Gli abitanti del quartiere centrale Koukaki di Atene sono rimasti stupiti quando, all’alba del 18 dicembre, li hanno svegliati i colpi delle granate, lo stridore delle seghe elettriche, l’odore pungente del gas lacrimogeno. La loro irritazione è cresciuta quando hanno scoperto che questa cacofonia era opera della polizia, rinforzata dai corpi antiterroristi militarizzati EKAM, per sgomberare con violenza i tre squat della comunità di occupanti di Koukaki, e per arrestarne tre.
Koukaki è un quartiere del centro di Atene da cui si raggiungono a piedi i siti storici più importanti della città. Negli anni della crisi ha subito un incremento di affitti brevi, soprattutto attraverso gli appartamenti di Airbnb. Gli affitti oggi hannno raggiunto i dieci euro al metro quadro (mentre il salario medio in Grecia è sotto i novecento euro), rendendo Koukaki un esempio magistrale della ristrutturazione urbana che fa profitto sulla feticizzazione della precarietà e della crisi-chic del paese. È in questo contesto che la comunità squatter di Koukaki nel 2017 aveva occupato tre palazzi abbandonati trasformandoli in una comunità autorganizzata, contestando la gentrificazione e l’aumento degli affitti nel quartiere.
Da quando, a luglio 2019, il primo ministro Mitsotakis ha preso il potere con un governo conservatore di destra, ha dichiarato la guerra agli anarchici e alla dozzina di squat politici e di rifugiati in tutta la Grecia. «Lenti ma decisi, ordine e sicurezza saranno restaurati in Grecia», ha detto Mitsotakis in un’intervista nel novembre scorso. Ma quanto successo nelle prime ore del 18 dicembre a Koukaki ha demistificato la narrativa statale dell’ordine e ha svelato la realtà. Nel tentativo di razziare uno degli squat di Koukaki, la polizia antisommossa ha provato a entrare nel palazzo accanto, chiedendo alla famiglia del proprietario di permettere il passaggio attraverso la terrazza sul tetto per raggiungere lo squat. Il padre della famiglia, il regista greco Dimitris Indares, ha chiesto alla polizia di fornirgli un mandato giudiziario, che la polizia non aveva. Allora gli agenti hanno attraversato la terrazza della casa. Il padre e i suoi due figli hanno sentito dei passi e sono saliti. «In tutta risposta, sono stati picchiati e legati sulla terrazza. Sono salita a vedere cosa stava succedendo, e sono stata minacciata. Mi hanno detto di tacere e andarmene… Ho visto un poliziotto inginocchiato sulla testa di mio figlio», racconta la madre. Tutte e nove le persone arrestate ora sono state accusate di violenza fisica.
In nome della salvaguardia della proprietà privata, la polizia ha sospeso il diritto alla proprietà privata stessa. In nome della sicurezza, la polizia ha usato la forza. In nome dell’ordine, la polizia ha portato il caos in un intero quartiere. Questa non è certo una sorpresa per l’ambiente anarchico e antiautoritario. Ma per chiunque altro, accorgersene dovrebbe rivelare il paradosso del monopolio della violenza “legittima” da parte dello stato (e della polizia). Secondo l’antropologa basca Begoña Aretxaga, dare un senso a queste pratiche statali apparentemente paradossali ci lascia «un tentativo ossessivo di interpretare, di tradurre la forza bruta nel linguaggio della ragione». Gli assalti ai collettivi solidali in Grecia e ovunque ci devono ricordare che quando razionalizziamo la violenza dello stato, stiamo facendo un lavoro emotivo per legittimare la nostra stessa oppressione.
In questo contesto, quando le persone scendono in strada a Koukaki o altrove per sfidare la violenza della polizia, o quando bruciano gli alberi di Natale nel vostro quartiere, o quando continuano a occupare i palazzi nonostante la repressione, bisogna considerare se sono queste pratiche a essere inappropriate, irritanti, disordinate e insicure – o se non lo sono piuttosto la subordinazione e la dominazione che ha portato a esse. (dimitris soudias)
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