Il complesso di edilizia residenziale Mastranza Ukamau 1 si trova nei dintorni di Estacion Central, quartiere semi-centrale della capitale cilena, poco distante dal Parque O’Higgins e ben servito dalla metropolitana. Questo insieme di edifici inaugurati da poco più di una settimana è particolarmente interessante – almeno rispetto a corrispettivi esempi di edilizia popolare – per la struttura architettonica, la forma e la grandezza degli appartamenti, ma soprattutto per le modalità con cui è stato portato a termine il progetto. La loro storia inizia nel 2011, quando si riunisce attorno al centro culturale “Ukamau”, presente in quartiere fin dal 1987, un’assemblea popolare che inizia a interrogarsi sul tema del diritto all’abitare nel proprio quartiere. Ukamau significa “siamo così”, in lingua aymara. All’interno dell’assemblea si riuniscono molte famiglie di allegados, persone senza casa o in situazioni di forte disagio abitativo.
Secondo l’ultima inchiesta del 2017 condotta dal Ministero dello sviluppo sociale e della famiglia, solo a Santiago le famiglie definite in base alla loro condizione di allegamiento sono circa 105 mila, mentre superano le 300 mila in tutto il paese. Si tratta di persone che non possono permettersi di affittare, costruire o comprare una casa nel quartiere dove vivono e pertanto decidono di andare ad abitare da parenti o amici. Delle famiglie di allegados residenti a Santiago, la metà vive nelle zone semi-centrali della capitale. Espulsi dal mercato degli alloggi e obbligati a spostarsi verso zone periferiche e degradate, attivano varie strategie solidali di coabitazione per continuare a vivere nei quartieri dove poter mantenere le proprie reti famigliari e di sostegno, oltre che la propria localizzazione privilegiata rispetto ai luoghi di lavoro, ai servizi, all’accesso all’acqua potabile e ai trasporti.
Le condizioni di vita e l’accesso a infrastrutture e servizi infatti calano significativamente se ci si trasferisce negli alloggi sociali accessibili tramite i sussidi erogati dallo stato e collocati nelle periferie della capitale. Per fare un esempio, un articolo di Oriana Fernandez pubblicato nel novembre 2018 su La Tercera, quotidiano centrista, afferma che sono 224.499 le persone a Santiago a non avere accesso all’acqua potabile o al sistema fognario. Un altro fattore utile a comprendere il livello di disuguaglianze presenti nelle città cilene è quello del sovraffollamento degli appartamenti. Dai dati pubblicati dall’osservatorio del ministero dello sviluppo nel 2017 si apprende che la percentuale di abitazioni in condizioni di sovraffollamento delle comunas più ricche della capitale, come Lo Barnachea o Las Condes non supera l’1-2 %. Andando verso Estacion Central la percentuale balza al 12 % degli alloggi, mentre nel 4 % dei casi gli appartamenti sono condivisi tra più famiglie.
Un altro aspetto significativo per descrivere le condizioni abitative a Santiago è il fenomeno dei campamentos. Presenti fin dagli anni Cinquanta a partire dalle prime migrazioni dalle campagne, questa particolare forma di occupazione del suolo e di abitare informale è nota a tutte le grandi città dell’America Latina. Secondo il Ministero della Casa, ci sono in tutto il paese 802 accampamenti informali che ospitano 47.050 famiglie. Il 72 % di questi si trovano in zone urbane. A differenze del passato, i campamentos oggi sono meno numerosi – in media sono formati da una quarantina di famiglie – e le persone che ci vivono difficilmente riescono a entrare all’interno del sistema dei sussidi, indirizzati invece a sostenere la domanda delle classi medio-basse. Nonostante i numerosi tentativi di sradicare il problema durante i primi anni della democrazia liberale attraverso massicce politiche di sgomberi e di costruzione di alloggi sociali nelle periferie, i campamentos rimangono una realtà urbana estremamente presente, esattamente come l’endemica mancanza di alloggi per gran parte della popolazione cilena.
Come si è arrivati a questo punto? Negli stessi anni in cui il Cile si apre completamente all’economia di mercato, il regime militare firma una legge (D.S. 420 del 1979) che condiziona le politiche di sviluppo urbano dei successivi quarant’anni. L’idea fondamentale del testo è che il suolo urbano non è da considerarsi un bene scarso. Al contrario, la sua apparente scarsità è dovuta alle troppo rigide norme che regolano lo sviluppo urbano limitandolo all’interno di confini inutili. Il suo utilizzo è consegnato allora nelle mani invisibili delle leggi del mercato che decideranno l’uso dei terreni a seconda delle potenzialità di guadagno. L’intervento pubblico, come afferma l’articolo 1 della costituzione cilena promulgata nel 1980, è limitato alla «protezione del bene comune».
