Continuiamo a parlare della strage di Viareggio del 29 giugno 2009, a seguito della recente sentenza della Cassazione dell’8 gennaio 2021. Dopo aver incontrato Ezio Gallori, proponiamo un confronto con Riccardo Antonini, operaio delle Fs, attivo nell’area congressuale di opposizione in Cgil “Il sindacato è un’altra cosa”. All’indomani della strage ha scelto di prestare gratuitamente la propria consulenza ai familiari dell’Associazione delle vittime. Nell’estate del 2011 è stato diffidato da Rfi a porre termine alla sua attività a fianco dei familiari, poi sospeso per dieci giorni e infine, il 7 novembre 2011, licenziato in tronco “per essersi posto in evidente conflitto d’interesse con la società”. Nonostante il suo licenziamento e successivamente il pensionamento, ha continuato a rappresentare una delle figure più impegnate nella battaglia per sicurezza, verità e giustizia sulla strage del 2009. L’incontro è avvenuto nei locali del Dopolavoro ferroviario di Viareggio.
Qual è il tuo ricordo della strage?
Undici anni fa ero operaio sui binari. Il refettorio è qui a poche decine di metri. Se l’incidente fosse avvenuto alle 9:00, o alle 7:30 quando entro in servizio, sarei stato, con i miei compagni di lavoro, sicuramente una delle vittime. Le fiamme sono arrivate fino a qui. Il disastro è avvenuto alle 23:49 e non ero in servizio, perché facevo il turno mattina e pomeriggio. La mattina del giorno dopo ero in servizio. Proprio lì di fronte, dove era la sala montata criccata, sala che comprende ruote e assile, intravedo Moretti con uno stuolo di funzionari che la osserva. Ero appena rientrato dalla pausa pranzo, mi infilo in quel nugolo di persone, mi metto alle spalle di Moretti che parla indicando la sala criccata a due metri, scaraventata a settanta metri da dove era avvenuto il deragliamento, e dice: «Guarda lì, d’ora in avanti – evidenti i segni della ruggine – dobbiamo controllare tutto ciò che viene dall’estero». Dopo due giorni riporto questa frase a un giornalista di Repubblica, e da quel momento vengo preso di mira da Moretti. Prima, in audizione alla Commissione al Senato, esterna minacce nei miei confronti e dopo, il 14 settembre 2009 a Firenze, in un incontro istituzionale alla Regione, con l’allora presidente Martini, dichiara: «Prima o poi quel ferroviere lo licenzio». Avevo riportato l’affermazione di Moretti che sottintendeva le responsabilità dell’azienda su quanto avvenuto: “Guarda cosa circola nei nostri binari”. Questa affermazione, mai smentita, anche in sede di dibattimento, è stata riportata nelle motivazioni dell’Appello.
Come è iniziato il tuo coinvolgimento nella battaglia dei familiari per avere giustizia?
Sono un militante politico, così ci si definiva negli anni Settanta, nel senso che non ci si occupava solo di un problema. In questa definizione sta tutto, sindacato, sociale, antifascismo, sicurezza, salute… Sono stato militante di Lotta Continua, la mia università è stato il rapporto con chi aveva combattuto il nazifascismo, con i partigiani e i comandanti di quelle formazioni. Quegli uomini e quelle donne sono stati i miei primi insegnanti. Poi ho avuto numerose altre esperienze di lotte sindacali e politiche, ricordo quelle da bagnino negli anni Settanta, e nel sindacato fino a tempi più recenti sui temi della salute e della sicurezza in ferrovia e sul territorio.
