Continuiamo la serie di racconti di persone sotto sfratto a Roma per cui l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite ha chiesto una sospensione. A maggio abbiamo raccontato la storia di due artisti di via Margutta, vicino piazza di Spagna; ma oggi gli sfratti riguardano soprattutto la periferia. Nel 2020, l’anno del “restate a casa”, sono state sfrattate mediamente ventisei famiglie al giorno sebbene ci fosse il blocco dei provvedimenti di sfratto per morosità. Nello stesso anno, a Roma sono state sfrattate seicento famiglie. Dietro questi numeri ci sono storie che spesso hanno dell’incredibile, ma che non rappresentano l’eccezione.
Riportiamo qui un’intervista a Jaime Vallejos, del quartiere Alessandrino, reso invalido da un incidente per cui non ha ricevuto nessun indennizzo, e attualmente sotto protezione Onu. La storia illustra bene come una situazione quasi disperata possa cambiare improvvisamente grazie all’attivazione di una persona che ha avuto il coraggio di chiedere aiuto, e grazie a una rete di solidarietà che ha impedito uno sfratto ingiusto, trasferendo il problema sulle istituzioni. Oggi l’Onu ha sospeso lo sfratto e richiede allo Stato italiano di ottemperare agli impegni presi dotando ogni persona in difficoltà di un alloggio adeguato ai suoi bisogni.
Il quartiere dove vive Jaime, arrivato quindici anni fa dal Perù, prende il nome dall’Acquedotto Alessandrino: sin dal dopoguerra migliaia di famiglie di migranti delle campagne e del meridione vi si autocostruirono case e baracche, formando un “borghetto” adiacente alla borgata fascista del Quarticciolo e al quartiere di Centocelle. Come molte altre palazzine della zona, anche la sua è costruita con materiali poveri e di risulta, eppure nel tempo molte di queste case sono state accaparrate da piccoli speculatori che le istituzioni non mancano mai di tutelare. Senza picchetto antisfratto e senza protezione Onu, Jaime sarebbe finito in strada o in un centro di emergenza per senza fissa dimora. In Italia, come in molti altri paesi, la casa non è un diritto tutelato, ma una merce che ti meriti solo se sei un soggetto produttivo che può pagare.
Jaime Vallejos: Delle volte penso che se non c’erano tutte quelle persone, io quel giorno sarei dovuto andare fuori. Quando non sono riusciti a entrare sono arrivati ancora più poliziotti e hanno iniziato a chiedere i documenti di identità a tutti. Poi hanno chiesto i rinforzi, sono venuti due pattuglie, mi sembra. Ci stava il gruppo di noi che dicevano che non potevano mandarmi via perché stavo male, spiegando la situazione, no? Loro dicevano: “Ma voi siete avvocati, rappresentanti di lui, che lui non parla?”. Loro hanno risposto “Siamo venuti a dargli un sostegno. Non potete mandarlo via così perché il proprietario ha parecchi appartamenti, non ha bisogno di questa casa”. Ma i poliziotti dicevano “Questo non è problema tuo. Il proprietario può avere cento appartamenti. Ma questo è uno sgombero. Dovete andare via”. [Invece] sono rimasti lì, e l’ufficiale giudiziario ha visto la situazione che era complicata.
C’era già tanta gente di fuori nelle strade che guardavano che succedeva perché si era fatto un picchetto e si vedeva. Hanno avuto molta difficoltà quelli della polizia, molta difficoltà! Anche il figlio del proprietario ha detto “No, io non voglio quel cartellone di fuori. C’è la gente qua. Io non voglio questo che la polvere si solleva così. Perché hai fatto questo?”. Quindi hanno avuto una difficoltà enorme per procedere. Anche l’ufficiale giudiziario ha detto che non si può fare lo sfratto così, con tanta gente lì. Abbiamo fatto un accordo per lasciarmi altri trenta giorni. Il figlio del proprietario ha detto: “Va bene, però non fare più tornare loro”. Era il 13 novembre: abbiamo fatto un accordo per un mese, il 13 dicembre dovevo andare via. E in quel periodo abbiamo fatto la richiesta all’Onu, per chiedere la sospensione, e l’Onu l’ha sospeso, lo sfratto. Il Tribunale ha risposto tre giorni prima dello sfratto. Il venerdì sono andato a parlare con l’avvocata, e già avevo le carte che lo sfratto era stato fermato. L’avvocata mi ha dato i documenti e mi ha detto di portarli alla questura che non lo sapeva. Sono andato alla questura con i documenti, il poliziotto era incuriosito. “Dammi i documenti”, mi ha detto. Ha letto, piano piano, ha letto tutti e quattro i fogli. Poi è rimasto scioccato.
