da: Il Corriere del Mezzogiorno
Il 16 ottobre è stata la Giornata mondiale dell’alimentazione durante la quale è stata denunziata un’inversione di tendenza che vede il riacutizzarsi della fame e della malnutrizione nel mondo. Ecco: la malnutrizione. È una delle criticità che, fino a poco più di quarant’anni fa, rappresentava uno stigma di Napoli. Tutto il Secolo Breve ha visto, in città, il susseguirsi di iniziative politiche che avevano al centro la questione alimentare, dalla Mensa Matteotti animata da Vera Lombardi nell’immediato secondo dopoguerra all’esperienza della Mensa dei bambini proletari nel quartiere di Montesanto negli anni Settanta. La malnutrizione del proletariato precario di quegli anni riguardava la scarsità, al contrario, oggi i figli di quei bambini sono vittime di una malnutrizione legata all’eccesso.
Siamo in presenza di una diseducazione alimentare che provoca una vera e propria epidemia di patologie legate alle disfunzioni alimentari, diffusa tra gli strati più umili della popolazione. Fenomeno legato, probabilmente, a uno stadio “postmoderno” della voracità del sottoproletariato locale descritta dall’antropologo Thomas Belmonte nel suo La Fontana Rotta (1979). Si mangia troppo e male. Si acquistano grandi quantità di cibo a poco prezzo e quindi scadente, altrimenti non si spiegherebbero le enormi disparità di prezzo di prodotti simili venduti in supermercati “biologici” come nei discount diffusi a macchia d’olio nei quartieri popolari. La Campania (Napoli in particolare) ha il primato nazionale per le patologie derivate dalla diseducazione alimentare. Le persone in sovrappeso sono il 39% della popolazione e l’obesità raggiunge il 18% con un picco drammatico del 23% tra i minori. L’incidenza dell’obesità diminuisce progressivamente all’aumento del grado del titolo di studio e delle risorse economiche delle famiglie (Fonte: Rapporto 2017. Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane). La malnutrizione comporta degli altissimi costi sociali in termini aumento di ricoveri per patologie da essa derivate. La sanità campana, che a malapena riesce ad assicurare i minimi LEA, viene ulteriormente gravata dal peso delle disuguaglianze.
Il cibo è cultura. Si trova alla base del processo di crescita degli individui. Attraverso l’alimentazione di stabiliscono i primi parametri relazionali se quindi si sperimentano modalità di nutrimento smodate, disequilibrate e prive di consapevolezza le conseguenze agiscono anche sul processo di coesione sociale.
In primo luogo l’assenza di una refezione scolastica degna di questo nome, puntuale e pianificata con al centro la diffusione di una alimentazione sana e non il maggior ribasso degli appalti, è la prima causa della malnutrizione attuale. Ci sono famiglie che con la “social card” (e futuro reddito di cittadinanza) riempiono le dispense di prodotti nocivi a buon mercato (bibite gasate, sovrabbondanza di zuccheri e grassi) mentre altre organizzano la propria dieta alternando carne, pesce e verdura. A Napoli succede ancora di ritrovarsi bambini stupiti di fronte a pietanze sconosciute quando ospiti in ambienti diversi. E non si parla di alta cucina ma di normale uso di verdure, pesce o carne freschi.
Si tratta, quindi, di agire radicalmente sulla qualità della vita di coloro che crescono sotto il peso delle disuguaglianze. Intervenire non più sui bisogni primari quanto sulle modalità attraverso cui questi ultimi vengono soddisfatti, e renderle socialmente e individualmente sostenibili.
In un paese ossessionato dalla spettacolo del cibo, in una città che fa della pizza il simbolo del proprio orgoglio, in un luogo dove le manifestazioni enogastronomiche assumono i contorni di iniziative culturali, non è più tollerabile la disuguaglianza alimentare. L’educazione alimentare è il primo passo per affermare il diritto costituzionale alla salute. Non sono le dispense, oggi, a esser vuote ma, bensì, le politiche di integrazione a tutti i livelli. (-ma)
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