Petre ha un cappello di lana e parla veloce. «Come sta andando lo sciopero?», gli chiedo quando sono già le cinque di mattina. «Qualcuno è rimasto a casa senza venire al presidio. Ma va bene anche così, il disagio per l’azienda è grosso». Siamo davanti ai cancelli della filiale SDA di Settimo Torinese, poco oltre il confine settentrionale di Torino, in un brano di città rarefatta fra la ferrovia e l’autostrada. Qui, nei giorni di lavoro, giungono i tir, la merce viene scaricata dai magazzinieri e poi disposta per il viaggio dei corrieri. Oggi una ventina di magazzinieri in pettorina fosforescente attende nel buio che precede l’alba. Da un’auto vengono fuori piccoli bicchieri di plastica, una Vecchia Romagna e una grappa romena fatta in casa con l’uva. Dentro i magazzinieri sono solo cinque. «Oggi lavorano così tanto che la prossima volta faranno lo sciopero con noi!», dice qualcuno mentre beve il liquore. «Voi potete bere?», chiede un romeno al gruppo di nigeriani. Uno di loro, senza rispondere, tira fuori dalla tasca una bottiglia con un liquido denso e ambrato, e sorseggia.
Sciopero generale. Era questa l’indicazione data dal SiCobas per i blocchi e le manifestazioni previste per venerdì 29 gennaio, tanto che la Commissione di garanzia per l’attuazione della legge sullo sciopero aveva comunicato già da qualche giorno la possibile interruzione dei servizi utili ed essenziali nel paese. Se il bacino forte di iscritti al sindacato è riconducibile al settore della logistica, infatti, è vero che pure nei trasporti, nella manutenzione stradale, nella sanità, nella scuola, gruppi di lavoratori si sono fermati in tante città del paese.
Logistica però, prima di tutto. In Italia sono state bloccate le intere filiere GLS, SDA e TNT, terreno di scontro quest’ultima, nelle settimane scorse, tra i lavoratori di tutta Europa e la multinazionale FedEx che controlla la compagnia, e che con l’annuncio di oltre seimila esuberi (il dieci per cento della forza-lavoro alle proprie dipendenze in Europa), aveva scatenato l’ira dei lavoratori.
È accaduto per esempio in Belgio, dove le vertenze dei magazzini si sono unite a quelle degli hub, in una lotta che, organizzata dal Fronte generale dei lavoratori, ha portato fino a settantadue ore ininterrotte di picchetti e un danno incalcolabile per il colosso americano. Nell’impianto di Liegi, uno dei più importanti poli di smistamento aerei, la minaccia di licenziamento riguarda settecento dipendenti su mille e ottocento. Eppure la Fedex ha chiuso il bilancio 2020 in attivo, dal momento che durante la pandemia la mole di lavoro è notevolmente aumentata. L’azienda, denunciano i lavoratori, aveva da tempo in programma i licenziamenti e ora li mette in campo col pretesto del Covid. In Italia, oltre che a Torino, si blocca a Piacenza (il centro di smistamento più grosso del paese) già da giovedì e addirittura fino a lunedì; si sta fermi a Milano, Bologna, Roma e a Teverola, dove i lavoratori TNT non si sono presentati al posto di lavoro per partecipare ai blocchi delle merci direttamente nel porto di Napoli.
DAI MAGAZZINI ALLA BANCHINA
A Settimo Torinese, almeno al primo turno (quello delle quattro del mattino), non ha lavorato quasi nessuno. «I corrieri escono con poca roba – dice Petre –. Normalmente sono novanta, cento pezzi, oggi saranno trenta o quaranta». Quando gli autisti in tuta blu arrivano, uno di loro stringe il pugno e dice ai magazzinieri: «Lotta dura!», con ironia e affetto. I magazzinieri intanto distribuiscono volantini ai cancelli, discutono con i corrieri e tra i sorrisi s’intuisce una possibile intesa. «Se vi mandano a casa perché oggi non c’è lavoro, fatevi pagare lo stesso!», dicono gli scioperanti.
Negli stessi momenti, nell’antica piazza del Mercato a Napoli, allo sbocco di via Marina, un gruppetto di blindati ispeziona la zona. Senza che nessuno se ne accorga, però, un piccolo corteo spunta da una strada secondaria e varca i cancelli del porto, nell’imbarazzo dei due finanzieri di servizio alla guardiola. I lavoratori sono un centinaio, cantano e sventolano le bandiere del sindacato puntando dritti ai cancelli del terminal Conateco. «Già quest’estate da Teverola abbiamo scioperato contro i licenziamenti di un altro stabilimento, quello di Peschiera Borromeo», spiega uno dei facchini presenti, che volutamente non indossa la divisa dell’azienda e ci tiene a essere presentato come un “operaio in lotta”, in quello che per una mattina diventa l’epicentro dei lavoratori combattivi. «Nei nostri magazzini anche le più banali norme istituite con l’emergenza non vengono rispettate. E qui al porto succede lo stesso, nei terminal Conateco e in altri cantieri, dove le condizioni di in-sicurezza sono la regola, e dove ogni giorno si rischia di morire su una gru, sotto un carrello, nei camion».
