È in libreria a Napoli (qui indice e distribuzione) – e dalla prossima settimana anche a Roma, Milano, Torino, Firenze, Bologna – il numero uno de Lo stato delle città. Pubblichiamo a seguire, estratto dalla rivista, l’articolo Un nuovo attacco, di Michele Colucci.
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Il governo Conte, in carica ormai da alcuni mesi, ha contribuito a rendere il tema dell’immigrazione come uno dei più caldi nell’agenda politica. Ogni giorno vengono annunciati provvedimenti, sbandierate statistiche, lanciate accuse al nemico di turno, interno o esterno che sia. Chi sta pagando sulla propria pelle questa infinita campagna mediatica e politica sono gli immigrati stessi, messi giorno dopo giorno nella condizione di doversi difendere da attacchi che provengono ormai da moltissimi fronti. Ma a fare le spese più in generale di questa situazione così caotica è la possibilità stessa di veicolare un approccio lucido e razionale al tema dell’immigrazione straniera. Non si tratta ovviamente di una novità. Negli ultimi vent’anni si è sviluppato in Italia un clima ostile alla presenza straniera, prima radicato solo in piccoli gruppi più o meno organizzati, poi sempre più serpeggiante nell’opinione pubblica e ormai dilagante su scala di massa. Paradossalmente la crescita delle tensioni sull’immigrazione è avvenuta – dal 2010 a oggi – proprio in coincidenza con il complessivo calo dello sviluppo dell’immigrazione straniera. Basta guardare ai dati annuali forniti dall’Istat sul rilascio dei permessi di soggiorno a cittadini non comunitari per comprendere le dimensioni di questa trasformazione: dai 598.567 rilasciati nel 2010 si passa ai 226.934 del 2016.
Gli attacchi all’immigrazione non sono quindi aumentati in coincidenza con l’aumento dell’immigrazione: dobbiamo guardare per comprenderne le cause al contesto più generale in cui sono maturati. Si tratta di una fase storica – gli ultimi dieci anni – dominata dall’impatto della crisi economica internazionale e dalle conseguenze dei nuovi conflitti nel Mediterraneo. Una fase in cui l’Italia ha scelto consapevolmente di combattere le immigrazioni legali: da un lato firmando accordi come quello del 2009 con la Libia di Gheddafi orientato al respingimento degli arrivi, dall’altro azzerando tutti i provvedimenti come le regolarizzazioni o i decreti sui flussi annuali che garantivano un afflusso regolato da una cornice legata all’inserimento nel mercato del lavoro.
I colpi inferti prima dal ministro dell’interno Minniti e poi dal nuovo ministro Salvini al diritto d’asilo vanno letti in quest’ottica, integrandoli con il blocco parallelo di qualunque iniziativa istituzionale pensata per governare le migrazioni per lavoro. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: l’immigrazione si configura come un tema adatto a essere impugnato da qualunque tribuno interessato ad accreditarsi come il salvatore della patria.
Periodicamente, però, questo schema è stato scompaginato, grazie principalmente alle mobilitazioni degli stessi immigrati. Sono stati appena ricordati i dieci anni dalla strage di Castel Volturno del 2008, che avrebbe avuto un impatto a livello nazionale ben diverso se gli amici, i colleghi, i conoscenti delle vittime non si fossero presi, almeno per una giornata, dopo la strage, lo spazio pubblico della città, manifestando e raccontando ciò che era successo. Due anni dopo, nel 2010 a Rosarno, in Calabria, con la rivolta dei braccianti a seguito delle ennesime intimidazioni, si è ripetuto uno scenario simile: l’agricoltura è diventata non più solo il terreno dello sfruttamento più intenso della manodopera stagionale ma anche uno spazio di vertenze, di iniziative e di conflitti che hanno permesso anche di ottenere risultati concreti.
Per capire come e in che modo è possibile rispondere a quella che oggi sembra un’offensiva inattaccabile e pervasiva, può essere utile riguardare proprio a quella congiuntura, collocabile nel periodo compreso tra il 2008 e il 2010, prima della stagione caratterizzata dai nuovi flussi legati alle conseguenze dei nuovi conflitti in area mediterranea e medio-orientale.
In un paese in cui erano già evidenti i segni della crisi economica, l’attacco portato al mondo dell’immigrazione fu ampio e articolato. Proprio nei giorni della rivolta di Rosarno l’allora ministro dell’istruzione Gelmini diramò la circolare che imponeva il tetto del trenta per cento agli alunni di origine straniera nelle classi delle scuole italiane. E poco tempo prima il “pacchetto sicurezza” varato dall’allora ministro dell’interno Maroni apriva a una delle pratiche più pericolose in tema di sicurezza pubblica: la denuncia degli stranieri irregolari nei servizi di pronto soccorso. Fermiamoci solo a queste due disposizioni, che riguardavano due settori sociali decisivi e strategici come la scuola e la sanità. La risposta degli addetti ai lavori, degli immigrati, dei solidali fu ancora più ampia dell’offensiva governativa, fino a rendere sostanzialmente inapplicabile la circolare Gelmini e costringendo il ministro dell’interno a modificare la proposta iniziale del pacchetto sicurezza sulla denuncia al pronto soccorso. Sembra un secolo fa, ma sono passati pochissimi anni. La capacità di costruire alleanze sociali legate a questioni concrete rappresenta il lascito migliore di quella stagione. Nonostante il razzismo di stato e di strada (la strage di Castel Volturno è stata giustamente giudicata dai tribunali con le aggravanti delle motivazioni razziali), l’impoverimento di massa, i tagli alle spese sociali, una miriade di soggetti diversi fu in grado di imporre un’agenda politica alternativa a quella immaginata dal governo: infermieri, medici, insegnanti, presidi, attivisti, gli stessi immigrati seppero giocare una partita intelligente.
Oggi ci troviamo di fronte un contesto ulteriormente radicalizzato, ma tale radicalizzazione non è legata solo al razzismo contro gli stranieri, come sembrerebbe in apparenza. Il recente decreto Salvini su migrazioni e sicurezza, per esempio, contiene nella parte riguardante la criminalità organizzata una serie di disposizioni che sono pensate esplicitamente per attaccare i movimenti per il diritto all’abitare e l’universo delle occupazioni di immobili a scopo abitativo, che notoriamente sono composte da cittadini italiani e stranieri, insieme. Il decreto Salvini su immigrazione e sicurezza è stato anticipato, in questa direzione, da una circolare indirizzata ai prefetti firmata, il 1 settembre 2018, dal Capo di gabinetto del ministro Piantedosi. Il documento specifica punto per punto le indicazioni che i prefetti devono rispettare al fine di procedere, in sostanza, il più rapidamente possibile col massimo numero di sgomberi, senza soffermarsi sulle conseguenze sociali di tali sgomberi e, con poche eccezioni, sul destino delle persone che inevitabilmente rimarranno senza casa, italiane o straniere che siano.
Lo scenario attuale si configura ancora più che in passato come un attacco alle fasce più deboli della popolazione. Non si intravede però ancora una risposta all’altezza della situazione.
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