Si potrebbe cominciare dalla mattina di sabato scorso, quando ho aperto la finestra della stanza e ho notato la bandiera italiana esposta dal balcone di un vecchio condomino in onore della Resistenza. Oppure da un conto alla rovescia che si protrae da non so più quanto tempo. O meglio da ora. La giornata di oggi era già scritta. Prevedibile. Qualcuno sarebbe stato capace di descriverla in anticipo, nei dettagli, con precisione. Nell’attesa ci si perdeva in pronostici, al Giambellino sgomberavano e la tensione premeditata si palesava sui quotidiani. Ma la pervasività di un evento si misura nella sua attesa. Estenuante. La pioggia sottile cade su una Milano blindata. Il centro è inaccessibile, il clima autunnale.
L’appuntamento è nel primo pomeriggio in piazza XXIV maggio, vicino alla darsena inaugurata da pochi giorni dopo anni di lavori in corso. In tempo per l’apertura del grande evento. Sono solo in mezzo alla folla, arrivo in ritardo, non trovo un amico e ho perso subito gli altri. Forse, inconsciamente, preferisco vivere questa giornata così, pensando che si tratta pur sempre della festa dei lavoratori, sebbene la concentrazione sia rivolta anche verso altro. Mi guardo intorno, penso al primo maggio di due anni fa, passato in una fabbrica metallurgica abbandonata e occupata da una manciata di operai senza speranza della provincia a sud di Napoli. Guardammo le partite della serie B in Diretta gol, mangiammo cioccolata e ci aggirammo per la fabbrica in cui loro un tempo avevano lavorato. Adesso ho di fronte tutt’altro scenario, una strada stretta e un serpente umano lunghissimo. È difficile stabilire quanti ne siamo. La settimana scorsa, durante il corteo del 25 aprile, cercavo un riferimento plausibile senza trovarlo. Ora mi ritrovo in mezzo ai lavoratori della logistica, immigrati per la maggior parte, provenienti dalle zone del mondo più disparate, che parlottano in attesa di partire. “I marinai sull’asfalto”, direbbe qualcuno. Li ascolto, loro mi stanno bene. È pur sempre la festa dei lavoratori, mi dico. La moltitudine sfila lungo il corso di Porta Ticinese.
“Il facchino paura non ne ha!”. Il tono scandito a tempo e a ripetizione da una voce vicino al furgone attecchisce su tutti gli altri colleghi che rincarano la dose. Uno di loro seduto sul tetto dello stesso furgone prende il microfono, si toglie il cappello e lo getta a terra, urla, inveisce, ostenta la rabbia di chi guadagna quattro euro e novanta l’ora. Si avvicendano al microfono altri facchini, uno di loro indossa la maglietta della TNT a capasotto, altri indossano la divisa della DHL. Sfilo al loro fianco senza interagire. Appena dietro, lo spezzone dei pompieri: “il capitalismo non si riforma, si abbatte”. Intravedo le bandiere dei sindacati di base. Il corteo procede in una strada chiusa sulla destra dalle camionette e le grate che impediscono l’accesso al centro, la musica si mescola alla musica, agli slogan, alla voce stridula di una donna anziana. È la festa dei lavoratori ma qua è anche la giornata di apertura di un evento che finirà fra sei mesi. Ma finirà? Alla chiusura formale dell’evento bisognerà rifletterci e discuterne un attimo. Giorgiotto, ore dopo, nell’attesa della circolare, mi dirà di essere passato per la piazza del Duomo verso le undici di mattina, proprio mentre smontavano il palco sul quale la sera prima aveva cantato Andrea Bocelli. Il mercato del lavoro non ha giorni di chiusura, non ammette pause. Un uomo tarchiato trasporta il carrello con le bevande. Ce ne sono altri come lui. Napoletani. Più si procede, più ho l’impressione di entrare in un imbuto. Mi sento circondato. Non riesco a capire se sono in coda, in mezzo, o a tre quarti del corteo. Non riesco a capire se è un’impressione dovuta al fatto di non conoscere le strade. Arrivo a un tratto di strada bagnato a terra; non è acqua di pioggia, che continua a cadere sottile. Poco prima sono stati usati gli idranti sui manifestanti per disperderli. Cammino avanti e indietro, sempre al fianco dello spezzone dei facchini. Alcune vetrine sono sfasciate, il vetro è in frantumi, le scritte sui muri sono ancora fresche. Oltre ci sono gli scontri, non si vedono ma si sentono, c’è chi si allontana mentre si avvicina a poco a poco il suono delle sirene. Si alzano colonne di fumo, l’aria diventa irrespirabile. Ho il fiato corto. Decido di raggiungere la testa del corteo.
Niente di nuovo tra le strade laterali. Passo per un campetto di basket con dei peruviani che giocano, una signora porta a spasso il cane, i tavolini di un bar sono occupati da avventori che discutono dei fatti loro. Difficile capire, adesso c’è silenzio, rotto da bombe che esplodono poco lontano. Un elicottero sorvola su quella zona, l’aria è compromessa dal fumo dei lacrimogeni e degli incendi. La guerriglia all’altezza di Cadorna è in atto. Il corteo è spaccato in due. Chissà che fine avranno fatto quelli della logistica. Quella lunga parte che sfila davanti agli scontri va veloce verso la piazza in cui teoricamente il corteo dovrebbe terminare. In testa ci sono le bande degli ottoni. Il passo è svelto perché alle spalle si sente la pressione, si alzano colonne di fumo di auto incendiate. Non si tratta di scontri veri e propri. L’azione delle tute nere sembra sistematica, viene contenuta con cariche di alleggerimento e l’uso massiccio di lacrimogeni che infestano l’aria. In sostanza li lasciano fare quel che si erano prefigurati di fare, ciò che era scritto nel copione della giornata. La polizia non ha calcato la mano, ha arrestato qualcuno – chissà se ha sfogato su di loro. Del resto del corteo invece non saprei dire. Saranno passati dopo le devastazioni o avranno deviato per altre strade, qualcuno avrà notato e recuperato i vestiti lasciati sull’asfalto dopo l’azione. Per il resto, avrete già visto tutto, le immagini sdoganate sul web, la bionda che si fa fotografare vicino all’auto bruciata, il giovanotto della provincia che, incalzato dal giornalista, esprime opinioni azzardate; poi i video, i selfie dei turisti perduti e ignari di ciò che stava succedendo. Che altro aggiungere? Il corteo si scioglie, la pioggia continua a cadere sottile. Si potrebbe concludere con lo sguardo agitato, carico d’ansia, di un poliziotto della volante che ci ferma perché un amico sta pisciando sul muro all’angolo di una strada laterale. Oppure, con uno stato confusionale alla fine mitigato da una tisana. O meglio dal pensiero che, al di là della scia di commenti e opinioni inutili, la giornata trascorsa sancisce un prima e un dopo, volge a un termine che è inizio, punto di partenza che impedisce una qualsivoglia conclusione. (andrea bottalico)
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