Don Garden, australiano e storico dell’ambiente come me, mi raccontò una volta del suo brusco impatto con il rischio d’incendi in Australia. Poco dopo essersi trasferito da Melbourne a Mount Macedon nel 1983, era dovuto scappare a gambe levate da due enormi incendi in veloce successione in cui perse tutto ciò che possedeva (inclusi due manoscritti quasi completati). Quegli incendi sarebbero passati alla storia come i fuochi del mercoledí delle ceneri, in cui bruciarono circa dodicimila chilometri quadrati di foresta tra gli stati di Victoria e dell’Australia del Sud, e in cui morirono settantacinque persone. La maggior parte degli incendi avvennero nel giro di ore, quando le alte temperature si combinarono con venti a più di cento chilometri orari. Diventarono tristemente famosi nelle discussioni sulla gestione delle emergenze incendi e portarono a cambiamenti nelle strategie di prevenzione e nei regolamenti edilizi a livello statale e federale (per esempio, più manutenzione dei piloni dell’elettricità, creazione di un sistema coordinato di comunicazione per i pompieri, maggiori risorse per previsioni meteorologiche più accurate).
Molti anni dopo, nel febbraio 2009, ero con la mia famiglia al sicuro nel centro di Melbourne, mentre poco più a est alti incendi si stavano consumando spinti da temperature fino a quarantasei gradi centrigradi e venti oltre i cento chilometri orari. Gli incendi del sabato nero furono innescati da alcuni piloni dell’elettricità crollati e da un mozzicone di sigaretta. Circa quattrocentocinquantamila ettari di territorio bruciarono, ci furono cento e settantatré morti e tremilacinquecento edifici distrutti. Fu istituita una commissione d’inchiesta, che incolpò le linee elettriche difettose come principale fonte d’innesco. L’azienda elettrica responsabile ammise gli errori e negoziò un accordo di compensazione dei danni. L’intera borgata di Maryville era stata rasa al suolo dal fuoco. Inoltre, uno studio scientifico successivo dimostrò che i cambiamenti climatici antropogenici avevano aumentato la probabilità e il rischio d’incendi nell’Australia sud-orientale, attraverso l’aumento della temperatura e tramite l’oscillazione meridionale di El Niño, che aveva causato siccità e riduzione dell’umidità.
Ogni anno ci sono incendi in Australia. Tra i maggiori quelli nel Queensland del 2018 e nel Nuovo Galles del Sud tra il 2013 e il 2014. In ogni caso, le misure d’emergenza, le procedure e i regolamenti vengono rivisitati e aggiornati per cercare di minimizzare il rischio per le persone. Ma il 2019 è stato l’anno più caldo e secco da quando sono iniziate le misurazioni. E dal novembre 2019 al gennaio 2020, abbiamo fatto esperienza di incendi di diversa magnitudine. Ci sono state già quaranta persone che hanno perso la vita, più di seimila proprietà distrutte completamente e un’area grande come l’Inghilterra e il Galles che è arsa in quattro stati (diciotto milioni e mezzo di ettari finora) – con fuochi più contenuti in altre parti, al momento diffusi a sud di Canberra e nel territorio della capitale autraliana. Gli effetti sulla biodiversità, sugli habitat e sulle popolazioni di animali selvatici sono incalcolabili – la maggior parte dell’area ospitava differenti tipi di eucalipto, e gli eucalipti secchi bruciano vigorosamente, con i rami in fiamme e i tronchi che esplodono contrbuendo a diffondere le scintille e gli inneschi.
Il trauma sembra senza fine: la stagione degli incendi forestali di solito va da marzo fino alla fine dell’estate australiana, ma al momento alcuni fuochi sono ancora fuori controllo, mentre altri probabilmente inizieranno (il più delle volte a causa di fulmini senza pioggia, ma anche inneschi accidentali o volontari rientrano tra le possibilità). Villaggi e case rurali sono ancora minacciati, ci sono evacuazioni in corso, in particolare all’avvicinarsi di giorni caldi e ventosi. Dovendo includere nelle equazioni il cambiamento climatico, le oscillazioni di El Niño e altri segnali climatici come il dipolo dell’Oceano Indiano, le previsioni degli incendi possono essere inesatte, pur in un paese con buoni meteorologi e larghe banche dati.
