“Longe praestantius est praeservare quam curare”
Ramazzini, 1743
L’impatto che il virus ha avuto sulla nostra società ha inevitabilmente condizionato il nostro modo di approcciare all’emergenza, catalogandola in un insieme indistinto di “fenomeni naturali imprevedibili”. Idea ottima anche per depotenziare il peso delle enormi responsabilità politiche che gravano su questa vicenda. Nessun patogeno, effettivamente, è stato mai “visto in anticipo” mentre conosciamo le condizioni della sua venuta e della sua diffusione sulle quali possiamo pianificare interventi “a monte”. Si chiama prevenzione.
Quando pensiamo alla pandemia in atto, la nostra mente è concentrata sulla “patologia” e di conseguenza il nostro pensiero corre a ciò che da essa può salvarci, ospedali, farmaci, medici. La malattia, però, è solo uno degli aspetti del problema e il “paradigma della cura”, quindi, rischia di essere riduttivo per comprendere fenomeni di questa portata.
Molti studi hanno stratificato la dinamica dell’emergenza e diffusione delle patologie emergenti in differenti stadi[1], a partire da una fase “pre-emergenziale”, in cui il patogeno è ancora all’interno della sua “riserva animale”. In seguito, eventi indipendenti dalla sua biologia, come le trasformazioni ecologiche e sociali, mutando determinate caratteristiche ambientali permettono al patogeno di “fare il salto”. L’insieme di fattori come il modello di agricoltura o di allevamento del bestiame aumenta, poi, la probabilità di entrare in contatto con la specie umana e altri elementi derivanti dall’azione umana, come la rete di viaggi e commerci, ne permettono la diffusione attraverso lo spazio. Questo determina un’emergenza “a fasi” sulle quali è evidente il peso dei fattori legati all’azione umana che ridimensionano addirittura lo spazio della biologia, in un quadro complessivo dentro cui è l’ecologia come scienza delle relazioni tra uomo, animali e ambiente a essere il centro.
Nel 1997 il virus Nipah colpì la Malaysia. Una serie di allevamenti intensivi di suini e frutteti erano stati impiantati, in quel periodo, in una regione che era l’habitat naturale di alcune specie di pipistrelli della frutta, riserva naturale di quel virus. L’interazione fra i pipistrelli, richiamati dalla presenza degli alberi da frutta in prossimità degli allevamenti, e i suini, fu l’elemento che favorì il passaggio dei virus ai maiali e, all’interno delle terrificanti condizioni degli allevamenti intensivi, ai lavoratori degli stabilimenti e ai consumatori. Né il virus né gli incolpevoli chirotteri avevano mai partecipato alla pianificazione di quegli investimenti.
Il processo attraverso cui le zoonosi possono emergere e diffondersi, quindi, può essere studiato e analizzato applicando modelli semplici e consolidati in letteratura scientifica attraverso i quali è possibile pianificare una strategia non focalizzata sulla “rimozione delle cause” ma sulla promozione attiva di un sistema ecologicamente sano. Lo studio delle epidemie e della loro dinamica rende sempre più evidente che il “cuore” della strategia di approccio a questi problemi sia proprio la prevenzione, i cui risultati influenzano, ovviamente, il funzionamento del sistema sanitario “a valle” del processo.
Negli ultimi vent’anni l’emergere di infezioni come Ebola, SARS e Zika ha avuto un impatto economico enorme, provocando perdite in vite umane e milioni di dollari e la percezione diffusa che le risposte messe in campo siano state inadeguate. Una grande mole di lavori scientifici ha raccomandato con forza, fin dai primi anni Novanta[2], il potenziamento dei sistemi di sorveglianza da parte dei sistemi sanitari[3]. Anche se notevolmente migliorati rispetto al passato, questi sistemi restano limitati e frammentari, in ossequio alle regole del mercato e alle difficoltà nelle relazioni tra differenti paesi.
