Immaginate di essere nati in un comune ospedale di provincia, di avere trascorso un’infanzia serena in un quartiere di periferia, un’adolescenza vivace tra scuola, amici e gite in campagna. Immaginate poi di esservi iscritti all’università e di avere sostenuto i primi esami con discreti risultati. Al netto dei dettagli, la descrizione non si allontanerà molto dai trascorsi di ognuno di voi. Allora proseguiamo. Immaginate che per una banale coincidenza la vostra città di origine sia Aleppo. Ecco, siete al secondo anno di università, la famiglia ha investito molto nei vostri studi e voi non la state deludendo, ma un brutto giorno un boato vi butta giù dal letto, e poi anche il giorno dopo e quello dopo ancora. Nel giro di poche settimane i bombardamenti si intensificano, accanto a voi crollano palazzi, muoiono amici e parenti, l’università funziona a singhiozzo e le vostre abitudini e relazioni iniziano a sgretolarsi velocemente. Come uscirne?
Probabilmente la prima cosa che fareste sarebbe confrontarvi con la famiglia. Vostra madre e vostro padre sono spaventati, sconsolati e nervosi, desidererebbero avervi accanto per sempre ma ragionano e si rendono conto che c’è solo una soluzione: aiutarvi a lasciare la Siria verso un luogo sicuro, che vi garantisca intanto di non morire e poi anche di continuare i vostri studi. Per voi è un duro colpo. È difficile accettare di abbandonare tutto e iniziare da capo per colpa di una guerra che non avete voluto e di cui non siete complici, ma non c’è altro da fare.
È proprio a questo punto che si spalanca un altro dramma. Attualmente per i profughi non esiste un sistema legale per raggiungere l’Europa. Sembra assurdo, ma è la realtà. Le procedure necessarie sono blindate e l’ottenimento di un visto è privilegio di pochissimi: professionisti altamente specializzati o funzionari dai redditi elevati; per una persona normale, come voi, il visto è un miraggio. Se poi la meta desiderata è l’Italia scoprirete che con gli ultimi decreti sicurezza approvati è stata addirittura eliminata la protezione umanitaria. Proverete e riproverete senza nessun successo e alla fine l’ennesima bomba esplosa accanto alla vostra casa vi costringerà a un atto estremo: scappare via terra. Abitate ad Aleppo e il percorso più immediato vi condurrà in Libano, dove oggi, su quattro milioni di abitanti, più di un quarto è di origine siriana, un dato che posiziona il paese al primo gradino del podio mondiale per tasso di rifugiati.
Ben presto scoprirete che la vita in Libano è molto complicata: la disoccupazione è altissima, ottenere la residenza è sempre più improbabile, l’ostilità verso i siriani cresce con l’aumentare del disagio sociale. Provate a proseguire l’università ma non riuscite a far fronte alla retta. Come se non bastasse, a ottobre del 2019 vedrete con preoccupazione milioni di libanesi scendere in piazza; voi non lo fate perché avete assistito alle manifestazioni in Siria e temete il peggio, ma sapete anche che i manifestanti sono nel giusto, da troppo tempo oppressi da un governo che foraggia la corruzione, alimenta il sistema per caste e non offre nessun tipo di welfare. In quei giorni cade il governo e il Libano precipita nel caos, i siriani diventano ancora di più il capro espiatorio di ogni male e voi non riuscirete a trovare neanche più quei lavoretti mal pagati che vi hanno sostenuto i primi mesi, mentre il proprietario della stamberga in cui vivete vi chiede un affitto sempre più salato.
Il soggiorno in Libano è per voi un limbo in attesa che qualcosa possa cambiare, vi chiudete a riccio e sperate che un giorno tutto finisca, intenti nella costante fatica di sopravvivere. Non è né fantasia né immaginazione. È un’amara verità che oggi solo in Libano riguarda più di un milione di persone, in fuga da una guerra che non avrebbero mai voluto.
