Il traffico di via Bartolo Longo, la strada che collega Ponticelli a San Giorgio a Cremano, si intensifica nei giorni che precedono il Natale. Cammino costeggiando la recinzione di un parco privato, tra le merci esposte dai negozianti sul marciapiede: blocchi di panettoni in offerta, torri di cotechini e altre leccornie industriali, ma anche alberi di Natale per festeggiatori dell’ultimo minuto. Supero le auto incolonnate, con i fumi dei gas di scarico che si vaporizzano nell’aria umida. La luce del primo pomeriggio filtra attraverso le nuvole. Una leggera nebbiolina offusca il Vesuvio, proprio davanti a me, sulla sinistra. Attraverso la piazzetta della Circumvesuviana, una spianata di cemento abbellita da qualche betulla, finalmente cresciuta dopo essere stata piantata nel 2001, anno di inaugurazione della stazione sulla linea Napoli-San Giorgio. Sulle panchine un gruppo di adolescenti parla rumorosamente e ride, un ragazzo arriva in motorino tagliando in diagonale lo spiazzo pedonale. Accanto, un campo di bocce e un parcheggio completano l’intervento di riqualificazione della stazione. «Trasformare una stazione in un luogo d’incontro e in un nodo di collegamento. Partiva da questo presupposto il progetto di restyling della stazione di Bartolo Longo, a Ponticelli», così recita un servizio del TGR del 2008. Dal servizio apprendo che la struttura in ferro che sorge nella piazza, simile a una gru con due semisfere in plastica rossa sulla cima, è una scultura. Non mi ero mai chiesta cosa fosse, la vedevo lì un po’ bizzarra, costruita senza alcun motivo plausibile, più strampalata che enigmatica.
La stazione è incassata tra il cimitero di Barra e un campo coltivato, confinante con la “residenziale”, in cui una signora dai modi bruschi e frugali, reminiscenza della mia infanzia, vende ancora le uova delle sue galline. Di fronte, il centro sociale “Casa mia – Emilio Nitti”, una struttura gestita dalla chiesa evangelica metodista. Dietro l’edificio c’è una specie di borgata, circondata da un muretto perimetrale con sopra un’inferriata, che la separa dalle altre strade. È un insieme di case basse tirate su con mattoni scadenti e poco altro, riparate da tetti in lamiera e circondate da piccoli giardini, spesso trasformati in orti. Continuo a camminare su viale delle Metamorfosi, uno stradone ampio che corre dritto verso l’ospedale del Mare da un lato, e il lotto O dall’altro, complesso di edilizia popolare risalente alla ricostruzione post-terremoto. Mi chiedo come sia possibile che, in una strada che taglia due grandi blocchi di edifici in cui vivono migliaia di persone (sebbene l’ospedale non sia ancora entrato a pieno regime), non si veda anima viva.
L’avveniristico ospedale guarda il continuum di edifici screpolati del lotto O, per tutti “lotto Zero”. È ironico che una strada chiamata viale delle Metamorfosi delimiti, come un confine invisibile, due mondi che da fuori sembrano inerti e non comunicano, uno proiettato al futuro e l’altro al passato. In mezzo agli scatoloni di cemento scadente del lotto Zero sono state ritrovate persino due ville romane, ma di questo pochi sono informati. Una è stata interrata, l’altra recuperata. Il sito archeologico, riparato alla buona da un capanno in legno, rimane un corpo estraneo al quartiere, aperto solo in occasione di visite straordinarie.
I piani di riqualificazione urbana per la zona di viale delle Metamorfosi hanno prodotto molto poco rispetto alle esigenze degli abitanti, e al momento sono fermi. Molti politici gridano allo scandalo. Quasi tutti, però, sono estranei alle dinamiche del quartiere. Io stessa mi sento aliena in un luogo che non conosco, e che mi hanno educato a evitare.
Il principale progetto di “riqualificazione delle periferie”, che coinvolge il lotto Zero, è in stato di abbandono. Si tratta della Città dei bambini, approvato con delibera del 1999 dalla giunta Bassolino, con consegna prevista nel 2009. La Città dei bambini doveva sorgere su un’area di trentaquattromila metri quadrati, comprendente anche il percorso archeologico degli scavi e la scuola media IC Marino – Santa Rosa, in cui dovevano essere portati a termine un teatro da duecentoventi posti, un museo-laboratorio, un planetario, spazi verdi e una nuova scuola, che avrebbe dovuto sostituire le funzioni della Marino. Nel 2000 il comune assegnò al progetto, curato dall’allora assessore alla cultura Furfaro, quattro miliardi di lire, provenienti da una significativa gittata di fondi europei. Nel 2004 arrivarono anche i fondi regionali, un appalto di quattro milioni e seicentomila euro, affidato nel novembre 2005 alle imprese Costruzioni Srl (capogruppo), Contestabile Srl e Paco 81. I lavori cominciarono, e anche i contenziosi. Il comune pagava le ditte in ritardo, fino a che non smise del tutto. Nel frattempo il cantiere venne vandalizzato due volte.