Anche in ambito preventivo, tuttavia, bisogna capire come orientarsi. L’idea che si è diffusa in alcuni ambienti della ricerca è che se i ricercatori fossero in grado di identificare il prossimo “pandemico” prima che compaia il “paziente zero”, saremmo in grado di bloccare il virus prima che possa fare danni. Sulla base di questa idea, la US Agency for International Development ha speso, a partire dal 2009, circa centosettanta miliardi di dollari[4], di cui 1,6 in un ambizioso piano basato sulla biodiversità, il Global Virome Project, avviato nel 2018 per ottenere un database genetico dei circa 1,67 milioni di virus sconosciuti che hanno la possibilità di saltare alla specie umana. Un approccio ambizioso e costoso sul quale sono piovute numerose critiche[5], legate a motivazioni di carattere tecnico-economico ma anche, come si può intuire, allo sbilanciamento di una strategia di questo tipo sul versante della biologia molecolare, senza sufficiente spazio per una riflessione di carattere più ampio.
Più realistico, invece, sarebbe un progetto integrato di “sorveglianza”, per monitorare le popolazioni dei paesi più a rischio, situate in luoghi in cui, dai dati che abbiamo, è più frequente l’insorgenza di una epidemia. Ma soprattutto avviare una discussione interna alla società per inserire le considerazioni sull’impatto ambientale delle nostre scelte come base della riflessione politica e in questo senso sganciare la prevenzione dal ristretto ambito “sanitario”. La sfida investe l’intero complesso della società, chiamata a decidere sulla direzione politica da assumere rispetto a temi di simile rilevanza sociale. Proprio quello che l’attuale sanità pubblica italiana, ingabbiata nel modello autoritario dell’azienda, non può fare in quanto dentro quell’assetto il cittadino, “proprietario sociale” di quelle stesse aziende ha un ruolo esclusivamente di utente.
L’azione nei confronti di questi eventi, invece, richiede un intervento nel quale la “materia sanitaria” è solo uno dei pezzi del processo dentro cui vanno coinvolti il settore agricolo, i sistemi di sorveglianza sanitaria dei singoli paesi, la macchina istituzionale preposta allo sviluppo dei piani economici d’investimento nei settori strategici. Un approccio “multistrato” che è immediatamente politico e del quale, nel disastro italiano e mondiale, non si vede traccia. Serve una nuova sanità ma non come un contenitore dentro cui scaricare la “domanda sanitaria”, la riforma necessaria non può essere chiusa a riccio sul “sistema” inteso come rete di strutture, bisogna andare a monte della questione. La riflessione in questo ambito deve partire da una ridefinizione dei concetti a cui siamo abituati a pensare quando parliamo di salute. In primis il concetto di tutela, intesa non più come un complesso articolato di prestazioni sanitarie ma un’idea strategica, al centro della quale ci sia la salute non come un bene da difendere. In questo senso anche l’idea oggi dibattuta del “bene comune” appare riduttiva.
La salute va ripensata come diritto politico, e come tale processo da costruire, sul quale è possibile e doveroso intervenire orientando le strategie future non a tappare le falle ma a creare le condizioni materiali e contestuali all’interno delle quali si impedisca l’insorgenza di malattie, per quanto possibile o ancora oltre, si “produca” salute. Tutto il resto è un discorso secondario che quando posto come centrale produce orizzonti sbiaditi del tutto interni al dominio della tecnica quando abbiamo, invece, un disperato bisogno di politica. (antonio bove – continua…)
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[1] Wolfe ND et al. Origins of major human infectious diseases. Nature 2007
[2] Lederberg J et al, Emerging infections: microbial threats to health in the United States. National Academy Press, 1992
[3] Daszak P et al. Emerging infectious diseases of wildlife-threats to biodiversity and human health. Science 2000
[4] Carroll d et al., Science 2018
[5] Holmes C. et al. Pandemics: spend on surveillance, not prediction. Nature 2018
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