UN CORRIDOIO UMANITARIO
A novembre 2019 ho seguito il viaggio di centotredici persone, centotredici tra quel milione di profughi siriani che oggi vive in Libano. I centotredici hanno una cosa in comune, una piccola coincidenza che ha cambiato il corso del loro destino: l’incontro con gli operatori dei corridoi umanitari, un programma che organizza traghettamenti sicuri dal Libano all’Italia per le persone in fuga dalla guerra. Gli operatori li hanno incontrati, conosciuti, intervistati, infine hanno considerato che in Italia avrebbero potuto rimettere insieme i pezzi della loro vita andata in frantumi. I corridoi umanitari oggi, per le persone in fuga da una guerra, rappresentano l’unico modo per arrivare in Italia in sicurezza, su un normale aereo di linea e con un regolare documento in tasca. Purtroppo sono appannaggio di pochissimi, il progetto è autofinanziato e i suoi costi sono coperti da un gruppo di chiese – la Federazione delle chiese evangeliche e la Comunità di Sant’Egidio – che dal 2016 a oggi hanno potuto attivare il programma per circa duemila persone. Le chiese ci mettono il denaro, l’organizzazione e l’accoglienza, le ambasciate e i ministri competenti assicurano per i beneficiari il rilascio di un documento che li inserirà nel percorso per la richiesta di asilo.
Ho documentato il trasloco dal Libano all’Italia dei centotredici beneficiari del programma in un documentario radiofonico che ho voluto chiamare Bayt – In viaggio verso casa (in onda dal 3 al 7 febbraio alle 19,50 su Radio Rai Tre). Bayt in lingua araba si può tradurre con “casa”, ma il suo significato va oltre le pareti, evoca emozioni, desideri, aspettative, dinamiche intorno al luogo abitato. Il bar dove ordinare il solito, il percorso da casa a scuola, la piscina per il corso di nuoto, il rumore della televisione dei vicini, il cortile in cui lasciare la bicicletta, le cene con gli amici sul tavolo della cucina, la fermata dell’autobus all’ombra del platano. Tutto questo è bayt e in Medio Oriente la bayt è sacra.
Ho accompagnato i centotredici negli ultimi preparativi e ho potuto constatare che nessuno di loro in Libano è riuscito a ricostruire la sua bayt frantumata dai bombardamenti. Akanji aveva ventuno anni e studiava Business Management quando è dovuta scappare dalla Siria, per mesi ha cercato di continuare a formarsi in Libano ma non è riuscita a far fronte alle spese universitarie, è diventata un’attivista per i diritti dei bambini e delle donne siriane ma non ha mai potuto riallacciare il filo interrotto della sua vita. Quando l’abbiamo incontrata, a Tripoli, la seconda città del Libano, ci ha dato appuntamento in casa di amici, il suo quartiere non era un luogo sicuro. Alkanji era alle prese con le valigie, voleva portarsi tutto dietro, non voleva lasciare niente, il 27 novembre 2019 è partita per Padova e oggi segue con profitto la scuola di italiano e l’università, accompagnata in un percorso di accoglienza che a breve la renderà autonoma.
Souad, sua mamma e i due figli hanno vissuto cinque anni in un campo profughi di Tel Abbas, al confine con la Siria, li ho conosciuti nella loro tenda auto-costruita, di plastica e legno, non hanno potuto utilizzare pietre perché il governo libanese avrebbe demolito tutto. Quando sono scappati da Homs, Souad aveva venti anni e il pancione al quinto mese, che dopo i bombardamenti si irrigidiva e non permetteva a Souad di percepire i movimenti del feto. Dopo una fuga rocambolesca è riuscita ad arrivare al confine libanese con la famiglia e a installarsi in un campo, da cui non è riuscita più a muoversi per cinque lunghi anni, un lustro infernale in cui ha perso il marito per un colpo al cuore, ha visto la madre diventare cieca e i figli scorrazzare per il campo senza la possibilità di frequentare una scuola. Mi mostra una pietra nera, la metterà in valigia e la porterà in Italia, è una pietra vulcanica utilizzata a Homs per costruire le case, è l’unico frammento che le rimane della sua bayt siriana. La sua famiglia andrà nelle Marche, in provincia di Pesaro Urbino, qui la madre sarà operata, i bambini per la prima volta frequenteranno la scuola e lei a venticinque anni forse inizierà a pensare di riprendere in mano la sua giovinezza.
