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16 Marzo 2016

Tre anni di commissario. La paralisi del porto di Napoli aspettando la riforma

Paolo Bosso antonio basasile, autorità portuale, commissario, genova, la spezia, napoli, porto di napoli, regione campania, trieste
(archivio disegni napolimonitor)
(archivio disegni napolimonitor)

C’è stato, ieri, un compleanno speciale al porto di Napoli. Era il 15 marzo del 2013 quando l’allora ministro dei trasporti del governo Monti, Corrado Passera, firmava il decreto di nomina per Luciano Dassatti, già presidente dell’Autorità portuale. L’11 dicembre dello stesso anno lo ha succeduto Felicio Angrisano, allora comandante delle capitanerie, seguito il 30 aprile 2014 dal docente Francesco Karrer, ex presidente del consiglio superiore dei lavori pubblici. Infine, esattamente un anno dopo, è arrivato Antonio Basile, allora direttore marittimo della Campania, oggi ancora commissario. Tre anni di commissariamento, quattro commissari.

Impossibile stabilire se sarà l’ultimo: solo una volta approvata la riforma nazionale dei porti si potrà iniziare a parlare ragionevolmente dei tempi. Al momento, dopo l’approvazione in consiglio dei ministri il 20 gennaio, la riforma sta rimbalzando tra conferenze stato-regioni e consiglio dei lavori pubblici. Per di più il governo deve approvare anche il piano nazionale della logistica, che potrebbe sembrare la stessa cosa ma non lo è. Insomma, la situazione per Napoli, come per tutti gli altri quindici porti commissariati su ventiquattro, è al momento di snervante attesa, anche se lo scalo partenopeo vive una paralisi più grave.

«In quello di Genova è stata avviata la raccolta differenziata; a Trieste si fanno accordi commerciali con l’Iran. Si abbassano i costi: canoni, tasse di ancoraggio, tariffe dei servizi tecnico-nautici, interventi fondamentali per essere appetibili e competitivi. Qui a Napoli non si è fatto nulla», spiega Gennaro Imperato, segretario Fit-Cisl dello scalo campano. Un documento della Confcommercio di un paio di settimane fa è implacabile: 9,54 euro a metro quadro per le concessioni demaniali, tantissimo considerando l’economica Trieste (1,82 euro a mq) e la “cara” Livorno che comunque, insieme a La Spezia, non supera i 6,50 euro. Genova offre 5,60 euro. Anche porti più vicini come Bari e Gioia Tauro hanno tariffe molto più basse. Tutti questi porti, eccetto La Spezia, sono commissariati. A fine luglio terminerà la cassa integrazione per i dipendenti dei terminal container Conateco e Soteco, oltre trecentosessanta lavoratori. «Si sta prefigurando una calda stagione estiva e a breve avvieremo nuove manifestazioni», commenta Imperato. Ma il problema non è tanto il commissariamento. In effetti, dopo tre anni, concorrere le cause al solo commissariamento sarebbe superficiale, considerando quello che fanno gli altri scali. Un ultimo esempio è Civitavecchia. Commissariato da giugno dell’anno scorso, ha lanciato negli ultimi mesi un bando da duecentocinquanta milioni di euro per un terminal container e avviato con l’armatore partenopeo Grimaldi una nuova linea ro-pax verso la Sardegna.

Dov’è allora il problema a Napoli? Cos’è che non funziona? La tentazione di affermare che sia l’amministrazione portuale a essere incapace è forte. In passato è già stato fatto e non sarebbe tanto lontano dal vero continuare a sostenerlo. Ma sarebbe un’affermazione superficiale, perché anch’essa parziale: semplicemente non è la sola causa della paralisi.

Guardiamo i fondi che dal 2011 il porto di Napoli ha ottenuto dall’Europa: trecentotrentacinque milioni di euro, il “Grande progetto”. In quasi cinque anni ne sono stati spesi a stento due per sole analisi preliminari sui fondali. Un dato complicato da verificare, tra la propaganda degli uffici stampa e l’incongruenza delle analisi, ma sostenuto sia dagli operatori portuali che dai tecnici consulenti. Sono stati lanciati diversi bandi per ristrutturare palazzi, rifare le strade, le fogne e le ferrovie, ma neanche uno si è trasformato in cantiere. Questo perché vincere progetti è facile, ottenere soldi una passeggiata, quello che è difficile e spenderli in tempo e bene, trasformarli in bandi, smarcare i ricorsi e negoziare con gli scontenti, quello che l’Autorità portuale non riesce a fare. Hai voglia a crogiolarsi nella capacità di attirare fondi: un vanto utile alla sola campagna elettorale, e alquanto ridicolo considerando che l’Europa i soldi li dà. Quello su cui non transige sono le scadenze. Non ci si può vantare di una presunta capacità di riprogrammare i fondi se poi la regione non è capace di collaborare con l’Autorità portuale per cantierarli.

La causa della paralisi del porto di Napoli è l’atomizzazione imprenditoriale e istituzionale, che dopo tre anni di commissariamento non ha fatto che acuirsi. L’Unione industriali vuol dire la sua sul Grande progetto, tenendo conto che la regione Campania non sarà d’accordo e litigherà col comune sulle competenze. Poi ci sono le associazioni degli operatori portuali (agenti marittimi, spedizionieri, eccetera) che non mancano mai di sottolineare la loro condizione di vittima. Senza dimenticare i sindacati, forse la categoria più moderata in questo marasma, ma comunque incapace di dialogare efficacemente.

Il cluster portuale napoletano, ossessionato dalla rappresentanza, non rappresenta più Napoli. L’Autorità portuale non ha più forza negoziale. La regione è distratta dalla campagna elettorale e dalle sentenze giudiziarie. Ognuno va per conto proprio, terrorizzato dalla possibilità che un nuovo piano regolatore portuale – quello vecchio risale al 1958 – possa scomodare queste piccole, ma proprio piccole, rendite di posizione. (paolo bosso)

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