Dalla facciata fatiscente di via dei Mosaici si intravede il teatro. Attraverso i vetri impolverati di colore verdognolo, riesco a scorgere uno spazio ampio e vuoto, nascosto dalla semioscurità. Provo a immaginare il planetario che non c’è.
Sulla carta, la Città dei bambini è un progetto di grande valore educativo. L’obiettivo è la riqualificazione urbanistica attraverso la creazione di spazi per attività culturali. Del planetario non si sa più nulla, le sue tracce si perdono in Francia: la ditta che l’ha costruito è francese, il comune l’ha pagata in ritardo, quando ormai c’erano da fare dei lavori di ammodernamento dell’impianto. Vulgata popolare vuole che l’intero planetario si trovi ancora in magazzino come un pacco di Amazon, o come una galassia remota che aspetta di essere collegata, attraverso un buco spazio-temporale, ai palazzoni del lotto zero. Ma questa non è fantascienza, anche se alcuni scorci del cantiere abbandonato si prestano agli scenari della letteratura distopica.
L’unico progetto attuato tra quelli collegati alla Città dei bambini è il Re Mida, centro di riciclaggio creativo (la costruzione dell’edificio però, risale alla fase post- terremoto). Si trova appena fuori il rione De Gasperi, sull’unica strada che ha uno sbocco esterno al rione.
Visito il centro guidata da Paola Manfredi, presidente dell’associazione Atelier Re Mida Campania, che gestisce il centro, nel quale si accolgono scuole per laboratori di sperimentazione e trasformazione degli scarti aziendali, e, ultimo nato, un laboratorio di cucito creativo destinato a donne, sostenuto con fondi 8xmille della Chiesa Valdese). In uno stanzone adibito a magazzino sono ordinati oggetti di non chiara entità, materiali indefinibili fino a un contatto tattile. «Sono colate di plastica – spiega Paola – che andrebbero buttate o reimpastate. La cosa più interessante è che il rifiuto qui viene utilizzato non solo come risorsa, ma anche come forma di conoscenza. Osservando, toccando questi oggetti, ti fai un’idea di come si producono, e soprattutto puoi attribuire loro delle possibilità estetiche, espressive. Per questo ai bambini non diciamo mai cosa sono, piuttosto chiediamo: “A te cosa sembra?”». Si tratta di oggetti che non hanno un’utilità immediata, di scarti industriali. Grovigli di plastica e filamenti argentati, lettere intagliate nel legno, usate nelle vecchie macchine a stampa, rotoli di cartone e spirali metalliche. Ma qui l’apparenza delle cose è solo un punto di partenza.
Il centro è stato la prima propagazione del progetto nato a Reggio Emilia per iniziativa del comune e dell’istituzione Scuole e nidi dell’infanzia. Oggi fa parte di una rete internazionale gestita dalla fondazione Reggio Children, una società a capitale misto nata nel 1994. Dal 1999 al 2007 è stato un progetto pubblico del comune di Napoli, da allora tutto si basa sulla sola volontà delle operatrici, che devono sostenere il lavoro attraverso la partecipazione a bandi pubblici o privati ed il rapporto con le scuole. «Anche per questo – mi dice Paola – ci siamo costituiti in associazione di promozione sociale».
Emergono due questioni: la prima è la difficoltà a ricevere una legittimazione dagli enti istituzionali e amministrativi, la seconda è la svalutazione del lavoro. In un periodo di crisi i fondi sono troppo pochi rispetto al numero di associazioni; si riesce faticosamente, e non senza ingarbugliate rendicontazioni, a pagare chi lavora, cercando nel contempo di rientrare con le spese, e di superare le innumerevoli insidie burocratiche che si nascondono nei bandi.
Paola e le operatrici del Re Mida resistono, per non perdere quel radicamento costruito in più di un decennio con un territorio troppo vasto e troppo “vuoto” per potersi aggregare attorno a una piccola iniziativa illuminata, collegata a un’esperienza più ampia, che nella vetrina internazionale esibisce la propria eccellenza. Ma la fondazione è lontana. Quello che ho attorno, ora, è il fortino del De Gasperi a sinistra, e l’edilizia popolare del lotto Zero, a destra. Una periferia della periferia riconoscibile per le sue architetture tristi, popolata da un’umanità invisibile ma brulicante di vita, fossilizzato come un pregiudizio nell’immaginario di molti abitanti del quartiere. Un ghetto che è un ingorgo di storie, parole mozzate, lamenti, richieste, sopraffazione. (piera boccacciaro)
Leave a Reply