Osama vive su un tetto, glielo affitta un proprietario libanese a cento dollari al giorno, più che un tetto è un pianerottolo tra l’ultima rampa di scale e il tetto condominiale di un palazzo alla periferia di Beirut, in questo angolo di un metro per due ha sistemato un materasso e la televisione. È scappato a diciotto anni dalla Siria per sfuggire al servizio militare, se lo avessero preso lo avrebbero potuto giustiziare. Quando l’ho conosciuto erano passati sette anni dal suo arrivo in Libano, non aveva la residenza perché quando ha provato a ottenerla lo hanno chiuso in carcere per due settimane, campava di lavori stagionali e dormiva nel suo sottotetto. Anche lui è partito con il volo che il 27 novembre ha fatto atterraggio a Fiumicino, da lì un pullman lo ha condotto a Pinerolo, in Piemonte, dove la fidanzata e i suoi due figli lo stavano aspettando. Dopo due mesi dal suo arrivo in Italia ho chiamato l’operatrice che si occupava della loro accoglienza, hanno lasciato il progetto, mi ha detto, probabilmente per trasferirsi in Germania. La ricerca della propria bayt non ha confini.
Mohamed, Maha e i tre figli vivevano in un paese di provincia vicino ad Aleppo, quando Maha si è ferita per scappare a un bombardamento sono andati tutti e cinque di corsa all’ospedale, la gamba era in gravi condizioni ed è stata necessaria un’operazione; sono tornati dopo qualche giorno e poco prima di entrare in casa il figlio più grande, di dieci anni, ha guardato dalla finestra e ha visto che era stata occupata da qualcuno. Oggi della loro casa, la loro bayt, rimane solo una chiave che Mohamed conserva gelosamente in una scatola. Per i cinque non è rimasta che la fuga, direzione confine libanese. In Libano si sono sistemati nel campo profughi di Sabra e Shatila, ma all’ennesima violenza di cui i figli sono stati testimoni i due hanno deciso di spostarsi di nuovo. Si sono rivolti a un medico di un’associazione che ha fatto da ponte con gli operatori dei corridoi umanitari e nel giro di qualche mese è stato programmato il loro trasferimento in Italia. Quando li ho conosciuti avevano già chiuso le valigie, mi hanno offerto te e biscotti nella loro stanza a Beirut, in un palazzo fatiscente che il proprietario affitta a caro prezzo. I bimbi erano un po’ spaventati di volare, mi ha detto Maha, perché per loro l’aereo significa bombe e distruzioni, ma anche molto felici di partire; a Scicli, in Sicilia, qualcuno aveva già preparato l’appartamento in cui sarebbero entrati dopo poche ore. Li ho ringraziati per avermi ospitata. «Non lo devi fare – ha detto Maha –, noi ti abbiamo aperto la casa solo per qualche ora, voi italiani lo farete per sempre». Mi auguro che saremo all’altezza.
P.S. In queste settimane a Bruxelles si sta discutendo la possibilità di istituzionalizzare i corridoi umanitari. La macchina, attiva dal 2016, è ormai oliata e se a coprirne i costi fossero le istituzioni, i numeri dei beneficiari potrebbero drasticamente aumentare. I proponenti del progetto dei corridoi umanitari europei hanno ipotizzato di iniziare dalla Libia, dove attualmente cinquantamila profughi sono in cerca di un posto sicuro in cui costruire la loro bayt. (marzia coronati)
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