Nel 2004 in un’azienda a pochi metri da via Ponchielli, luogo del disastro ferroviario, dove si lavorano cere per pavimenti utilizzando sostanze pericolose e infiammabili, perse la vita un giovane operaio, Matteo Valenti, bruciato vivo come le vittime del 29 giugno. Matteo morì, dopo quattro giorni di agonia, al Centro Grandi Ustionati di Sampierdarena a Genova. L’incidente avvenne l’8 novembre. Fu promosso un comitato per rivendicare giustizia: mobilitazioni, iniziative, cortei. Il processo si tenne poco tempo dopo, a differenza di altri casi simili. A un ragazzo di ventitré anni, assunto venti giorni prima, era stato negato persino un corso di formazione di fronte a un lavoro così rischioso. Il padrone fu condannato a trenta mesi con il patteggiamento; niente rispetto alla vita di un ragazzo, non poca cosa rispetto ai tempi e alle irrisorie condanne in casi di questo tipo. Per dire che la mobilitazione, comunque, produce dei risultati. In seguito, sempre a Viareggio, costituimmo il Comitato per la reintegrazione di Dante De Angelis, ferroviere licenziato, e quattro giorni dopo il disastro, nella sala grande di là, si svolse un’affollata assemblea di ferrovieri con altri lavoratori e cittadini. Il 15 luglio nacque l’Assemblea 29 giugno.
A un mese dalla strage, il 29 luglio, organizzammo una manifestazione con migliaia di persone; si dette appuntamento in stazione, si percorse le vie della città e si concluse sul luogo del disastro. Come Assemblea iniziammo anche un lavoro di studio. Quello che ho in mano è un documento prodotto dopo discussioni e un seminario tenuto in queste sale per elaborare proposte e avanzare richieste esposte fino a Bruxelles, al Parlamento europeo, consegnate alla Procura, e sulle quali sono stati promossi incontri e iniziative. Lo studio e la lotta, sono due aspetti centrali di questo percorso, come il consenso popolare e le campagne su questioni individuate di volta in volta.
Prima del 29 giugno 2009 erano avvenuti quattro incidenti simili, di cui due in Toscana: il 6 giugno a Pisa San Rossore e il 22 giugno, una settimana prima, a Vaiano in provincia di Prato. Due treni merci. Uno sviato per alcuni chilometri aveva spezzato migliaia di traversine da Migliarino a Pisa San Rossore; l’altro, che trasportava sostanze infiammabili, era deviato e solo per poco non vi era stato un grave incidente. Dopo questi fatti, avevamo denunciato ma inascoltati. Non siamo stati in grado di impedire che circolassero questi treni-bomba. Oltre a non aver predisposto misure di sicurezza adeguate è stata persino violata la normativa vigente. Questa è la tragica “combinazione” del disastro di Viareggio.
Come avete organizzato il lavoro di denuncia e la mobilitazione?
Da una parte dovevamo informare, denunciare, organizzare, sapendo che i contenuti della mobilitazione erano la sicurezza, la verità e la giustizia. Dopo la costituzione dell’Assemblea, in questa sala si sono tenute riunioni di cinquanta persone, ma dovevamo aspettare che i familiari “assorbissero” l’immane dolore per poterci organizzare con loro. L’Associazione dei familiari, “Il Mondo che vorrei”, nasce il 24 aprile 2010, dopo dieci mesi. Il 29 di ogni mese vi era l’appuntamento di ritrovarsi all’ora del disastro sul luogo della strage, con quest’ultimo 29 siamo a centotrentotto volte, a ricordare con il suono della campana le trentadue vittime. Il 29 dicembre 2009 chiamammo la città alla mobilitazione: i familiari ancora non si erano costituiti, ma alcuni di loro furono ugualmente presenti.
La prima campagna fu quella sugli indagati, affinché non fossero considerati le ultime ruote del carro ma le figure apicali delle società coinvolte. Quei carri erano vere e proprie multinazionali, società austriache, tedesche, italiane. A metà ottobre del 2009 capimmo che dovevamo fare qualcosa di grosso. Allora iniziammo una sorta di pressione nei confronti della Procura perché indicasse i nomi e che fossero giusti. Decidemmo di bloccare due Intercity. Un mese prima anticipammo la notizia, e per due mesi abbiamo informato dell’iniziativa: «Il treno Intercity delle 21:15 da Genova e quello dopo da Roma».
Quel 29 dicembre era una giornata micidiale, pioveva a dirotto, il lago Massaciuccoli tracimava, una situazione di allerta. Alle 20:00 arrivo in stazione insieme ad altri sette-otto per mettere striscioni, foto, cartelli. C’era già la polizia schierata, mi chiamano: «Venga qua». Rispondo: «Se deve dirmi qualcosa, lei venga da me». Il capo si avvicina per dirmi: «Voi stasera non andate sui binari». Gli rispondo: «La ringrazio dell’attenzione, se rimaniamo quelli che vede raccogliamo il suo invito. Se, invece, vi saranno le persone che pensiamo, faremo ciò che abbiamo annunciato», aggiungendo: «Si guardi bene a non far frullare manganelli». Il capo risentito: «Che vorrebbe dire?». «Quello che ho detto».
