La stampa francese ha portato alla ribalta il malessere di cui soffrono gli studenti universitari da alcuni mesi ormai. Ansia, panico, disorientamento, disturbi del sonno o iperattivismo, fino alla depressione nei casi più gravi. Le misure restrittive e il divieto dei corsi in presenza hanno gettato nello sconforto i quasi cinque milioni di studenti transalpini. Numerose associazioni, di studenti e di medici, hanno segnalato al ministero lo stato delle cose, e questi ha preso la decisione di offrire un sostegno psicologico gratuito e a distanza. Nient’altro per ora, e il ritorno in aula sembra ancora lontanissimo.
Diversa è la situazione nella scuola primaria e secondaria. Le lezioni hanno ripreso normalmente a settembre, senza misure di sicurezza particolari. L’esecutivo ha scelto una strategia graduale, che asseconda i movimenti epidemici piuttosto che anticiparli. Perciò, le uniche indicazioni per settembre sono state mascherine e gel idroalcolico. Le classi hanno sempre avuto tutti gli effettivi, che nella regione di Parigi sono sempre oltre i trenta studenti alle medie. Le mascherine sono state fornite dal ministero: si tratta di mascherine di cotone a un solo strato, lavabile dieci volte, sospettate di essere tossiche secondo alcuni giornali locali, i quali denunciano la presenza di un biocida, lo zeolite d’argento, sulla superficie delle stesse.
Le mascherine, a ogni modo, non sono state rese obbligatorie nella scuola elementare. Le mense hanno funzionato a pieno ritmo (circa duecento ragazzi per turno). La scuola dura fino al pomeriggio quattro giorni la settimana, e quello della mensa è spesso l’unico pasto equilibrato (e talvolta assicurato) di cui molti ragazzi possono beneficiare. Il protocollo previsto in estate viene ulteriormente alleggerito a metà settembre: per chiudere una classe ci vogliono tre casi Covid confermati, in luogo di un unico caso, come inizialmente previsto.
Verso metà ottobre l’epidemia ha raggiunto il suo picco, con quasi settantamila casi al giorno, che hanno portato la Francia a essere il secondo paese europeo, dopo il Regno Unito, per numero di casi confermati. Numeri così importanti hanno radici lontane. Nel maggio 2020 Macron annunciava un quasi-ritorno alla normalità riaprendo il paese. Interrogato sulle mascherine, il presidente precisò che non vedeva la necessità di obbligarne l’uso. Da metà maggio a metà luglio 2020 la Francia ha vissuto con grande normalità. I media sembravano essersi dimenticati dell’epidemia, i ristoranti, i bar, i teatri erano pieni senza limitazioni. Due giorni dopo il secondo turno delle elezioni, il 16 luglio, i toni dell’esecutivo si fanno improvvisamente gravi. L’epidemia fa di nuovo capolino nell’informazione ed è istituito, per la prima volta dall’inizio della pandemia, l’obbligo di portare la mascherina nei luoghi chiusi.
Questa misura sarà la prima di numerose regole costrittive la vita dei cittadini che accomuneranno numerosi paesi europei. La stretta si fa più serrata alla fine di ottobre, quando è annunciato un secondo confinamento. Assomiglierà a quello di marzo 2020, ma con un’eccezione: le scuole di ogni ordine e grado restano aperte, università escluse. Il 2 novembre è introdotto l’obbligo di mascherina alle elementari, le attività sportive sono fortemente limitate. Il numero degli studenti autorizzato per classe è a discrezione della scuola. Stesso discorso per la mensa. Per rinforzare il protocollo anti-Covid, il ministero consiglia di aprire spesso le finestre delle aule. Per il resto, ogni esercizio commerciale è chiuso, salvo quelli essenziali, ed è introdotto il coprifuoco dalle 20 alle 6.
Le misure fanno abbassare la curva epidemica fino ai dodicimila casi al giorno, senza però arrivare all’obiettivo dell’esecutivo, che mirava ai cinquemila casi giornalieri. A dicembre finisce il confinamento, riaprono gli esercizi commerciali ma il coprifuoco è anticipato alle 18. Le strutture turistiche, i luoghi della cultura, dello sport e la ristorazione, che avrebbero dovuto riaprire per Natale, sono tenuti a restare chiusi fino ad almeno la metà di febbraio. Il tele-lavoro resta la regola, tuttavia sempre più datori di lavoro pretendono il rientro in ufficio. Sono molti i lavoratori che accettano il rientro pur di spezzare l’isolamento casalingo. A incoraggiare questa lenta ripresa del lavoro in sito, malgrado le raccomandazioni del governo, è anche la scuola: laddove il protocollo autorizza fino a trentacinque studenti in una classe, molti luoghi di lavoro si sentono anch’essi incoraggiati a riprendere le normali attività.
