentato una richiesta di concordato in Appello, in cui chiedeva al procuratore generale e alla corte, previa ammissione della colpa, una riduzione della pena da quattro anni e quattro mesi a due anni con pena sospesa. Il procuratore generale ha concordato sulla pena proposta dall’imputato a modifica di quella del primo grado, ritenendo equivalenti (e dunque non calcolate) l’aggravante all’epoca riconosciuta e le attenuanti generiche, che invece in primo grado non erano state concesse. Dopo una lunga ma sostanzialmente inutile arringa della parte civile, il collegio si è ritirato per decidere. Un’ora e la notizia era ufficiale: Gianni Macchiarolo, reo confesso di omicidio colposo ai danni di Davide Bifolco, è stato condannato a ventiquattro mesi con pena sospesa. Non andrà in prigione né ai domiciliari. Non sarà interdetto dai pubblici uffici. E il processo? Niente confronto, niente udienze, niente discussione. Nemmeno l’illusione di poter mostrare le proprie carte. Nemmeno la frustrazione di poter chiedere invano giustizia. Dice bene Giovanni, il papà di Davide, quando dice che non è una roba per poveri.
Il resto della giornata è Flora, la mamma di Davide, che rimane a terra disperata fuori dall’aula, sapendo che non c’è più niente da fare se non andar via; sono gli attimi lunghissimi all’uscita di Annachiara, Tommaso e Alberto, i fratelli del ragazzo, e poi dietro Flora e Giovanni, quasi di corsa, senza sapere dove andare, mentre dicono ai pochi parenti che erano riusciti ad arrivare fuori la porta: «È finita!», «È finita!», «Due anni, è finita!»; sono le trenta persone in presidio, e gli striscioni all’esterno del Palazzo di giustizia, protetto da un manipolo di guardie, che non sanno bene cosa fare, pensando che la cosa più saggia probabilmente è mantenere la calma e tornare a casa.
Forse era già chiaro come sarebbe andato questo processo, forse la consapevolezza di difendere una causa giusta non ha messo in guardia rispetto alla forza così diversa che i due pesi esercitavano su quella bilancia sempre difettata. Mentre Tommaso, fratello di Davide, a casa continuava a ripetere che è per quello che la gente studia. Per farsi furba e governare le regole.
Ma se le regole sono queste, allora, qual è il modo giusto per mandare all’aria il tabellone? Una rete di persone, attivisti, cittadini, in questi anni ha provato a farlo nel quartiere con pazienza, lavorando con i più piccoli, mostrandogli un percorso alternativo, con meno sassi e ostacoli; è stato scritto un libro, sono stati organizzati incontri con gli studenti, percorsi chilometri di autostrada per raccontare quella storia in modo diverso; si è provato a parlare con tutti, a coinvolgere persone, a organizzare musica, teatro, a unire energie differenti, preti, studenti e disoccupati. Con la consapevolezza che quella fosse una goccia nel mare, ma che un lavorio costante e accurato avrebbe forse potuto fare un buco nel muro.
Eppure ieri, ancora una volta, il processo tenuto a Napoli non è stato fatto al carabiniere che ha ucciso Davide, ma alla vittima, ai suoi genitori e fratelli, amici e compagni di calcio, scuola, scorribande, ai pochi militanti presenti al fianco della sua famiglia. Le altre pedine hanno fatto il proprio, più o meno inconsapevolmente: la poliziotta buona che consola la mamma addolorata; i giornalisti indignati per lo scandalo giudiziario, che dimenticano il fango con cui avevano ricoperto fino a ieri il quartiere e la famiglia; quelli determinati a raccogliere una lacrima in alta definizione, uno scivolone rabbioso sulla camorra, una frase troppo violenta persino per la circostanza; quelli che «vi siamo sempre vicini ma muovetevi a farci intervistare il papà, che dobbiamo andare a seguire la conferenza della squadra femminile dell’Afro-Napoli».
La sconfitta è quella di non essere riusciti, in questi anni, ad alzare abbastanza la voce perché il processo non fosse fatto a Davide, alla famiglia Bifolco, agli adolescenti senza casco del rione, alle ragazzine madri quindicenni, agli scantinatisti e ai pali delle basi, ai tossici, agli emarginati, a quel mondo di sotto di cui il resto della città si accorge solo quando, in un modo o nell’altro, qualcuno alza il tombino. Abbiamo combattuto non capendo che su quel tavolo gli assi erano stati già divisi. Ciò non vuol dire che non si debba continuare, ma è necessario farlo con una consapevolezza in più: che le lotte più dure prescindono da ogni speranza. (riccardo rosa)
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