Alle 21:00 vi erano quattrocento persone, anche familiari; bloccammo i due treni per più di mezzora. Sul treno proveniente da Roma c’era il comico Paolo Rossi, lo individuammo una volta saliti per informare con un volantino sul motivo del blocco e lo invitammo sui binari a esprimere la sua solidarietà, cosa che fece.
Quindi il vostro percorso nasce da un gruppo, formato da lavoratori ferroviari e familiari delle vittime della strage?
Inizialmente alcuni familiari partecipavano alle nostre assemblee, si erano costituiti diversi comitati, quello dei sopravvissuti di via Ponchielli, l’Associazione vittime degli incidenti ferroviari, di largo Risorgimento, realtà che col tempo si sono perse. Alcuni feriti e parenti erano in un comitato, alcuni in un altro. Come Assemblea 29 giugno, sostenevamo che i familiari dovevano organizzarsi autonomamente, e insieme costruire un’unità d’azione superiore, più ampia. “I familiari devono sviluppare la battaglia su verità e la giustizia, i ferrovieri, i lavoratori, i cittadini sulla sicurezza”. Si capì anche l’importanza della campagna sugli indagati, che vide due giorni di mobilitazione (29-30 marzo 2010) con trentadue ore di presidio permanente, giorno e notte di fronte alla Procura a Lucca, un’ora per ogni vittima, affinché emettesse i nomi e fossero quelli di amministratori delegati, manager, di chi gestiva… In quelle ore anche il vescovo venne a salutarci.
Quali sbocchi politici ha avuto la protesta?
Avevamo l’esperienza del disastro di Crevalcore (7 gennaio 2005), dove vigliaccamente l’esito processuale aveva scaricato la responsabilità sul macchinista deceduto. Non poteva ripetersi una porcata del genere! Individuammo la necessità di una legge, “legge Viareggio”, dall’esperienza del disastro aereo di Linate (8 ottobre 2001) con centodiciotto vittime, quando fu istituita la “legge Linate”. La legge prevedeva un’elargizione per ogni vittima. Dovemmo svolgere un’azione nei confronti delle forze politiche presenti sul territorio, riunire i parlamentari perché fosse istituita una commissione in cui si definisse la legge per i familiari. Per due motivi sostanziali: non subire i ricatti delle assicurazioni per tenerli fuori dal processo, come purtroppo è avvenuto in altre stragi; e ottenere un sostegno economico alle famiglie che avevano perso tutto.
Dopo un anno e mezzo fu istituita la legge, ai familiari duecentomila euro per ogni vittima con lo stanziamento di dieci milioni di euro. Fummo impegnati su questa campagna per unire i parlamentari e allo stesso tempo annunciare forme di protesta se la legge non fosse stata approvata. I parlamentari del territorio avevano tutto l’interesse affinché ciò avvenisse.
Ci sono stati familiari che non hanno accettato alcun risarcimento dalle assicurazioni e sono rimasti nel processo fino in fondo, un aspetto politico molto importante di fronte all’azione incessante delle assicurazioni per farli uscire dal processo: «Hai perso una figlia? Ti ho dato mezzo milione di euro, così siamo pari». Con i soldi della legge dovevamo far sì che un buon numero di familiari non accettasse i risarcimenti e si costituisse parte civile nel processo. Sono stati in diversi ad aver capito l’importanza di questo rifiuto. L’elargizione della legge ha dato loro anche la possibilità di avere al fianco una squadra di avvocati e consulenti di spessore per affrontare controparti (società e imputati) agguerrite e ricche di risorse e appoggi.
Prima le udienze dell’incidente probatori, poi le centotrentotto di primo grado, infine le trentasette dell’appello: in ognuna siamo stati presenti, fuori con le foto e gli striscioni, in aula con le magliette dei volti di ogni vittima stese sulle sedie per il pubblico; aspetti che hanno suscitato un’attenzione mediatica sul processo rafforzando la mobilitazione.
