Pioveva in Borgo Dora, il quartiere dove abitava Monsieur Moustafa e dove io abito ancora. Era pomeriggio, Moustafa s’era affacciato alla finestra e aveva ripreso la pioggia cadere sull’acciottolato, sulle abitazioni. “Torino adesso”, aveva commentato. Un acquazzone violento: nel video i chicchi di grandine martellano le pozzanghere; si vede un frammento di ghiaccio bianchissimo precipitare sul selciato, scivolare e sparire nel gorgo di un tombino. In un altro video ecco il cortile interno del palazzo: in primo piano rivoli d’acqua si lanciano dal tetto, sfiorano il ballatoio e grondano giù. Moustafa aveva annotato: “Cascate in via Borgo Dora 39“.
La via era un torrente, ricordo del tempo in cui i canali striavano il quartiere. Viola, la vicina, mi ha raccontato che l’acqua limacciosa aveva sommerso la sua auto. Ha portato la vettura in campagna, il giorno dopo, e l’ha lasciata al sole con le portiere aperte. E io ho passeggiato nel quartiere, ho osservato piccoli mucchi di foglie e ramoscelli accumulati sotto le ruote. Poi mi sono fermato al bar vicino alla casa di Moustafa, ho iniziato a leggere La terra e il suo satellite di Matteo Terzaghi.
Il libro è una raccolta di prose brevi dove il lettore è invitato a riflettere sulla pioggia e sui modi di descriverla. Qui ho incontrato Tao Qian, poeta cinese “vissuto tra il IV e il V sec d. C.”. Tao Qian “ha scritto una poesia intitolata Inondazione dove la pianura è una sola grande fiumana e in mezzo a questa fiumana c’è una casa e affacciato a una finestra di questa casa c’è lui stesso, Tao Qian che guarda fuori e non vede apparire nessuna barca”.
Ho ritrovato il poeta in un racconto dove un astronauta cinese ha vissuto per un anno in una capsula sperimentale. Racconta l’astronauta: “Nella sua casa in mezzo alla fiumana, Tao Qian vedeva più lontano. Ho recitato le sue poesie, lì dentro, quando mi mancava il fiato: Le nuvole insistenti corrono corrono; la pioggia regolare gocciola gocciola…”. In verità, ho letto la pagina dell’astronauta una settimana dopo il temporale in Borgo Dora. Ero seduto allo stesso tavolino del bar e vedevo il palazzo di Moustafa: era disabitato, ogni finestra sigillata con lastre di nero metallo.
Le prose di Terzaghi sono temi dove lo scrittore parte da un punto e poi divaga. La divagazione, però, non s’allarga nello spazio, non vuole allontanarsi, ma tende a tornare al punto di partenza in un movimento di concentrazione. “In quegli anni io avevo delle difficoltà con i temi in classe che mi venivano troppo corti. Cioè, in brutta erano lunghi, ma quando poi li ricopiavo in bella rimanevano poche righe, per via che cancellavo troppo”. Questa scrittura in cancellazione – una scrittura di divagazioni senza estensione – mi sembra un tentativo di resistere a un’altra lingua, strumentale e dominante: la lingua espansa dell’informazione.
Ho letto il tema “La neve e l’informazione”. Chi scrive sperimenta una descrizione della neve: “Ci siamo svegliati e la città era tutta bianca, ricoperta di neve, così silenziosa che aprendo la finestra si poteva sentire il rumore dei fiocchi che cadevano lenti e copiosi, ognuno lungo la propria traiettoria”. Il giorno dopo i giornali menzionano i costi della neve e i disguidi per le aziende, pubblicano analisi e proposte per risolvere l’inconveniente, trascrivono testimonianze di pedoni e automobilisti. Qui la scrittura concentrata ha un moto di rivolta: “Cadi neve, ancora e di più, blocca le entrate delle redazioni, sconnetti i telefoni e i server, metti fuori uso le rotative!”. La pioggia di Borgo Dora non ha raggiunto le redazioni della città. Dopo lo sgombero del palazzo di Monsieur Moustafa i giornali hanno scritto di “immigrati occupanti” e di “area radicale anarchica” e poi hanno riferito le parole del questore.
Secondo Terzaghi il tema più bello sulla pioggia è quello di Francis Ponge, e comincia così: “La pioggia, nel cortile dove la guardo cadere, scende con andature assai diverse”. La descrizione si trova ne Il partito preso delle cose, dove Ponge scrive di oggetti, di entità fisiche come il pane, il pezzo di carne e la pioggia. Terzaghi individua un’affinità fra i testi di Ponge e il De rerum natura di Lucrezio, ma ricorda anche le “lezioni di cose” della didattica positivista: descrizioni di oggetti comuni raccolte in manuali di inizio Novecento. In un brano stampato nel 1933 si legge: “Se l’atmosfera si raffredda ulteriormente, una maggiore quantità di vapore ridiventa liquida, le goccioline che formano le nuvole si ingrossano, diventano gocce che cadono al suolo: comincia a piovere”.