L’ecologia dell’Australia sud-orientale richiede il fuoco, e le piante e gli animali si sono co-evoluti con esso. Tuttavia, i fuochi di quest’anno sono i peggiori, in termini di calore ed estensione, dalla colonizzazione europea del tardo Settecento. Vedere automobilisti in fuga guidare in spesse coltri di fumo e famiglie emergere dagli incendi letali delle montagne australiane e della costa del Nuovo Galles del Sud un mese fa ha reso palese la magnitudine del disastro. Un disastro a breve termine, ma ricorrente, in un continente ormai sulla soglia di condizioni climatiche pericolose e cronicamente instabili.
All’inizio dell’attuale crisi, quando turisti e residenti hanno iniziato a scappare sulle spiagge e verso il mare nel Nuovo Galles del Sud, ci siamo resi conto di essere nel mezzo dell’emergenza climatica. Abbiamo visto piro-cumulonembi e tornado di fuoco, causati dall’aria calda in rapida risalita. La radio pubblica ha iniziato a diffondere dettagliati annunci d’emergenza, con ordini di abbandonare immediatamente alcune aree (questi annunci sono imposti per legge – se la rete mobile cessa di funzionare e non c’è elettricità, una radio a batteria è l’unico strumento d’informazione a portata di tutti).
Un elemento rilevante di questa emergenza per molti australiani è il fatto che nostro governo federale non abbia fatto abbastanza per prepararci, nonostante i ripetuti allarmi fin dall’agosto 2019 sulla potenziale severità e quantità degli incendi previsti. Dicembre è stato il mese con il più alto indice di rischio incendi dal 1950 (il Forest Fire Danger Index, o FFDI descrive la potenza e il rischio degli incendi previsti, prendendo in considerazione variazioni metereologiche, velocità dei venti, previsioni di pioggia e contenuto di umidità nella vegetazione). Ora la macchina dell’emergenza si è messa in moto, ma i ritardi sono ingiustificabili. Il primo ministro Scott Morrison, capo del partito conservatore dei Liberali (i quali supportano il libero mercato e, con qualche rara eccezione, non avversano i giganteschi progetti australiani di estrazione di combustibili fossili) è stato fotografato su una spiaggia alle Hawaii mentre gli incendi imperversavano. Pur avendo interrotto la sua vacanza in famiglia per fare ritorno in patria, ha trovato ad attenderlo corpose proteste che ne chiedevano le dimissioni. I servizi rurali anti-incendio, che in Australia sono chiamati con nomi diversi in stati diversi e coinvolgono un misto di volontari addestrati e professionisti, erano allo stremo.
Da allora, il mondo intero ha visto l’Australia bruciare. I pennacchi di fumo hanno raggiunto la Nuova Zelanda e il Cile. I koala sono morti. Sono emerse scene drammatiche di famiglie in cerca di riparo sulle spiagge circondate da fumo e cieli rossi. Le perdite ecologiche e sociali sono incalcolabili, e continuano ad aumentare. Ci sono voluti diversi giorni di dibattito al governo federale di Canberra prima che il gioviale primo ministro pro-carbone ammettesse che i cambiamenti climatici sono reali, dopo aver fatto una magra figura lo scorso novembre affermando, contro i suggerimenti degli scienziati e dei pompieri, che non ci fossero collegamenti tra emissioni e cambiamenti climatici, e che in ogni caso il paese era pronto. Adesso si premura di presentare piani di spesa d’emergenza, focalizzati tuttavia su risposte apolitiche ai cosiddetti “disastri naturali” – puntando sull’aumento della capacità di adattamento e sulla riduzione di biomassa a rischio d’incendio. Il governo ha promesso due miliardi di dollari australiani per supportare le vittime, offrendo anche compensazioni monetarie ai volontari delle squadre anti-incendio. Per ora non è chiaro come queste risorse arriveranno a chi ha subito perdite. Ancora più importante, fino a questo momento non è stata annunciata nessuna misura del governo verso tagli reali delle emissioni, neppure come gesto d’impegno verso gli australiani che hanno sofferto gli impatti più devastanti degli incendi. […]
Ci sono una serie di lezioni che emergono da un’analisi di ecologia politica di questi incendi disastrosi.
