Uno degli aspetti più inquietanti della percezione collettiva della violenza nella sfera delle relazioni private è che essa sia considerata un problema che non ci tocca mai direttamente. La violenza sembra riguardare esclusivamente la “vita degli altri”. Numerose pubblicazioni tentano di tematizzare e approfondire la violenza sulle donne, rari sono quei lavori che sostengono un punto di vista non retorico su una questione così complessa. Perché, come ha scritto l’illustratrice Anarkikka, alle donne che non denunciano non manca il coraggio, ma il sostegno.
L’antropologa Rita Segato sostiene che la violenza domestica e sessuale è un problema politico e non morale perché l’ordine patriarcale è un vero e proprio ordinamento politico che si nasconde dietro la morale. L’intersezione tra femminismo, narrazione, solidarietà e territori è il filo conduttore che muove Non è un destino. La violenza maschile contro le donne, oltre gli stereotipi (Donzelli, 2020), scritto dalla sociologa femminista Lella Palladino. Allieva dell’antropologa Amalia Signorelli, nel 1999 ha fondato la cooperativa sociale E.V.A. che gestisce in Campania centri antiviolenza e case rifugio. In questo solco si situa anche il neonato sportello antiviolenza La stanza dell’Accademia di Belle arti di Napoli.
Le storie delle donne r/accolte da Palladino problematizzano la questione della violenza domestica (e non solo) posizionandola dentro ciò che ci rifiutiamo di osservare nella complessità del nostro quotidiano. La sociologa scrive in prima persona dando voce al “margine” – per dirla con Bell Hooks – di Lia, Tina, Vittoria, Francesca, Irina solo per citare alcune delle numerose donne che ha incontrato in questi anni. Attraverso le loro storie, Palladino racconta il lavoro e il sacrificio, le ribellioni alla violenza quotidiana e agli stereotipi di un senso comune patriarcale che ancora oggi opprime.
Dar voce a queste donne è importante oggi poiché nonostante i dibattiti e i reclami, per le donne il mondo continua a essere un posto ostile in cui vivere. La famosa espressione “donne non si nasce, si diventa” di Simone de Beauvoir “enfatizza magistralmente il carattere storico-culturale della costruzione e organizzazione dei generi, il radicamento degli stereotipi da una parte e l’atteggiamento verso comportamenti violenti dall’altra sono le chiavi di lettura per comprendere il contesto culturale in cui le relazioni violente trovano la loro genesi e la loro motivazione”.
Ogni cultura elabora sistemi di rappresentazione e di valori rispetto ai quali la realtà assume senso e “coerenza”. Maschio e femmina, uomo e donna, non sono l’esito di una differenza biologica ma il prodotto di ideologie diversamente configurate da cultura a cultura. Sarebbe necessario afferrare il tema della violenza come questione di forme simboliche significative che richiedono di essere prima interpretate e poi spiegate. Secondo Palladino non è utile leggere la violenza degli uomini contro le donne come un fenomeno residuale della nostra società. È una categoria costitutiva del reale, funzionale al mantenimento di una struttura sociale fondata su rapporti di potere diseguali: con gli uomini in una situazione di privilegio e le donne in una di subordinazione, debolezza, incompiutezza, dipendenza. La violenza di genere è quindi un problema culturale relativo alle modalità di costruzione del ruolo delle donne, degli uomini e del rapporto tra di loro.
Quando si parla di “violenza di genere” si fa riferimento a un insieme eterogeneo di forme di violenza agite contro le donne in quanto appartenenti al genere femminile. Questa appartenenza corrisponde ancora oggi a una posizione di svantaggio e subordinazione all’interno della struttura sociale e del rapporto tra i generi proprio della nostra cultura. Parlare di violenza di genere significa intendere il concetto di genere come costrutto sociale e culturale e sistema di stratificazione capace di strutturare tutti gli aspetti delle nostre vite. Significa riconoscere tutte le componenti, sia istituzionali che individuali, di questa dimensione e considerarne i legami con la distribuzione del lavoro, la parentela, la sessualità, la personalità, il controllo sociale, l’ideologia e l’immaginario. Mentre il sesso e le sue funzioni biologiche sono geneticamente programmate, i ruoli di genere variano attraverso le culture e le epoche, divenendo così fluidi e soggetti al cambiamento. Per questo motivo, appare fondamentale ripercorrere le esperienze dei centri antiviolenza a livello territoriale. In quanto spazi di accoglienza, “mettono a lavoro” la rete di solidarietà e curano fragilità lasciando fiorire le differenze; rappresentano spazi vitali di ascolto, dialogo, condivisione dedicati a tutte le donne che cercano di dare un senso alle violenze e alle contraddizioni in cui vivono. Spesso questi luoghi soffrono, arrancano, ma resistono. Perché si parli di pari opportunità c’è bisogno anche di un continuo dialogo con spazi come questi, punti di riferimento per le comunità. (marina brancato)
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