Nel 2007 esce un bel film diretto e interpretato (tra gli altri) da Robert Redford. Si presenta come una pellicola molto progressista, di quelle che al cinema fanno commuovere le platee colte e liberal. Al centro di diversi intrecci si colloca la storia, iper-americana, di due giovani proletari, uno nero l’altro ispanico, che scelgono di arruolarsi volontari e partire per l’Afghanistan perché solo così riusciranno a pagarsi l’università e realizzare il sogno dell’uscita dal ghetto sociale. Sono due studenti brillanti – capaci e meritevoli –, non sono militaristi o guerrafondai: sono giunti però alla conclusione che indossare la divisa e partire per una missione all’estero è l’unico modo che hanno per assicurare a sé stessi studi di qualità. Qui gli autori si dimostrano assai polemici verso il sistema di istruzione americana. Un professore di liceo dei due ragazzi, Redford, sessantottino reduce dalle manifestazioni contro il Vietnam (con tanto di cicatrice in fronte), cerca di dissuaderli in ogni modo dall’arruolamento. Loro però hanno già scelto e non cambieranno idea. Finiranno proprio a combattere contro i talebani in Afghanistan e li ritroveremo, nelle scene finali, ad alta tensione emotiva, isolati e circondati su un picco innevato, di notte. Moriranno da eroi, in piedi, armi in pugno, accerchiati da un nemico spietato. Qui l’occhietto liberal si inumidisce alquanto: il dramma americano è completo, i poveri (quelli meritevoli) ambiscono strenuamente alla elevazione sociale, mentre il sistema li costringe a morire, seppur eroicamente, per pagarsi gli studi. In tutto il film l’Afghanistan non si vede, se non in quell’ambiente buio, ostile e gelato. La tragedia americana si compie in un paese fantasma. Potrebbe essere uno scenario di guerra qualsiasi, magari l’Iraq o la Siria, ma sempre uno sfondo resta. Anche gli afghani nel film non esistono; si parla spesso di loro ma non li si vede mai; sono un nemico nell’ombra, tanto più terrorizzante quanto invisibile. Va da sé che non contano molto, sono solo comparse del grande dramma dell’American Dream. La morale è che andare a sparare in casa d’altri per pagarsi gli studi, è una scelta dolorosamente nobile.
Lo stesso approccio del regista Robert Redford, viene adottato oggi dai nostri media nel raccontare “la tragedia di Kabul”. Il popolo afghano sostanzialmente non esiste, non lo vediamo mai, men che meno gli diamo parola. Ci interessiamo solo (un po’) dei “nostri”, quelli che abbiamo fidelizzato e che giustamente, dopo avere annusato i profumi d’occidente, oggi vorrebbero scappare dal loro paese e raggiungere il paradiso: “autisti, camerieri e interpreti”, così una ragazzetta di qualche tg li ha scrupolosamente classificati, riducendo ai suoi stereotipi servili un orgogliosissimo popolo di guerrieri che nei secoli ha messo in fuga ogni nemico. Ma il popolo – il popolo vero, da Kabul alle campagne, nel suo caleidoscopio etnico e linguistico – cosa pensa della caduta del vecchio regime e dell’avvento dei nuovi governanti? Qualcuno lo ha chiesto, in giro? Perché fino a ora si sono sentite solo interviste e dichiarazioni di afghani legati, in un modo o nell’altro, all’occupante. Eppure, se per vent’anni i talebani hanno continuato a controllare buona parte del paese, viene il dubbio legittimo che forse hanno sempre goduto di prestigio e radicamento. E tutti lo sapevano, fingendo di ignorarlo per vent’anni – magari per continuare a spremere miliardi al contribuente occidentale, convinto da una narrazione fasulla ed edulcorata, che con i suoi soldi si stesse finanziando una “missione di pace” che godeva del pieno sostegno dei cittadini afghani. Nella verità perversamente rovesciata, piatto tipico del menu che ci stanno servendo i media in occidente, i talebani sono gli invasori e gli eserciti Nato il legittimo sovrano spodestato.