1) Imparare dal passato
Gli Aborigeni australiani hanno occupato i territori che ora stanno bruciando per più di sessantamila anni, da molto prima cioè dei tentativi d’insediamento dei britannici nella loro espansione da Sydney alla Tasmania, al sud dell’Australia e a Victoria nel tardo Settecento. Innumerevoli generazioni di indigeni hanno gestito attivamente il fuoco come parte di cicli annuali di eventi naturali e culturali, e le loro voci iniziano a essere ascoltate. Il fuoco era gestito attraverso metodi tradizionali da popolazioni nomadiche e semi-nomadiche, bruciando durante i mesi invernali per mantenere il territorio sano e rilasciare nutrienti che promuovevano la crescita della flora preferita dai marsupiali locali (i quali venivano poi cacciati come fonte di cibo), e in alcuni luoghi per preparare il terreno a coltivazioni di granaglie locali addomesticate.
Ci sono stati appelli nelle ultime settimane per ristabilire regimi indigeni di gestione del territorio e i “cool burns”, i fuochi freddi, come misura preventiva su larga scala. Ma le pratiche di incendio rituale sono rare oggi nell’Australia sud-orientale. Le conoscenze si sono perse, e gran parte della terra è ora in mani private o gestita dallo stato. In ogni caso, bisognerà attendere la rigenerazione della selva prima di poter applicare le pratiche di fuoco rituale (abbastanza diffuse nell’Australia tropicale del nord). […]
2) La cattiva politica sulle emissioni è elusa con la gestione delle emergenze antincendio
Le recriminazioni sono iniziate, e suggeriscono che le azioni del governo federale non sono state abbastanza rapide; il carico di combustibile (la quantità di biomassa infiammabile) nelle foreste e nei parchi nazionali era troppo alta; le risorse per i pompieri non erano adeguate, ecc. Gli australiani sono bravissimi a indicare le mancanze dei propri governi. In tempi non sospetti, organizzazioni come Get Up e Extinction Rebellion avevano contestato il supporto dei partiti Liberale e Nazionale a progetti di estrazione enormi, come la miniera Adani, vedendoli come simboli dello sdegno con cui i politici australiani trattano le evidenze scientifiche e gli allarmi degli ambientalisti. Gli incendi hanno dimostrato per molti la follia di una politica climatica inefficace, forzando il governo a rispondere in maniera più adeguata. Certo, i fuochi stagionali sono difficili da collegare direttamente ai cambiamenti climatici, con margini di dibattito in cui si infilano i negazionisti climatici, nonostante sia chiaro che le previsioni degli scienziati su temperature e piogge si stiano realizzando. La realtà è che il contributo dell’Australia al cambiamento climatico globale è piccola ma significativa, ed estremamente alta a livello pro-capite. Mentre è quasi automatico collegare la crisi degli incendi con le politiche sulle emissioni, queste due questioni hanno bisogno di campagne specifiche e separate mentre l’emergenza continua. Resta da capire se una reazione a catena adesso aumenterà le proteste pubbliche e l’interesse a transitare verso regimi di basse emissioni per l’intera nazione.
3) Immaginari apocalittici
Mentre le regioni colpite hanno attratto milioni di dollari in donazioni da celebrità e aziende per supportare la ricostruzione e gli aiuti alla fauna selvatica, i media mainstream si sono focalizzati sulla catastrofe. Alcune evocazioni si sono scagliate contro i piromani, altre contro gli ambientalisti, “colpevoli” di aver favorito l’inselvatichimento di larghe porzioni del territorio facendo aumentare la biomassa combustibile che ha alimentato i fuochi. È questo l’equivalente australiano di incolpare i piccoli agricoltori in Africa o Asia per la distruzione dell’ambiente locale – mentre i veri colpevoli impegnati nell’agribusiness su larga scala e nell’appropriazione di terre sono altrove. Questo tipo di narrazione viene seguita da media che puntano a minimizzare il collegamento tra riscaldamento globale e generazione di energia ed estrazione di risorse ad alta intensità di carbonio.
