Foto e testo di Dario Cotugno
Miguel mi raccontava che tra i suoi amici, gli architetti erano gli unici a non essere andati via da Lisbona. Quasi tutti erano impiegati nel progettare case per i nuovi proprietari stranieri. La capitale portoghese è in continua trasformazione. Il giallo carico e denso della sua luce, riflette sulle schiere di nuovi bar e ristoranti e sulle facciate di palazzi fatiscenti, rivestiti da insegne di agenzie immobiliari che ne annunciano la vendita.
Negli ultimi trenta anni Lisbona ha perso trecentomila abitanti, a oggi soltanto dodicimila vivono nel centro. Negli ultimi cinque anni il mercato immobiliare ha assorbito lo squilibrio provocato dalle politiche post-crisi, generando prezzi, affitti e bisogni livellati sugli standard dell’universo cosmopolita che oggi popola la città.
Bola de neve, così i lisbonesi figurano forse una sensazione, l’ineluttabilità di un effetto domino che ingurgita rapidamente tutto: spazio, memoria, persone. Gli effetti di questa valanga hanno raggiunto anche la periferia, dove nei palazzi di edilizia popolare è possibile pagare quattrocentocinquanta euro per una stanza in una casa rinnovata e destinata a lavoratori o studenti stranieri, attratti dalle nuove aziende o poli d’eccellenza.
Eppure è qui, lontano dalle strade del centro, dove Lisbona si è estesa (e in buona parte trasferita) che la città ritrova alcuni tratti vivi del proprio passato. È qui che i lisbonesi condividono il quartiere con abitanti angolani, mozambicani e delle altre comunità delle ex-colonie, sgretolando via via pregiudizi secolari, ancora radicati nella società portoghese. Non sorprende troppo che è proprio fuori dal centro sempre più aggredito dal turismo che la città trova la giusta angolazione per esprimersi e raccontarsi. Dalla scena rap alla kuduro, una dance elettronica che ha origini angolane, fino al nuovo cinema portoghese, che trae spesso qui (mai banalmente) storie, temi e atmosfere. Distante dal centro, lontano da un’idea di città sempre più piegata ai bisogni di chi si può prendere il lusso di abitarci due settimane all’anno.
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