Non soltanto il settore privato si afferma come attore protagonista nella costruzione di edifici civili o industriali, ma si incarica anche dell’elaborazione e della creazione ex novo delle infrastrutture di una capitale in rapida espansione. Lo stato assume un ruolo sussidiario, ovvero complementare e integrativo, con lo scopo di sostenere e appoggiare la domanda e lo sviluppo economico della città tramite sussidi da assegnare a chi risponde ai requisiti per accedere all’acquisto, alla costruzione o all’affitto di un alloggio sociale.
Contrariamente a quanto il regime ha annunciato nella nuova politica urbana inaugurata nel 1979, la liberalizzazione e l’incremento di superficie potenzialmente edificabile – 64 mila ettari, quasi il doppio dell’intero territorio di Santiago alla fine degli anni Settanta – ha comportato maggiori movimenti speculativi che interessano le nuove zone aperte al mercato e un conseguente aumento del prezzo del suolo. Per continuare ad attrarre investimenti e a facilitare ai privati l’estrazione di ricchezza provocata dall’aumento di valore, la giunta militare si dedica a un ampio processo di erradicación y expulsión, sradicamento ed espulsione di popolazioni che, provenienti dalle campagne, hanno occupato numerosi terreni formando i già citati campamentos. Tra il 1979 al 1985 circa 28.800 famiglie sono espulse verso quartieri periferici e di basso valore, pressoché privi di infrastrutture anche per accogliere i nuovi abitanti. Le soluzioni abitative adottate, la vivienda básica, rispondono ai cosiddetti “standard minimi”: un bagno, cucina, salotto, e due o tre camere da letto. La vivienda básica e l’espulsione verso le periferie degradate delle fasce più povere della popolazione hanno gettato le fondamenta delle politiche abitative degli anni della democrazia liberale.
Nel tentativo di ridurre la mancanza di alloggi, i governi successivi alla dittatura si impegnano con una media di 79 mila nuove unità abitative ogni anno per riempire il vuoto di circa un milione di alloggi che il regime di Pinochet aveva lasciato in eredità. Il sogno di un Cile di proprietari sembra lentamente diventare realtà. Ma la domanda fa fatica a tenere il passo con l’aumento vertiginoso dei prezzi del mercato immobiliare. Una nuova crisi abitativa all’inizio del millennio non produce un ripensamento del sistema delle politiche sociali, ma al contrario causa un aumento delle privatizzazioni e un’espansione del sistema dei sussidi.
Nel 2006 nasce una nuova istituzione: l’Empresa de gestión inmobiliaria social (EGIS). Si tratta di imprese per lo più private e a scopo di lucro che si incaricano di tutte le tappe del percorso verso la costruzione e l’assegnazione di case popolari: formulazione del progetto architettonico, localizzazione, piano sociale e disegno urbano. Nel frattempo il disastroso terremoto del 2010 dà nuovo impulso al mercato immobiliare e delle costruzioni, aumentando ancor di più il valore dei terreni. I movimenti sociali si rendono conto che il problema della casa non risiede più, come in passato, nel limitato accesso ad essa, ma nello stesso modello di sviluppo che ha creato quell’esclusione. La localizzazione periferica associata alla mancanza di servizi basici come scuole, ospedali, acqua potabile, aree verdi e trasporti riproduce e acuisce la condizione di povertà delle popolazioni segregate in quei quartieri nei decenni precedenti e a cui vanno ad aggiungersi nuove soggettività, come i migranti provenienti da altre zone dell’America Latina e Centrale, costrette nella stessa posizione di marginalità.
Il Movimento Ukamau emerge proprio con lo scopo di cercare un’alternativa all’espulsione verso le periferie di circa 420 di queste famiglie. Insieme costituiscono una propria EGIS infiltrandosi nei meccanismi della gestione neoliberale dei servizi e imponendosi come interlocutore legittimo con il ministero della casa e con gli altri enti istituzionali. Dopo aver individuato un terreno disponibile nei pressi del loro quartiere, attivisti e abitanti hanno presentato un progetto architettonico innovativo, la Maestranza 1. Per la prima volta i movimenti per la casa entrano a far parte del processo decisionale nella costruzione di appartamenti popolari. Ognuna di queste famiglie ha a disposizione un appartamento di 62 metri quadrati, leggermente superiore alla media degli alloggi sociali (55 metri quadrati) messi a disposizione nelle periferie. Diversi condomìni si affacciano attorno a tre ampie aree comuni. Sulle due più esterne sono stati piantati erba e alberi mentre quella centrale, la più grande, rimane libera e pedonale. Sia la struttura degli edifici che la grandezza e la forma degli appartamenti sono stati decisi tramite assemblea dagli abitanti. Questi ultimi il 31 ottobre hanno preso possesso dei loro alloggi.
L’obiettivo esplicito del movimento Ukamau è quello di espandere questo modello di partecipazione popolare al processo di costruzione ed elaborazione dei quartieri e degli alloggi sociali in altri quartieri di Santiago. “A democratizar la ciudad!” Scrivono nel loro Manifiesto por el derecho a la vivienda y a la ciudad. (giovanni d’ambrosio)
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