Ogni anno, dal 2010, nel mese di agosto, nella pineta di levante della città si sono svolti i Giorni della Memoria e della Solidarietà, con dibattiti, spettacoli teatrali, video. Tutto questo ha fatto sì che anche artisti sensibili a questa vicenda, voglio ricordare Mario Monicelli tra tanti altri, mettessero a disposizione di questa battaglia la loro professionalità e le loro opere.
Un’amara considerazione. Lo stato non si è costituito parte civile nel processo e Moretti è stato nominato e rinominato fino a essere promosso a Finmeccanica. Il sottoscritto invece è stato licenziato, a detta dei giudici per aver violato l’obbligo di fedeltà all’azienda: due pesi e due misure. Da non credere, ma così è stato! La sentenza recente della Cassazione è una sentenza politica che apre contraddizioni e tende a dividere il fronte della mobilitazione.
Perché parlate di sentenza politica?
Innanzitutto ribalta le due precedenti, allo stesso tempo deve tener conto di quello che è avvenuto il 29 giugno, delle trentadue vittime, che non si cancellano, e della mobilitazione che ci ha condotto fino a questo punto, anche con forme di lotta legittimamente audaci: blocchi, presidi, stop a tutto ciò che potevamo. La sentenza, da una parte assolve le imprese, quindi “il profitto non si discute, il mercato è sacro, le aziende non hanno alcuna responsabilità”. Le società sono assolte, non invece i responsabili delle società, sostituibili in qualsiasi momento perché incapaci o perché condannati o per contrasti interni tra cordate contrapposte. Da una parte l’attacco ai lavoratori, dall’altra l’inviolabilità delle imprese, persino legittimate a violare le norme sulla sicurezza, cosa che del resto fanno quotidianamente. Viene escluso il disastro come incidente sul lavoro, togliendo così l’aggravante dell’omicidio colposo, che viene prescritto come gli altri due reati (incendio colposo e lesioni gravi e gravissime plurime) già prescritti. Rimane solo il “disastro ferroviario”. Inoltre, per i condannati come Moretti si annulla la sentenza d’appello e si rinvia a un nuovo processo su alcune condotte, senza sapere quali e quante. Va ridefinita la pena senza l’omicidio colposo.
Moretti in appello aveva rinunciato alla prescrizione. Una scelta dovuta alla pressione popolare, non certo per una questione morale: il soggetto ha voluto così dimostrare di essere diverso dagli altri condannati. Ma la prescrizione è comunque inaccettabile. Se un cittadino è accusato della bruciatura di tre alberi, dopo sette anni ha diritto che il suo reato sia prescritto se lo stato non è stato in grado di sottoporlo a processo. Ma se l’accusa è aver provocato una vittima, per non parlare delle trentadue di Viareggio, dato che il dolore dei familiari non andrà mai in prescrizione, non è accettabile alcun tipo di prescrizione!
La cosiddetta riforma della giustizia può anche essere una bella riforma, ma in una società di profonde disuguaglianze, chi non ha sufficienti risorse per la propria difesa non sarà nelle stesse condizioni di chi invece ha ingenti risorse e l’appoggio di poteri forti. Se i familiari di Viareggio non avessero avuto capacità e soldi da utilizzare per allestire una squadra di avvocati e consulenti da contrapporre a quella di ferrovie e ditte straniere, non vi sarebbe stato niente da fare, neppure sotto il profilo processuale. Dopo tre anni a Finmeccanica, Moretti ha avuto una buonuscita di nove milioni e mezzo di euro, soldi della collettività, tolti a pensioni, sanità, istruzione, ecc.
È una sentenza che può dividere. Ai familiari promette una sorta di contentino: “Alla fine, qualcuno che conta lo condanneremo!”. Ma proprio alla fine… considerando che il sistema e le imprese vengono assolte senza alcuna responsabilità. Qualcuno sarà sacrificato, ma il sistema ferroviario non si tocca. Il messaggio è fin troppo chiaro.
E invece il processo che hai subito tu? Il tuo licenziamento?