Frattanto, il ministero elenca i numeri dell’infezione negli istituti scolastici, le percentuali sono sotto l’uno per cento. Non sono d’accordo alcuni giornali, come il collettivo Mediapart, che ritiene che i numeri siano più alti. A scuola corrono voci d’istituti che continuano ad andare avanti anche con le classi decimate. Si dice che molti ragazzi, pur positivi al tampone, continuino a venire a scuola. Le ragioni sono diverse: i contesti familiari difficili, le necessità lavorative dei genitori, lo stigma sociale. A ogni modo, la strategia francese ha un obiettivo chiaro: mettere tutto in opera perché il lavoro, in ogni settore, sia perfettamente operativo. Per ottenere questo risultato, la strategia si organizza su due assi: scuole aperte e screening gratuiti. Su quest’ultimo punto, l’esecutivo ha investito una cifra imponente. Sono stati allestiti centri di depistaggio ovunque, anche improvvisati (cinema, aeroporti, poste, palestre, piscine, ecc.). I test PRC e antigenici sono gratuiti e senza bisogno di ricetta medica, senza limiti di quantità. Il risultato supera raramente le ventiquattro ore per i test PRC. La scuola invece è il ventre molle della Francia. Gli istituti pubblici non hanno ricevuto alcun tipo di sovvenzione per far fronte all’epidemia: mancano gli spazi e gli insegnanti per garantire i doppi turni, perciò le classi restano spesso con tutti gli effettivi o, semplicemente, l’altra metà non segue i corsi; nessun aiuto economico alle famiglie per garantire gli strumenti per seguire i corsi a distanza, per i quali anche le scuole mancano di attrezzature all’altezza. Inoltre, la proposta di fare lezione in aula e contemporaneamente a distanza, proposta dal ministro, è impossibile da realizzare, soprattutto in situazioni di marginalità economica e sociale. Le mense non sono adatte per garantire il distanziamento, si chiede perciò ai ragazzi di tornare a casa per pranzo, se possono. Infine si resta smarriti dinanzi al “protocollo rinforzato”, che prevede di aprire le finestre anche in giorni come questi, dove sulla Manica si registrano nove gradi sotto lo zero, benché in molte aule il riscaldamento non funzioni.
In conclusione, la strategia ha dei costi molto alti in termini di salute ordinaria e psichica. Un numero relativamente alto di casi, ormai attestati oltre i ventimila, stagna nelle statistiche nazionali da due settimane, con le rianimazioni in grande difficoltà, nonché il venti per cento delle operazioni previste rinviato a data da destinarsi. Poi, c’è l’aspetto sociale e psicologico. Da tre mesi e mezzo si può uscire solo per lavorare. Le uniche evasioni sono possibili nei parchi pubblici, purché entro le 18 si rientri a casa. La popolazione è autorizzata esclusivamente a lavorare e questo comincia a pesare sullo spirito di molti. Chi scrive ha la fortuna di poter esercitare la sua socialità a scuola, mentre per molti il tele-lavoro è ormai l’abitudine da oltre sei mesi. Nonostante il contatto quotidiano con i ragazzi, il rapporto con il lavoro è cambiato. I colleghi appaiono sempre più stanchi. Le loro espressioni non cambiano mai, si legge una piena tristezza nei loro occhi. Anche quando si ride, lo si fa sbiaditamente. I ragazzi, dapprima spenti e passivi, col passare del tempo sono diventati inquieti. Hanno un’energia enorme intrappolata, oppressa. L’aula è l’unico luogo dove liberarla, sebbene canalizzata dai professori, ordinata nelle caselle necessarie perché una classe non diventi un bazar, soprattutto in questi tempi di distanziamento sociale.
A rendere più crudele la situazione è anche il gioco al rinvio dell’esecutivo, che ha allontanato ogni speranza di apertura nelle prossime vacanze invernali, nella seconda metà di febbraio. Si parla di riaprire i ristoranti a Pasqua, i teatri e i cinema a settembre, i musei per l’estate. Sull’umore della popolazione gioca un ruolo importante il rallentamento della somministrazione dei vaccini e la loro dubbia efficacia su alcuni ceppi del virus. Si perde la speranza e con essa la pazienza, e ne consegue che le regole imposte sono sistematicamente eluse con feste in casa, rave notturni in fabbricati abbandonati, ristoranti in attività clandestina. Un mondo che continua a vivere senza poter rinunciare alla socialità.
Se in Italia qualcuno vede in Macron un esempio per la gestione epidemica, la situazione da questo lato delle Alpi è particolarmente affannosa. La paura di vivere in una società orwelliana, diretta da poche ma ristrette regole, votata esclusivamente al lavoro, prende forma nella fantasia di molti. Tra qualche giorno cominceranno le vacanze invernali, molti tra i ragazzi sarebbero partiti, l’idea li faceva fibrillare già nei giorni precedenti la fine della scuola. Non quest’anno, dove sembra quasi che non vogliano che la scuola li abbandoni. (alessandro cocorullo)
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