4) Governance multi-livello e la politica della colpa
[…] I governi locali in Australia hanno un certo potere per influire sulla preparazione anti-incendi e per supportare politiche di mitigazione a lungo termine. Consigli locali come Darebin (vicino Melbourne) dove vivo, sono molti attivi – Darebin è stata la prima autorità locale al mondo a dichiarare l’emergenza climatica e il luogo in cui si è originato uno schema di sconti per i pannelli solari che è stato ampiamente elogiato, guidato da un partito verde e una coalizione indipendente supportati da personale qualificato. Nonostante ciò, la portata dell’influenza dell’azione politica locale sui comportamenti individuali e collettivi è probabilmente sovrastimata. L’Australia è una economia capitalista in cui molte persone aspirano a beni costosi e energeticamente inefficienti, a viaggiare lontano, e a crogiolarsi nel consumo privato senza sentirsi troppo in colpa. Lo stimolo politico per molti cittadini e residenti è il mantenimento di un certo stile di vita, con servizi decenti e tasse contenute – non una decrescita radicale verso basse emissioni in nome dell’azione climatica.
5) Potere agli ambientalisti
Castigare gli ambientalisti è un tema ricorrente dell’attuale governo in certe regioni e villaggi (l’elettorato rurale di solito non vota Green o Labor). Tuttavia, nelle città il movimento Extinction Rebellion è cresciuto considerevolmente, e con il suo focus giovanile e con la pratica di “dire la verità” potrebbe influenzare l’attitudine generale alle prossime elezioni.
Gli ambientalisti, o semplicemente i cittadini con una coscienza ambientale, sono quelli che stanno rischiando gli arresti sui fronti delle battaglie contro i giganteschi progetti di estrazione che l’Australia favorisce, e stanno anche unendosi alle brigate anti-incendio rurali, supportando i fuochi precauzionali in accordo con le pratiche indigene. Incoraggiare gli australiani ad abbandonare gli alti livelli di consumo e produzione richiede l’esperienza di stili di vita alternativi, iniziando dal sistema educativo. Abbiamo bisogno di fare di più; questa è la più grande emergenza climatica dela storia, anche se il governo federale non la riconosce in quanto tale. Le narrative sulla decrescita, anche quelle dal sapore australiano, attirano poche persone, e la catena causale che collega consumi individuali, generazione di elettricità e calore, siccità e incendi è difficile da mettere insieme e da comunicare.
6) L’ecologia politica dell’emergenza climatica
[…] Per essere uno dei paesi più ricchi al mondo (in termini di PIL pro capite, ma anche di risorse naturali e di biodiversità), l’Australia deve necessariamente affrontare la sua millenaria tragedia climatica. Sarà presto chiara la reale portata degli incendi di quest’anno. Per molti insediamenti, aziende, comunità indigene e agricoltori, il prezzo altissimo, finanziario ed emotivo, è già chiaro. Nessuno vuole che accada di nuovo. Il continente ha bisogno di una combinazione di maggiore preparazione, ascolto delle tradizioni e delle conoscenze indigene, spinta popolare verso coloro che sono al potere cosí che si rendano conto della gravità dell’emergenza, e finalmente facciano passi indietro sullo sfruttamento dei combustibili fossili contenendo allo stesso tempo l’emorragia di entrate per via di profitti aziendali scarsamente tassati. C’è biosgno in sostanza del riconoscimento da parte delle autorità federali di accordi internazionali, garantendo un’azione climatica nazionale decisa e rapida, del sostengo alle comunità impattate da parte di tutti i livelli governativi (con ricostruzioni programmate e ascoltando gli esperti). Vanno ascoltati i giovani australiani che ne hanno avuto abbastanza di inazione climatica e che animano un’agenda di decrescita che contrasta il libero mercato e l’avidità delle multinazionali, cosí da velocizzare una transizione verso la sostenibilità. Non c’è molto tempo, e non ci sono alternative. (simon batterbury, traduzione di salvatore de rosa)
Questo contributo è stato pubblicato in inglese dalla piattaforma di ecologia politica Undisciplined Environments
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