da: Horatio post
Di quante città diverse è fatta Napoli, la domanda alla fine rimane quella. Ci penso ora che la collina finisce, e dal viadotto della 162 appaiono le torri bianche e azzurre di Ponticelli, che svettano sulla piana, nella foschia luminosa di una mattina d’ottobre. Il quartiere è proprio grande, Ponticelli è uno dei cinque quartieri di Napoli con più di cinquantamila abitanti: se per ipotesi tornasse comune autonomo, com’era un secolo fa, sarebbe tra le prime quindici città della Campania, non il margine estremo di un capoluogo straniato, che di queste terre e di questa gente sembra non sapere cosa farsene.
Ho chiesto a Luigi Verolino, il massimo storico di Ponticelli, di accompagnarmi. Lo incontro nella piccola sede fasciata di libri dell’associazione culturale del quartiere, una fucina di indagini e ricerche, più di cinquanta pubblicazioni prodotte nell’ultimo ventennio, e il giro inizia qui, dal centro storico, che è un piccolo gioiello, monumento di una civiltà rurale millenaria, restaurato con il programma straordinario dopo il terremoto dell’80.
In via Cozzolino, la piccola arteria che attraversa il centro, il traffico pedonale è intenso, quattro nonni giocano a carte fuori il bar, il commercio delle piccole botteghe è vivo, dietro gli archi dei portoni si aprono le corti, con le cantine, le stalle, un dedalo inaspettato di logge, scale e finestrelle; questi cortili interni erano il fulcro operativo dell’attività agricola fiorentissima che si sviluppava sui novecento ettari della piana, dove ogni metro era diligentemente coltivato a cereali, ortaggi, canapa, foraggi.
Proseguiamo fino a piazza Vincenzo Aprea – l’ultimo grande sindaco di Ponticelli prima dell’accorpamento con Napoli nel 1925 – dov’è la bella basilica di Santa Maria della Neve. L’impianto è del Cinquecento su un precedente nucleo angioino, il complesso è tenuto impeccabilmente, con un corredo notevole di opere d’arte e arredi; sul lato opposto della piazza, anch’essa in perfetto stato, la facciata umbertina della grande scuola elementare del 1913. «Quella di Ponticelli è una storia municipale importante – mi dice Luigi – sempre nel segno dell’autonomia. Il nucleo più antico dell’insediamento è una necropoli sannita, l’origine è quindi diversa da quella greca del capoluogo, e il piccolo centro non era tanto legato a Napoli, quanto alle altre città sannite della piana, Capua, Atella, Nola». Da allora, prosegue Verolino, lo spirito d’indipendenza è rimasto una costante. Tra la metà del Cinquecento e quella del Seicento, per esempio, quando la Corona, per risanare i bilanci, a più riprese vendette i casali alla nobiltà, per tre volte l’assemblea dell’Università di Ponticelli – l’organo rappresentativo del casale – decise di riscattarsi, versando in proprio il prezzo stabilito, pur di non cadere sotto il controllo dei feudatari.
«Anche per questo motivo – mi spiega Luigi – a Ponticelli non troviamo ville vesuviane, come nel resto del Miglio d’Oro. Insomma, la libertà qui è un’idea fissa, Ponticelli è stato il primo quartiere europeo a insorgere contro il nazifascismo, la mattina del 23 settembre 1943. Ci fu uno scontro, i partigiani uccisero due militari tedeschi, innescando una rappresaglia feroce in via Ottaviano, con trenta civili trucidati».
Il casale è cresciuto nei secoli, sostenuto dall’economia agricola delle masserie, degli orti e dei mulini: alla fine del Settecento gli abitanti sono quattromila, diventano diecimila ai primi del Novecento, e ventunomila nel 1950; intanto la fisionomia è cambiata, la nuova popolazione è operaia, Ponticelli offre residenza ai lavoratori delle fabbriche di San Giovanni, Barra, Poggioreale, Bagnoli. Agricoltura e industria convivono qui in una particolare cultura del lavoro, che spiega poi l’impegno sindacale e politico, il radicamento storico nel quartiere dei partiti e delle associazioni della sinistra operaia.
È dalla metà degli anni Cinquanta che la storia mette l’acceleratore e l’equilibrio si rompe. Da allora la popolazione di Ponticelli è quasi triplicata, oggi gli abitanti sono cinquantacinquemila, ma l’impennata demografica è completamente sganciata dalle vicende dell’economia e del lavoro; è piuttosto il risultato della edificazione, sui suoli fertili della piana, di tutto un arcipelago di rioni di edilizia pubblica residenziale – De Gasperi, Incis, Conocal, Parco Merola, Lotto Zero – lungo tutto il quarantennio che va dalla ricostruzione post-bellica a quella post-terremoto.
«Quella di Ponticelli è una vicenda territoriale complicata, ma è necessario distinguere», mi dice Giovanni Squame, che nel quartiere è nato, e ha svolto attività sociale e politica. Era lui a presiedere nei primi anni Duemila il consiglio comunale che ha approvato il nuovo piano regolatore di Napoli. «La ricostruzione dopo il terremoto dell’80 non è stata un cumulo di errori, ha salvato il centro storico, dato al quartiere i parchi pubblici e le attrezzature sportive, le scuole e le strade, insomma ciò che mancava per diventare veramente città. Certo poi, l’edilizia popolare è una pagina scura: il potere pubblico ha costruito le case, dimostrandosi poi totalmente incapace di gestire il patrimonio, dall’assegnazione degli alloggi, alla carenza drammatica di cura e manutenzione».