Iniziamo dal principio. Raccontaci la tua storia.
Jaime Vallejos: Sono del Perù, sono arrivato in Italia nel 2007 e dopo ho fatto venire i miei figli e la loro mamma. Sto lavorando qua in Italia da tanti anni. Prima stavo in un affitto nella Prenestina, tre anni, quattro anni. Ho deciso di trasferirmi qua in Italia perché in quel tempo c’era un flusso di lavoro, tramite l’ambasciata, sono rientrato in un flusso di lavoro. Facevo il facchino in un magazzino sulla Tiburtina. Avevo un contratto regolare, si guadagnava bene. Ma il turno era sempre la sera. Attaccavo alle sedici e si finiva alle 2, alle 3 del mattino. Dipende da quante merci c’erano: se c’era poca merce andavamo via all’1, se era di più finivamo alle 3 del mattino. Sono stato lì tre anni. Nel frattempo ho fatto tutti i requisiti per il ricongiungimento familiare per far venire mio figlio, quello piccolo, e la madre. Poi è venuto mio figlio maggiore, ma non si è trovato bene ed è tornato in Perù. Poi nel 2008/2009 mi sono iscritto ad un corso per fare l’Oss [operatore socio-sanitario]. Nel 2010 ho cambiato lavoro e ho iniziato presso una cooperativa. Ho cambiato perché mi ero stufato di fare il magazziniere perché era sempre la notte. Tornavo alle 3, dopo non prendevo sonno fino alle 5. Dopo la mattina dormivo, scambiavo tutto l’orario.
Dove abitavate?
Jaime Vallejos: Abitavamo sulla Prenestina. Quando eravamo solo noi tre eravamo sulla Prenestina. Poi quando è arrivato mio figlio grande e mio padre ci siamo trasferiti qui all’Alessandrino, nell’appartamento di fronte. Poi ho chiesto di trasferirmi di fronte, in questo dove sto ora. Prima quando eravamo tutti era difficoltoso perché nella stanza grande dormiva mio padre e i due nipoti. Nell’altra stanza dormivamo io e la mamma dei miei figli. Erano due stanze. Certo una stanza era più grande, l’altra era più piccola. Il proprietario veniva tutti i mesi a prendere i soldi dell’affitto in contanti. Lui ha detto che preferiva non ricevere bonifico. Dopo con gli anni mi ha spiegato bene il motivo: non voleva che si rintracciassero i soldi. Io gli ho detto che preferivo fare il bonifico perché parecchie volte avevo problemi per il lavoro. Un giorno gli ho chiesto se aveva solo questi due appartamenti. Lui mi ha detto “Ce ne ho un sacco di appartamenti, perché io ero fabbro, facevo dei lavori per il Vaticano”. Non so se è vero quello che mi ha raccontato, mi ha detto che loro lo hanno facilitato dandogli degli appartamenti. Glie li avevano regalati, forse un compenso per un lavoro.
Quanto pagavi di affitto?
Jaime Vallejos: Qua ho sempre pagato settecento euro. All’epoca era molto, di solito settecento euro si pagavano per tre stanze. Ho cercato altri appartamenti ma, dopo che mi chiedevano le buste paga, mi dicevano che non volevano stranieri. Questo appartamento l’ho trovato tramite un amico. Il proprietario voleva due buste paga e ha controllato che avessi i documenti di soggiorno in regola. Qua nell’appartamento di fonte sono passati tanti inquilini, tanta gente. Rimanevano sei, sette mesi. Poi quando arrivava l’inverno se ne andavano perché c’era la muffa. Sono palazzine vecchie. Proprio questo armadio è il terzo che ho preso perché i mobili durano due anni, tre anni. La muffa viene dal muro, pure in bagno c’è la muffa. Una signora italiana che viveva qua di fronte gli voleva fare causa, perché ha detto che i mobili si erano rovinati e lei si è ammalata. Anche io gli dicevo spesso al proprietario che c’era la muffa, ma lui mi ha sempre detto che non può fare niente perché è un problema di fuori, che servirebbe il rivestimento. Lui mi dice che dobbiamo tenere aperto. Però poi bisogna chiudere, fa freddo. Ti pago l’affitto, perché devo tenere tutto aperto con questo freddo dell’inverno, come faccio? Io ho anche chiesto la casa popolare nel 2014. Quella volta mio padre è andato alla Caritas, perché c’era una signora che parlava spagnolo, e gli ha suggerito di andare al Caf a fare richiesta perché eravamo un nucleo grosso. L’ho aggiornata la richiesta, ma ancora nulla.
Perché hai perso il lavoro?