La domanda sul “perché gli afghani non hanno combattuto” è la più buffa e farebbe sbellicare dalle risate quei soldati che al momento giusto hanno gettato la divisa alle ortiche e si sono dati alla macchia. Per chi avrebbero dovuto morire: per difendere la salvezza e i conti correnti dei Quisling che abbiamo piazzato per vent’anni al governo? Avrebbero dovuto morire per salvare la faccia agli Usa e garantire una ritirata dignitosa, che non somigliasse tanto alla maledetta Saigon? Il passaggio di poteri era già stato deciso all’epoca degli accordi di Doha, tutti lo sapevano, anche i soldati che “avrebbero dovuto resistere”. La saggia celerità con cui hanno rinunciato a qualsiasi pantomima di resistenza, ha salvato loro la pelle ed evitato ulteriori spargimenti di sangue. Probabilmente gli stessi talebani sono stati colti di sorpresa dallo squagliamento dei reparti posti a difesa di Kabul. Si vede che lo spirito da “autisti, camerieri e interpreti” deve avere un po’ infiacchito la memoria genetica di questi nipotini di Alessandro Magno. I talebani invece hanno continuato a combattere, dal 2001, senza soluzione di continuità. Forse perché non sanno fare altro, dopo quaranta anni di guerra. Ma da dove nasce questa strenua, ostinata resistenza? Sarebbe stato più saggio e facile piegarsi all’occidente, alle sue lusinghe, alle sue donazioni, riciclarsi nel costruire centri commerciali e oleodotti; invece hanno continuato per vent’anni a nascondersi nelle caverne, con i kalashnikov in mano e i droni stelle e strisce che gli sparavano nel culo. Perché, va ricordato, l’occupazione americana è stata anche una strage infinita, fatta di bombardamenti su moschee e feste di matrimonio, torture e galera, compresi i soggiorni, spesso senza ritorno, a Guantanamo. Se capiamo bene perché i soldati regolari abbiano mollato così facilmente le loro postazioni, per noi resta più difficilmente spiegabile l’inossidabile tenuta talebana, protratta tanto a lungo contro un’armata multinazionale apparentemente invincibile. Forse è la dimostrazione che c’è qualcosa di indomito, che serpeggia nei cuori dei popoli oppressi; qualcosa che ti fa stringere i denti e remare anche contro i flutti della storia; l’orgoglio, la dignità, un qualche fine superiore che trascende le storie individuali e che a un certo punto si sente dentro, come una chiamata inesorabile. Del resto perché i cubani resistono da sessant’anni? Non sarebbe stato più facile arrendersi e mettersi in vendita al nemico facoltoso? C’è un luogo nascosto nell’animo umano che ci fa abbracciare l’irrazionale, il sacrificio, la morte, quando sentiamo di avere ragione. Un posto pericoloso e necessario.
L’altro smarrimento che coglie i salottini televisivi e gli editoriali riguarda l’incapacità dei “nostri valori” di attecchire in quelle contrade. C’è incredulità e un pizzico di indignazione: abbiamo speso tanti di quei miliardi e questi invece di difendere il sistema che gli abbiamo esportato, se ne vanno per i fatti loro. Certo, gli afghani hanno arraffato tutto quello che gli abbiamo messo davanti: i soldi della corruzione, gli ospedali, i servizi sociali; però non hanno mai preso troppo sul serio il nostro modello di vita, tanto da desiderare di imitarlo. Questo è un elemento comune a tanti popoli del sud del mondo: invidiano il nostro benessere materiale (e fanno carte false per condividerlo) però sono un po’ scettici sul “pacchetto occidente”, sull’insieme di “valori” (chiamiamoli così) che veicoliamo attraverso il nostro immaginario, che è ormai largamente cine-televisivo e facilmente fruibile a livello planetario. Ci siamo mai chiesti cosa pensano davvero di noi, del nostro mondo, delle nostre esistenze, un contadino o un operaio di una qualsiasi periferia del mondo non occidentale – specialmente nell’epoca dei satelliti e della iper-connessione globale? Ma siamo sicuri che vogliono tutti diventare come noi? Condividere i nostri stili di vita? I nostri film, le nostre serie televisive, la nostra musica – tutte cose terra terra, d’accordo, ma l’unico vero biglietto da visita che spediamo in giro per il mondo – danno di noi un’idea di eccellenza, di felicità e realizzazione? O piuttosto il contrario: offriamo di noi l’immagine di società opulente ma cronicamente depresse, nevrotiche, compulsive, in cui i cani hanno preso il posto dei bambini e – stereotipo per stereotipo – la modella con la barba ben rappresenta un certo grado di confusione di cui sembriamo portatori (ebbene sì, anche i Taliban oggi possono leggere Vanity Fair con due click). Hai voglia ad esportare ONG. Il sistema della Shura deve sembrare democraticamente più rappresentativo ed equilibrato delle elezioni americane, dopo quello che si è visto in gennaio a Capitol Hill.
Non c’è un’autostrada della storia, dove noi siamo “più avanti”, con gli altri che arrancano dietro e prima o poi dovranno passare attraverso le stesse curve e gli stessi caselli. E noi non siamo il punto più alto dello sviluppo umano, da imitare e raggiungere. E questo vale anche per la condizione della donna. Se non usciamo da questa perversione eurocentrica saremo eternamente destinati ad alternare i bombardieri e il paternalismo, nel nostro rapporto con il sud del mondo, cioè con la stragrande maggioranza dell’umanità che non ci capisce. Intanto, i talebani stanno mettendo in atto un’offensiva sul piano dell’immagine e della credibilità internazionale, che è anch’essa un segno dei tempi. È chiaro che anche loro, come tutte le precedenti leadership afghane, stanno pensando ai flussi d’investimento che potranno intercettare, se staranno buoni, senza imbarazzare troppo russi, turchi e cinesi. I richiami alla Sharia sembrano più che altro pleonastici – la Sharia non è un corpus mistico e dogmatico, è esistita in centinaia di versioni diverse ed è sempre stata il prodotto di mediazioni storiche e sociali, dentro tutte le società islamiche. Sicuro che la versione attuale sarà più digeribile di quella di vent’anni fa. Del resto l’Afghanistan è straordinariamente cambiato e i primi a capirlo sembrano essere stati proprio i suoi nuovi padroni.