TURNI SPEZZATI
Petre lavora allo stabilimento SDA di Settimo Torinese dal 2004. Dice che l’obiettivo di oggi è almeno «tenere quello che ci siamo guadagnati. Adesso siamo uniti, ma qui fino a cinque anni fa non sapevamo cos’era uno sciopero. Pensavamo che a stare nei sindacati non valeva la pena, poi un giorno ci siamo ritrovati in quaranta nella sede SiCobas ed è iniziato tutto. Prima eravamo divisi, se bloccavamo il cancello arrivava la polizia e manganellava. Oggi è diverso, ci sono solo tre “cuccioli” che stanno là dentro e noi non abbiamo bisogno di bloccare».
Quando non vi è unità all’interno tra i magazzinieri, in effetti, il blocco dei cancelli è indispensabile. Se tutti si fermano, al contrario, non è necessario fermare il traffico: i tir e i corrieri entrano, ma non possono fare nulla. Uno sciopero riuscito, inoltre, senza il blocco dei cancelli, consente di evitare il confronto con la polizia chiamata a liberare i blocchi e le pene severe contro i picchetti introdotte dal decreto Salvini. «La protesta riguarda anche i turni, che da noi sono un disastro», spiega Petre. «Si comincia alle quattro di mattina, si finisce alle dieci. Poi alle tre, tre e mezza al massimo, ricominci e finisci alle otto di sera. E il giorno dopo attacchi di nuovo! Non riposi né di giorno, né di notte. Io devo fare la doccia per forza per riposarmi un po’, e poi devi mangiare e dormire un’ora e mezza o due. Alle due e mezza di pomeriggio devi tornare a lavorare fino a sera. Vai a casa, doccia, mangi e ti metti nel letto, dove hai quattro ore da dormire. Si chiama il turno spezzato. È da quando parliamo di lotte che vogliamo il turno unico. L’azienda paga undici euro al giorno per indennità di turno spezzato, ma io preferisco non prenderli. Così se alle tre di pomeriggio arrivo a casa sto bene fino al giorno dopo. In Romania si dice: “Tra dieci euro al sole e cinque euro all’ombra, preferisco cinque all’ombra”».
Se i magazzinieri sono molto combattivi, gli autisti qui stanno perlopiù con i sindacati confederali. Cinque anni fa il SiCobas aveva tra i suoi iscritti un gruppo di autisti SDA, ma l’azienda ha cambiato cooperativa, che ha detto senza giri di parole: «Scegliamo noi chi vogliamo prendere». In tanti così hanno rinunciato al sindacato, quantomeno a quello “di lotta”.
Intorno alle sette di mattina i lavoratori di Torino cominciano un’assemblea. Mettono in ordine i problemi e le ragioni del conflitto. Il contratto nazionale della logistica è scaduto da un anno e ancora non è stato rinnovato. Inoltre la SDA ha sottratto dagli stipendi autunnali dei magazzinieri il costo della cassa integrazione di marzo, assicurata durante le prime settimane di epidemia, e così a ottobre i lavoratori si sono ritrovati con poche centinaia di euro in busta paga. Ancora, gli operai da settembre pretendono abiti adeguati per lavorare al freddo, ma la cooperativa ha fornito i capi soltanto tre giorni prima dello sciopero. «Questo è l’unico settore che ha guadagnato in tempi di crisi – continua Petre –. Da maggio 2020 qua si guadagna come dei pazzi! Prima un tale movimento si vedeva solo sotto Natale, poi calava. Adesso non cala, lavoriamo come se fosse sempre dicembre! E se noi lavoriamo, dobbiamo anche ricevere».
IN TUTTA ITALIA
S., da Milano, lavora nel magazzino TNT-Fedex di Peschiera Borromeo: «Oggi è andata bene. Abbiamo bloccato qui e anche nel magazzino che hanno a San Giuliano. Fedex ha annunciato più di seimila licenziamenti in Europa, seicento in Italia. Il lavoro in questi mesi è tanto, non c’è crisi per Fedex. Cosa faranno? Apriranno la cassa integrazione nel nostro magazzino e manderanno la merce in quello di San Giuliano. Dopo i due giorni di sciopero che abbiamo fatto la settimana scorsa hanno portato duecentoquaranta camion da tutta Italia a San Giuliano. Li hanno fatti lavorare sabato e domenica. Ma oggi tutti i magazzini di Peschiera Borromeo e San Giuliano li abbiamo bloccati. E hanno bloccato la SDA di Vimodrone e il magazzino Ingram di Settala».