Jaime Vallejos: Nel 2017 avevo problemi con mamma di mio figlio, lei è andata via, e io sono rimasto solo con mio figlio e mio padre. Con un solo stipendio, tutte le spese di casa per me erano difficili, dovevo prendere altri lavori, perché papà non lavorava. Facevo l’Oss e lavoravo privatamente. Ero molto carico di lavoro. Un giorno sono andato a lavoro e ho fatto un incidente, vicino alla Togliatti, con un’altra macchina. Era febbraio 2018, di mattina, era verso le 5. Ho fatto l’incidente, con la moglie di un carabiniere, ma non era colpa mia. Ci siamo scontrati, dopo ho chiamato l’ambulanza: prima per lei, dopo per me. Quando sono arrivato in ospedale mi hanno detto di non muovermi perché avevo delle fratture vertebrali. Mi hanno mandato a casa, mi hanno dimesso con un busto, mi hanno detto di restare sempre a letto, però non mi hanno detto quanto tempo. Il giorno dopo sono venuti qua a casa il carabiniere con la moglie, e hanno portato i fogli, il CID. Non ho mai fatto incidente qua in Italia, neanche in Perù; e ho firmato. Poi ho scoperto, tramite un’avvocata della Caritas, che loro non volevano assumersi la responsabilità. E quindi non mi sono arrivati i soldi dell’incidente. Nei giorni dopo, ho fatto venire un medico qua, privato, mi ha detto che avevo cinque fratture. Sono rimasto qua a letto tutto febbraio, marzo, aprile, tre mesi.
A giugno ho iniziato a fare la fisioterapia, e sentivo dei dolori forti, lancinanti. Neanche potevo fare la torsione. Per dormire era impossibile. Dovevo stare così, se mi mettevo di fianco, dolore. Il dottore mi ha detto: “Non puoi più fare il lavoro che facevi prima, sollevare la gente, cambiare… non lo potrai fare mai più. Devi cercarti un altro lavoro, in un ufficio”. Ho fatto qualche mese di disoccupazione, l’Inps comunque mi ha pagato. Ho fatto tre visite e mi hanno valutato il 49% di invalidità. Loro hanno detto che non potevano dare più punti perché era la prima volta che andavo, e dopo la fisioterapia potevo peggiorare o migliorare. Quindi non prendo la pensione di invalidità.
Non lavorando come hai fatto a pagare l’affitto?
Jaime Vallejos: Fino a gennaio del 2019 l’ho pagato; da febbraio non ce l’ho fatta più a pagarlo perché non lavoravo. Subito il proprietario mi ha fatto lo sfratto. Subito. Lui lo sapeva come stavo, veniva qua a prendere i soldi, entrava nella stanza, si sedeva e mi guardava: “Vabbè, mi dispiace, ma sei giovane vedrai che guarirai”. Si prendeva i soldi e se ne andava. Poi mi ha fatto lo sfratto, subito mi è arrivata una lettera urgente, comunicazione urgente. Lui è venuto e mi ha detto che fra due mesi avrei dovuto lasciare libero l’appartamento. Ma io gli ho detto: “Ma come faccio ad andare via? Non posso”. Sono andato dall’avvocato della Caritas mi ha detto “Vabbè, farà lo sfratto, comunque avrei sei mesi, sette mesi per restare, fino a dicembre 2019”. Nel 2020 sarei dovuto stare fuori di casa. Ero sempre bloccato, sempre fisioterapia. Non potevo neanche mettermi le scarpe. Papà doveva venire, doveva togliermi lui le scarpe, per mettermi le ciabatte, per fare la fisioterapia. Delle volte io avevo un po’… come depresso. La depressione, che dopo che stavo bene, dopo mi ritrovo che stavo male. Il dottore mi ha detto che poteva andare male. Un giorno mi ha trovato che stavo piangendo. La dottoressa mi ha detto: “Se stavi sulla sedia a rotelle, come sarebbe il tuo pensiero?”. Comunque sono andato a fare fisioterapia e ho migliorato molto. Ma non potevo lavorare. Lo sfratto ha continuato, poi per fortuna nel 2020 c’è stato il blocco. Il proprietario prima del Covid è venuto, ha bussato alla porta. A dicembre 2019 diceva: “Guardate, dovete andare via, prendere tutte le cose per andare via. Sotto al ponte, non lo so dove, ma dovete lasciare l’appartamento che viene la forza dell’ordine e vi manda via”. Poi nel 2020 non l’ho più visto.
Cosa è successo durante il 2020?