Quest’attenzione per gli oggetti mi fa pensare ancora al quartiere di Borgo Dora. Dietro al palazzo dove abitava Moustafa esiste un mercato di oggetti ritrovati. Là ogni sabato si riuniscono poveri rigattieri e straccivendoli della città. Ieri vi ho trovato una piccola barca cinese con un omino seduto sotto la tettoia, lo scafo istoriato con conchiglie di paguri e patelle; un candelabro di legno coperto da vernice d’oro, da porre nelle veglie accanto alla bara; un pupo siciliano che tiene uno scudo con gigli in rilievo.
Terzaghi ricorda che il manuale delle “lezioni di cose” è stato stampato nello stesso anno in cui Hitler salì al potere. S’impone un confronto: “Da una parte il tono e la gesticolazione del Führer, i sui discorsi guerrafondai e i suoi sproloqui sul primato della razza ariana; dall’altra la prosa di questo manuale scolastico, così lontana, nella sua fiducia per le cose del mondo, dallo spirito che […] doveva dominare la Germania dell’epoca, e con essa mezza Europa”. E Ponge scrive Il partito preso delle cose nel 1942 “dopo una gestazione di almeno un decennio”. Ancora la pioggia suggerisce la domanda più importante: “La pioggia… Ponge fu attivo sia nell’esercito francese, sia nella resistenza, ma la domanda resta: com’è possibile che, in anni come quelli, uno si dedichi alla descrizione della pioggia?”. Ponge s’aggrappa al mondo intorno, alle cose accanto, per riscattare una lingua devastata dalla retorica. A partire dalle cose, dall’andatura delle gocce, reinventa il linguaggio. “Quella di Ponge è una scrittura non solo fondamentalmente politica ma, come quella dei dadaisti, anche militante, soprattutto in un’epoca resa disumana dalla guerra, per quanto questo possa sembrarci paradossale”. Così descrivo anch’io gli oggetti di un mercato minacciato e precario. La giunta comunale ha deciso di allontanare i venditori, quasi mille ormai, e ha emanato una delibera che impone loro di non stendere le stuoie nel quartiere. Eppure il mercato nasce ancora ogni sabato, nonostante le leggi.
Gli sgomberi e le delibere comunali sono i sintomi di un quartiere che cambia. Ci sforziamo da anni di interpretare le cause, di leggere le scie disegnate dagli interessi, di individuare le relazioni fra la giunta cittadina e gli altri poteri. Poi vogliamo approfondire le analisi che chiamiamo “sociologiche” e “antropologiche”, ci chiediamo chi siano questi straccivendoli che appaiono la notte del venerdì e s’eclissano il sabato pomeriggio. Chissà da dove vengono, quale sia la loro “soggettività”, diciamo. A volte penso che siamo come i personaggi di un racconto di Gianni Celati. Questi personaggi si ritrovano in una tabaccheria o al bar e discutono di come poter uscire “fuori dalle ombre della caverna di ombre in cui ci tocca vivere”, o di come si faccia a “individuare l’individuo singolo, poniamo rispetto alle masse e all’universo” e altri quesiti che li rendono molto divertenti ai nostri occhi. Pensano così tanto che a volte si impelagano in frasi che escono dalla bocca “come un filo che si arrotola e fa matassa”, e s’impacciano in una “parlatina da furbi” dall’effetto comico. Allora la descrizione della pioggia e di altri oggetti del quartiere può essere una via per trovare nuove parole libere dal peso di formule consunte e pensieri ammatassati. Non una diserzione, ma la ricerca di una “scrittura fondamentalmente politica”.
Fra gli amici del bar e della tabaccheria c’è anche Amos, un filosofo con la passione per l’alcol. Secondo Amos non esiste una volontà del soggetto, ma solo delle spinte trascinanti ispirate dalla natura. Per questo, dice Amos con la voce impastata, non bisogna mai dire “io”, ma forgiare una lingua senza soggetti per adeguarsi a ogni “fenomeno impersonale come la pioggia che cade. Infatti in tedesco la pioggia che cade si dice impersonalmente: ‘Es regnet’”.
A volte mi sembra che gli straccivendoli piovano sul quartiere: arrivano, si dispongono ordinati, autonomi e senza organizzazione, infine se ne vanno. Per questo noi non li capiamo e per questo le forze dell’ordine temporeggiano da mesi senza sapere bene come fare a mandarli via. Ma verranno le camionette – sarà forse un sabato d’estate – per imporre che piovere non può; verranno le camionette contro la vita che avviene.
Spesso ho assistito di notte alla nascita del mercato. Mai, invece, avevo prestato attenzione al momento in cui i venditori se ne vanno. In un pomeriggio di pioggia ho visto finalmente sbaraccare questo mondo di oggetti. Capannelli di uomini si riparavano sotto teloni stesi e qualcuno urlava «un euro!», o «tutto a cinquanta, cinquanta!». Altri stavano a testa scoperta e dicevano: «Prendete tutto quello che volete, è gratis…». Allora noi rovistavamo, io cercavo bambole per un’amica, un uomo litigava con un altro perché gli oggetti sulla sua stuoia erano ancora in vendita, ma solo a un euro. La piazza si svuotava e rimanevano piccoli gruppi concentrati: umani stretti sotto la pioggia, chinati nell’ultima ricerca. Ancora s’alzavano i richiami da una parte all’altra della piazza, si sentivano bottiglie di vetro rotolare e il battere avvolgente delle gocce. (francesco migliaccio)
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