Quelli che proprio non capiscono niente sono i nanetti europei, che fingono di ignorare che lo scenario in corso era già stato per larghe linee definito senza la loro opinione. I tardi epigoni di un atlantismo fuori tempo massimo (come la maggior parte della politica italiana) non riescono a capacitarsi della facilità con cui Biden ha mollato l’ancora ed è salpato. Continuano a pensare alle cose con un ventennio di ritardo; stanno lì a chiedersi se “l’America ha perso” e qual è stato il loro tristissimo ruolo nella storia. Ma di quale America si sta parlando? Quella di vent’anni fa? Quella forse sì, ha perso, ma solo nel mondo ideale dei proclami e delle retoriche, perché in quello reale quell’America non esiste più da un pezzo. Gli Usa del “nuovo secolo americano”, in cui si teorizzava la distruzione creativa e una rigerarchizzazione di nazioni, popoli e risorse economiche, sono solo un ricordo. In un ventennio tutto è cambiato. Nessuno stratega americano sano di mente può pensare che oggi gli Usa abbiano la forza di permanere al centro di un’egemonia unipolare, tanto meno dentro il caos ribollente del medio oriente. Gli Stati Uniti di oggi sanno di essere in ritirata su tutti gli scenari strategici – a partire dall’economia. Oggi le loro aspettative sono molto ridimensionate – gli basta mettere fuori gioco i nemici peggiori e sferrare qualche gancio arretrando. Del resto, la “distruzione creativa” c’è stata e in qualche modo ha funzionato: i peggiori ostacoli americani – Saddam, Bin Laden, Gheddafi, Assad, la Resistenza palestinese – sono morti o fuorigioco; alcuni di loro travolti proprio dal doppiogiochismo e dal rapporto ambiguo e ambivalente che intrattenevano con il Grande Satana. L’America di oggi non sa che farsene dell’Afghanistan. Il nuovo gruppo dirigente democrat, più che dei talebani, ha paura delle elezioni di medio termine e dello spettro di una opposizione interna (armata) che non si è liquefatta: è lì, incistata, pronta a esplodere contro quello che ritiene un ceto politico di usurpatori. Ogni stagione ha il suo “rischio terrorismo”.
Noi abbiamo un debito storico, rispetto ai popoli afghani. E non tanto perché stiamo smobilitando: siamo in debito perché alla fine degli anni Settanta l’occidente ha riversato su queste terre e queste genti un fiume inesauribile di armi e mercenari, trasformando quel paese in una trincea, in nome della battaglia antisovietica. E per nobilitare l’investimento e dare un senso pseudo-religioso alla contesa, i sauditi esortarono il veleno wahabita, con un esercito di imam, sobillatori, teologi – e madrasse, moschee, petroldollari – che cambiarono l’antropologia di queste terre, un tempo ospitali e tolleranti. Il wahabismo ha formattato un popolo, spingendolo nella sofferenza e nell’ignoranza. E ancora oggi, le mani che gestiscono i fondi finanziari e immobiliari che rilevano interi quartieri metropolitani e prestigiose squadre di calcio – mani che la borghesia occidentale bacia volentieri – sono le stesse che aprono e chiudono i rubinetti del jihadismo globale, spostando alla bisogna le loro truppe sullo scacchiere globale. Avere immolato quarant’anni fa il popolo afghano sull’altare della battaglia anticomunista: di questo bisognerebbe chiedere perdono a quelle genti martoriate che da allora hanno conosciuto solo guerra e oscurantismo.
I popoli in rivolta scrivono la storia, si cantava nei cortei. Ed è quello che sta succedendo in Afghanistan, niente di più niente di meno. La prima sacrosanta rivolta è stata contro l’occupante Nato, ed è finita. Adesso ne seguiranno altre. Il premio Nobel V.S. Naipaul scrivendo della sua India che si modernizzava, la raccontò nei termini di “un milione di rivolte”. È quello che bisogna augurarsi per l’Afghanistan. Cacciato l’invasore, assisteremo al proliferare di tanti fuochi di trasformazione in ogni angolo della società – i talebani non riusciranno né a governarli né a reprimerli. La fine dell’occupazione romperà la bolla di vetro di un ambiente artificiale e stagnante, che non riusciva a produrre trasformazioni reali dentro il corpo sociale, talmente estraneo a esso pareva. La storia e le storie entreranno in fibrillazione, in modalità non prevedibili. In particolare, la storia delle donne, la cui libertà è come il dentifricio: una volta uscito, neanche i più volenterosi aguzzini possono rificcarlo nel tubetto. (giovanni iozzoli)
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