Anche a Roma i blocchi vanno avanti, prima allo stabilimento TNT e poi alla SDA di Passo Corese. Tra i lavoratori nei diversi presidi in Italia si diffonde via social la notizia che lì gli operai SDA iscritti al SiCobas sono ancora in sciopero – ormai da tre giorni – raccogliendo la solidarietà anche di colleghi dei sindacati confederali, che formalmente non hanno aderito alla protesta. Qui lo sciopero è partito dopo che l’azienda Metra, fornitrice su Roma e Bologna, ha mandato a oltre trenta lavoratori, tutti sindacalizzati, lettere di trasferimento coercitivo dal vecchio hub (dove abbonda il ricorso ai lavoratori interinali) alla vicina filiale di Roma1. Gli operai chiedono che i trasferimenti siano solo volontari, e anche assicurazioni rispetto al futuro dello stabilimento e alla stabilizzazione immediata dei lavoratori.
A Torino, invece, l’attenzione si sposta dagli stabilimenti verso piazza Solferino, dove è convocata una manifestazione cittadina. Lavoratori e sindacalisti spiegano che Fedex ha deciso di non dialogare con i sindacati e da lì è partito uno sciopero di filiera, affinché gli accordi firmati siano rispettati. A Orbassano l’aumento del flusso di merci è tale che ci sono state anche assunzioni, ovviamente con contratti precari, a tempo determinato, persino di un mese. L’azienda sostiene che si tratti soltanto di un picco, ma intanto le tutele per i lavoratori sono sempre minori. «Qui a Orbassano – spiega un magazziniere – non abbiamo chiesto un premio di produzione perché temiamo sia un’arma a doppio taglio: con la scusa del premio ti spacchi la schiena. Nelle rivendicazioni nazionali chiediamo invece un premio per non esserci mai fermati in questo periodo di pandemia, abbiamo chiesto settecentocinquanta euro per ogni lavoratore per tutto il 2020».
Nel porto di Napoli il sole delle otto comincia a riscaldare i presenti. I tir non possono entrare e uscire dal terminal, mentre solidali, lavoratori e disoccupati spiegano la situazione ai camionisti ormai rassegnati. Il blocco totale delle merci è in corso, due folti gruppi di persone impediscono la movimentazione, mentre alcuni disoccupati del Movimento 7 Novembre scavalcano un cancello e iniziano a distribuire volantini alle auto di passaggio in via Marina. “Difendiamo la lotta di chi nel porto di Napoli ha perso il lavoro negli ultimi tre mesi”, c’è scritto. “Con loro siamo sulla stessa barca, e con loro ci guarderemo le spalle da chi può permettersi di stare su uno yacht”.
Le rivendicazioni dello sciopero – su tutte il rinnovo dei contratti di lavoro scaduti e le condizioni di sicurezza sui luoghi di lavoro – vengono portate direttamente in strada, dove motorini e automobili sono fermi a ridosso del porto e il traffico è nel caos. Quando una ventina di disoccupati raggiungono la strada, due blindati della polizia si schierano di fronte, ma le ragioni della manifestazione non lasciano spazio a provocazioni e presto il gruppo ritorna nel porto, al fianco di chi è lì da bloccare da ore, e a chi è sopraggiunto da pochi minuti, come i lavoratori dello spettacolo.
Tra le vertenze legate ai contratti nazionali, c’è la battaglia dei lavoratori della Turi Transport, società napoletana che si occupa del trasporto container dalle navi ai piazzali, in appalto dalla concessionaria Conateco, controllata da MSC, e in pieno scontro con il SiCobas ormai da anni. Turi Transport, denunciano i lavoratori, non ha mai utilizzato i parametri del contratto nazionale, nell’indifferenza quasi totale dell’Autorità portuale, che sarebbe chiamata a vigilare. Dopo le denunce del sindacato, l’Autorità ha chiesto a tre aziende, tra cui appunto la Turi Transport, di allinearsi alla legge, avviando la procedura di decadenza della concessione. Sebbene a novembre la Turi abbia firmato un preliminare di accordo per l’applicazione del Contratto nazionale Porti, finora le promesse non sono state mantenute. Come se non bastasse, la concessionaria Conateco ha ridotto radicalmente le forniture all’azienda e ha espulso dal suo terminal i nove dipendenti (tutti iscritti al SiCobas) che avevano inoltrato le segnalazioni. «Come i ragazzi aspettano i caporali alle rotonde – spiega C., uno di loro –, noi ogni mattina aspettiamo una telefonata che ci convochi per lavorare la sera, senza garanzie, senza tutele, con contratti pirata, a cottimo e con la manipolazione delle ore di lavoro da parte dell’azienda». Se il Tribunale del Lavoro ha già imposto il reintegro dei nove lavoratori, il prossimo mese sarà decisivo per la questione: o l’azienda si adegua ai regolamenti oppure la concessione viene revocata, mandando per strada oltre trenta persone. (alessandra mincone / francesco migliaccio / riccardo rosa)
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