Con una lucida rassegnazione che mi colpì molto, una delle prime cose che disse Giovanni, il papà di Davide Bifolco, quando andai a parlargli della mia idea di scrivere un libro sulla vicenda legata alla morte del figlio ucciso da un carabiniere, fu: «Aiutaci a raccontare la verità. Perché la giustizia, quella del tribunale, non l’avremo mai».
Sono tanti i casi, nella storia del nostro paese, in cui verità e giustizia – parole il più delle volte messe vicine in una formula di comodo – camminano su binari separati. Da Ustica alla strage di Bologna, dall’Italicus a piazza Fontana, le sentenze dei processi hanno spesso raccontato una storia limitata rispetto a quella che emergeva dal dibattito pubblico, anche grazie al contributo di importanti e documentate controinchieste. Un discorso ancor più valido se parliamo di cittadini morti per mano di un appartenente alle forze dell’ordine.
Nel 1971 l’inchiesta Pinelli. Una finestra sulla strage, di Camilla Cederna, ebbe un impatto talmente forte sull’opinione pubblica – raccontando pezzi di verità che le forze di polizia provavano a insabbiare – che l’autrice fu addirittura accusata di essere la “mandante morale” del successivo omicidio del commissario Calabresi. Quattro anni dopo Il sovversivo. Vita e morte dell’anarchico Serantini, di Corrado Stajano, ricostruiva in maniera minuziosa gli eventi che avevano portato alla morte in prigione del giovane libertario, aprendo un dibattito su un caso ormai archiviato dalle inchieste giudiziarie. Oggi, indipendentemente da ciò che è scritto agli atti, non mancano le possibilità, anche grazie a quei documenti, di avere un quadro più organico di quelle vicende.
Da qualche giorno è visibile su Netflix e nelle sale cinematografiche Sulla mia pelle, film che racconta gli ultimi giorni di vita di Stefano Cucchi, morto nel reparto di medicina protetta dell’ospedale Pertini nell’ottobre 2009, vittima di un pestaggio (frattura della mascella, fratture multiple alla colonna vertebrale, successiva emorragia alla vescica) mentre era sotto la “custodia” dello Stato, ma per il quale lo Stato non ha ancora accertato i responsabili. Sebbene risulti prudente in alcuni passaggi delicati – anche a causa della recente riapertura del processo penale –, la pellicola di Cremonini è un contributo fondamentale per far conoscere al grande pubblico la storia di Stefano, e di tutto quello che gli è capitato da quando i carabinieri hanno messo le mani su di lui.
Il film non fa sconti alla complessa figura di Cucchi, ai delicati rapporti con i suoi familiari e alle sue debolezze, scivolando però su qualche semplificazione. È il caso dell’udienza che convalida l’arresto di Stefano, ricostruita in un’atmosfera resa avulsa dal suo contesto (enfatizzando in tal modo le colpe del giudice rispetto a quelle del sistema procedurale), ovvero da quella modalità da “catena di montaggio” con cui si svolgono questo genere di udienze. Sono queste semplificazioni a mostrare il limite principale di questo tipo di film (si veda anche Diaz, di Daniele Vicari), che a differenza delle inchieste di qualche decennio fa – un po’ per esigenze di sintesi, un po’ per scelta – finiscono per avallare la “legge della mela marcia”, accentuando le responsabilità di pochi e diluendo quelle di tutti gli altri, nel caso specifico dell’intero sistema poliziesco, carcerario e giudiziario.
È vero, nel film si vede il corpo del moribondo Stefano passare davanti a tante persone, la maggior parte delle quali restano indifferenti alle sue condizioni, o si fanno bastare un “no” da parte dell’arrestato alle loro offerte di “aiuto”. Eppure non è abbastanza per spiegare come quasi centocinquanta persone abbiano girato la testa dall’altra parte di fronte a un uomo in condizioni fisiche gravi, per non compromettersi rispetto a un sistema omertoso e rancoroso, o semplicemente per vigliaccheria. Il film omette alcuni elementi emersi durante il processo che farebbero percepire come ben più gravi le responsabilità morali e materiali di altre persone che non siano i carabinieri che hanno colpito Stefano a morte. È il caso del personale medico, che dopo avergli applicato il catetere non si cura di controllarne il funzionamento: se Stefano muore, è anche perché la sua vescica, al momento della morte, era talmente piena e dilatata da influire sul funzionamento cardiaco. O degli agenti della penitenziaria, di cui un paio vengono mostrati come appena un po’ più prepotenti, mentre alcune testimonianze parlano di un secondo pestaggio ai danni di Stefano, nelle celle di sicurezza del tribunale. Ancora, la vicenda legata alla persona che era con Stefano in auto al momento del fermo, che Cucchi credeva amico fidato e che invece testimonia in maniera dettagliata ai suoi danni identificandolo come spacciatore. Se i carabinieri picchiano in quel modo feroce Cucchi, tra l’altro, è per la delusione di non aver trovato la quantità di droga che erano convinti di trovare, e che sarebbe stata decisiva a incastrarlo per spaccio. Una condotta emotiva fuori da ogni logica “professionale”, che ricorda la concitazione spropositata con cui due agenti si misero all’inseguimento di Davide Bifolco, scambiandolo per un giovane latitante che da tempo si prendeva gioco di loro, o la violenza con cui altri colpirono Federico Aldrovandi, che aveva reagito alle loro percosse.
Da questo punto di vista, il film segue quello che è stato l’impianto di tutta la prima parte del processo: le colpe sono da attribuire per la stragrande maggioranza ai carabinieri autori del pestaggio; gli altri, al massimo, sono imputabili, come lo stesso Stefano accusa durante le sue ultime ore, di indifferenza e codardia. Chi conosce gli atti del processo però sa che non è così. Stefano Cucchi è stato ucciso per un barbaro pestaggio avvenuto in una caserma, ma è stato ugualmente ucciso da tutte quelle centocinquanta persone che l’hanno incontrato da quel momento fino alla sua morte, e che hanno avuto non solo moralmente, ma anche materialmente, una parte in questa vicenda. Cucchi è morto non solo per la bestiale violenza di uomini in divisa, ma anche per la superficialità dei magistrati, l’ottusità burocratica di chi non lascia per cinque giorni ai genitori la possibilità di fargli visita, la strafottenza del suo avvocato d’ufficio, l’incompetenza e mancanza di coraggio del personale medico, la solerzia del funzionario (anche di lui non c’è traccia nel film) che si adopera personalmente per far si che Stefano venga, dopo le percosse, immediatamente trasferito al Pertini in totale isolamento, all’interno di quello che il procuratore generale Rubolino ha definito “reparto lager”.
Stefano Cucchi, tossicodipendente, “ultimo” non per nascita ma per biografia, è stato ucciso per il sentimento di impunità che grandi e piccoli poteri di questo paese non perdono occasione di ostentare, quotidianamente. Se anche il film potrà essere un contributo a far conoscere la sua storia, e a far sì che altre delle tante vicende che gli assomigliano non si verifichino ancora, alla verità dei fatti questa pellicola non rende giustizia. (riccardo rosa)
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