Ad accrescere i problemi, c’è il fatto che a un certo punto il grande progetto urbano si è improvvisamente interrotto, come un ponte proteso sul vuoto. Percorriamo con Verolino i viali intorno al grande parco De Filippo – via Malibran, Virginia Wolf, Cupa Lettieri, via Matteotti – ed è un viaggio nella terra di nessuno: oltre cento ettari di orti fertili, espropriati quarant’anni fa per realizzare i servizi di quartiere, giacciono in abbandono, una landa desolata di sterpaglie grande quanto il bosco di Capodimonte, e ti rendi conto che il disagio non riguarda solo le isole recintate dei rioni, ma il vuoto che è rimasto intorno, la mancanza di un tessuto connettivo che dia senso al tutto, che restituisca al quartiere un paesaggio decente di vita. Poi a volte basta poco, ed è anche vero che esistono differenze, come al rione Incis, dove le cose funzionano un po’ meglio: hanno aperto piccoli locali, la sera è diventato luogo di ritrovo dei ragazzi, e capisci allora che i giudizi sbrigativi servono a poco, nel disagio generale ogni luogo ha la sua storia, potenzialità e problemi, che bisognerebbe con umiltà studiare, comprendere, affrontare.
Risaliamo a nord, lungo via Galeone, tra la Circumvesuviana e il viadotto della 162 c’è un’isola di agricoltura che si è salvata – erano novecento ettari a Ponticelli, ne sono rimasti scarsi un centinaio. Un mosaico fitto di campi recintati, casette, serre, capannoni, ma nel disordine resta comunque un decoro, a terra non trovi una carta. Sono colture intensive di fiori, rose, ortaggi, il suolo è così produttivo che un solo moggio – poco più di tremila metri quadri – basta a un agricoltore per sostenere la famiglia, laureare i figli, maritare le ragazze. È un’agricoltura fatta di aziende microscopiche che l’Unione Europea proprio non capisce, né siamo stati in grado di spiegargliela, difenderla, finanziarla; era la nostra forza e l’abbiamo distrutta, proprio ora che tutto il mondo riscopre le virtù sociali ed ecologiche dell’agricoltura urbana. Nel mentre ci viene incontro un floricoltore. Ha lavorato una vita, ma ci dice che le serre non le aggiusterà più, i figli lavorano fuori, è una tradizione secolare che si spegne. Mentre parliamo avverti un mormorio, c’è un piccolo canale di bonifica, l’acqua chiara ci passa accanto, lambisce un rustico in rovina, l’antico Mulino di Casoria, uno dei tanti dei quali è disseminata la piana umida del Sebeto; lungo la sponda, macchie verdi di pioppi, nespoli, fichi, sembra lo scorcio di un paesaggio fiammingo.
Riprendiamo la superstrada urbana di via Argine, con gli stabilimenti dell’Ansaldo, la Whirlpool e Auchan rimane l’asse industriale e commerciale più forte. È completamente spoglia d’alberi e di verde, anche qui basterebbe poco per ingentilirla, il progetto c’era per farne un boulevard per le persone, oltre che per le auto, chissà dov’è finito.
Riaccompagno Luigi alla sede dell’associazione e penso che questa piccola stanza tappezzata di libri è un segmento della straordinaria rete sociale e culturale che, nella completa assenza di politiche pubbliche, tiene in piedi il quartiere. Una trama che comprende le scuole, la chiesa, il terzo settore, il volontariato. Dalle materne agli istituti superiori, la filiera della scuola pubblica a Ponticelli ha punti di eccellenza a scala cittadina: nonostante il contesto difficile il patto formativo con i ragazzi e le famiglie tiene ancora. Anche le parrocchie svolgono da sempre un lavoro straordinario, nel quartiere l’associazionismo e il cattolicesimo di base hanno sempre avuto radici assai profonde; così come resiste l’impegno laico, la Casa del popolo in corso Ponticelli resta comunque aperta, un luogo importante di discussione ed elaborazione, al di là della crisi dei partiti.
«Qui a Ponticelli la capacità di cooperazione e lo spirito di sopravvivenza sono più forti che in altri quartieri della zona orientale, sarà una questione di radici», mi dice Anna Ascione del Centro diurno Lilliput dell’Unità operativa Dipendenze dell’Asl 1: al suo progetto di orti sociali, con il quale è riuscita a strappare al degrado parte del grande parco pubblico De Filippo, hanno aderito scuole, parrocchie, una trentina di associazioni, e centotrenta famiglie. La sede del Centro Lilliput per la cura delle dipendenze da sostanze e dal gioco è all’interno del Lotto 0, di fronte alla cattedrale sfarzosa dell’Ospedale del mare. «Quando dico dove siamo, la gente si spaventa anche solo di entrare. Superata la paura e il pregiudizio, trovano invece un ambiente accogliente, colorato, con operatori preparati, ci sono anche i ragazzi delle superiori che ci aiutano con l’alternanza scuola lavoro. Io credo che Ponticelli e l’area orientale continuino a dare a Napoli più di quanto ricevano, il futuro della città comunque passa di qui». (antonio di gennaro)
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