Al processo il giudice chiese subito la conciliazione: io accettai, le Ferrovie la respinsero. Dopo ci fu un’altra proposta di conciliazione, nel gennaio 2012. Non l’ho potuta accettare perché sostanzialmente chiedeva l’abiura sul mio impegno a fianco dei familiari. Venivo reintegrato con l’avallo di Moretti. E pensare che non ero dipendente della holding Fs di cui Moretti era amministratore delegato; ero di Rfi, il mio datore di lavoro era Elia. Questo per dire che Moretti trattava su tutto e di tutti. Non solo faceva accordi con le regioni, ma si occupava anche di casi come il mio licenziamento, che lui ha voluto e ha trattato anche in sede giudiziaria. L’accordo sostanzialmente era questo: reintegrato a tutti gli effetti, sospensione di dieci giorni, senza più occuparti di incidenti ferroviari e riconoscere di aver commesso errori e dichiarazioni inopportune nei confronti di Moretti e della società Fs. Moretti lo sottoscrisse. Io dissi: «Se viene tolto il concetto di abiura, sono disposto. Do ut des: reintegrazione e sospensione, ma non posso rinnegare quello che ho fatto finora, meno che mai pentirmi. Avrei voluto fare di più e meglio di quanto ho fatto».
Vi fu il processo e il ricorso fu respinto, in tutti e tre i gradi di giudizio. Anche questo, come altri, è uno dei misfatti commessi dal cavaliere del lavoro Moretti in tutta la vicenda. Quando si pretende di esercitare il potere fino a strafare, c’è il rischio di cadere… Nelle udienze di primo grado non si è mai presentato in udienza. Non perché non riconosceva lo stato, anzi, ma perché: «Io sono lo stato e un tribunalino di periferia non può mettere in discussione lo stato che io rappresento». Alle udienze d’appello invece si è presentato come uno scolaretto del primo banco, fino a dover dire: «Rinuncio alla prescrizione». Gli devono aver consigliato: «Amico, non ripetiamo gli errori del primo grado». L’avvocato di Moretti dopo la sentenza di Lucca ebbe a dire: «È una sentenza populista, che risponde alla piazza e non alle aule giudiziarie».
Quali le prossime tappe di questo percorso?
In una battaglia si possono commettere due errori: di non iniziarla e di non condurla fino in fondo. Il primo non lo abbiamo commesso, il secondo neppure perché stiamo dimostrando di voler arrivare fino in fondo. Però dovremo essere capaci di coinvolgere forze superiori a quelle fin qui mobilitate. Un’associazione come quella dei familiari, o più associazioni e comitati, non possono da soli andare oltre a quanto già hanno fatto. Bisogna alzare il livello e la qualità, unire forze direttamente interessate come realtà sindacali, coordinamenti, comitati, nel mondo del lavoro e nella società.
Moretti ha sempre teorizzato che con delle buone assicurazioni si può ovviare allo “spiacevolissimo episodio”, come definì la tragedia di Viareggio in commissione al Senato. La sua filosofia è stata: «Se dovessi spendere risorse e investire per impedire un’altra Viareggio, il costo sarebbe superiore a quello dovuto al risarcimento delle vittime». In un’intervista al Tg3 disse: «Se dovessi fare tutto quello che mi viene chiesto, non sarei competitivo sul mercato». Pensate, queste raccomandazioni erano le richieste della Commissione investigativa del ministero delle infrastrutture e dell’Agenzia nazionale per la sicurezza ferroviaria, non certo di familiari addolorati o di ferrovieri rancorosi.
Oggi la realtà è che, rispetto alle istituzioni e alla politica, dal punto di vista mediatico e non solo, hanno un peso maggiore le proteste e le iniziative di poche decine di familiari organizzati con obiettivi chiari, che un corteo di centomila metalmeccanici per il contratto o di cinquantamila manifestanti per la pace. Non lo dimostrano solo le iniziative di Viareggio, ma tante altre mobilitazioni che hanno avuto visibilità e consensi, come per la strage operaia alla Thyssen di Torino, per le immani tragedie del Moby Prince a Livorno o del Ponte Morandi a Genova.
Quella sinteticamente descritta è una storia da studiare e approfondire perché ricca di preziosi e utili insegnamenti. (a cura di michele colucci / stefano gallo)
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