Jaime Vallejos: Abbiamo preso il Covid. Mio padre è andato in ospedale, è entrato bene, solo con la febbre. Non aveva altri problemi, mancanza di aria. In quel periodo non sapevano come gestirlo, subito ti portavano in ospedale. Lui, visto che già era in difficoltà con i polmoni, è andato in ospedale. È entrato il 14 di ottobre e in cinque giorni è peggiorato molto. Dopo hanno detto che lo intubavano: il 21 lo hanno intubato, ed è morto il 30 di ottobre. Non ho potuto parlare più con papà. E quindi mi ha preso l’attacco di ansia, mi mancava l’aria per la chiamata che ho avuto il giorno prima, due giorni prima, e io pensavo che era il Covid. Sono andato a finire in ospedale; lì mi sono fulminato (contagiato da Covid, ndr). Perché ci stanno dieci persone lì e tutti stavano male. Ormai ero dentro, non poteva uscire. Sono peggiorato, dicevano che mi dovevano intubare, le ho detto che no. Mi hanno lasciato nella stanza, non è venuto nessuno. Eravamo in due. Anche quando uno si sentiva male, avevano paura, non so come funziona adesso, ma non volevano entrare. Poi sono migliorato e sono tornato a casa. Ma adesso utilizzo il 60% dei polmoni.
Il proprietario ha continuato a cercati per lo sfratto?
Jaime Vallejos: Nel 2021 il proprietario mi faceva sempre chiamate, chiamate del telefono. Mi diceva che dovevo andare via. L’ufficiale giudiziario era venuto a gennaio e febbraio, prima del Covid, e ha visto come stavo. Comunque poi c’è stato il blocco fino a settembre del 2021. Quando è tornato l’ufficiale giudiziario ha provato a rinviarmi lo sfratto il più possibile. A settembre me l’ha rinviato al 25 ottobre. Mi ha detto che per ottobre lo sfratto sarebbe stato esecutivo con le forze dell’ordine. Ma il 25 la polizia non è potuta venire perché c’era il G20 in città. Quindi me lo hanno rinviato al 13 novembre. Qualche giorno prima è venuta la polizia a casa e mi hanno detto che il 13 avrei dovuto lasciare l’appartamento. Mi hanno detto: “Togliamo la serratura, chiudiamo la casa.”
Come ti sei sentito in quel momento?
Jaime Vallejos: Ho avuto un’angoscia totale perché non sapevo cosa fare. Poi la domenica, la sera, stavo guardando il cellulare, ho visto l’articolo di Roma Today. C’era uno sfratto a via Filippo Parlatore della signora Erminia, e ho letto che c’era l’Asia che aiutava le persone sotto sfratto. Quindi l’indomani alle 8 sono andato lì a vedere, e lì ho cominciato a chiedere a quelli che sono venuti al picchetto, e ho parlato della mia situazione. Ho spiegato che anche io avrei avuto lo sfratto il venerdì successivo. Ho raccontato tutto, ho fatto vedere il documento degli sfratti. Mi hanno detto che mi aiutavano per venerdì. Dopo questo gruppo antisfratto mi ha aiutato a fare un picchetto per venerdì 13: hanno fatto il picchetto alle sette di mattina, sono venuti in tanti, trenta persone. Quindi il figlio del proprietario si è reso conto che c’era una situazione non normale, perché c’era molta gente qui. Guardava un po’ tutto, la gente che c’era qua al cancello. Era insieme al fabbro e al medico. Poi è venuta la polizia, ma dopo quando sono venuti qua non potevano entrare perché era chiuso il cancello. Il cancello era chiuso perché erano tutti lì, e non lasciavano entrare.
Se non cercavi un aiuto cosa sarebbe successo secondo te?
Jaime Vallejos: Durante lo sfratto sempre sono stato con la paura, con i pensieri. Però quando sono venuti tutti quanti da me, mi hanno aiutato davanti la polizia, ho sentito che non ero da solo e che ero con tanta gente che mi ha aiutato. Non ho avuto paura. È importante cercare aiuto perché c’è gente che può aiutarci. Non siamo soli. C’è gente che vuole aiutarci per le situazioni difficili che la vita ci mette di fronte. Alle persone capita di non trovare lavoro perché non c’è in questo periodo. Altri non lo trovano per problemi di salute. Adesso anche io sto aiutando altri, così come hanno aiutato me. Posso dire alla gente in difficoltà di fare qualcosa, di raccontare, perché delle volte, quando uno sta così si lascia cadere proprio. Io penso delle volte che è mio padre che mi ha fatto aprire il cellulare e trovare quella notizia. Io ero in pensiero, mi ha detto: “Domani è lunedì, poi arriva il venerdì, come faccio?”. Ho guardato il cellulare, e mi è uscito l’articolo sul cellulare. Che c’era un gruppo che mi poteva aiutare. Se non era per il picchetto ero fuori. Hanno fatto il picchetto, hanno guadagnato trenta giorni proprio per chiedere all’Onu. Se non c’erano quei trenta giorni, dovevo andare via. (chiara davoli)
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