Il 16 febbraio 2021 Pablo Hasél, rapper della città di Lleida e militante comunista, viene arrestato dal reparto antisommossa dei Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, nel rettorato dell’Università di Lleida dove si era rinchiuso per ostacolare l’esecuzione del mandato d’arresto spiccato dall’Audiencia Nacional (tribunale speciale spagnolo erede del franchista Tribunal de Orden Público). Viene portato in carcere per scontare una condanna (a cui se ne aggiungeranno altre per reati di natura politica) per “apologia del terrorismo, calunnie e ingiurie contro la Corona e contro le istituzioni dello stato” in riferimento ad alcune sue canzoni e a diversi tweet in cui denunciava la corruzione e le attività criminose della Casa Reale. Gli viene applicata, come ormai è consuetudine nei tribunali spagnoli, l’aggravante del “discorso dell’odio”, introdotta negli ordinamenti democratici a tutela delle minoranze vulnerabili e che in Spagna trova applicazione soprattutto contro chi critica la Guardia Civil, l’esercito e, appunto, la monarchia.
Hasél non è il primo rapper perseguitato per il contenuto critico delle sue canzoni. Valtònyc, musicista maiorchino, è da anni esiliato in Belgio, dove le autorità giudiziarie locali hanno respinto definitivamente le richieste di estradizione inoltrate dai tribunali spagnoli. Però Hasél è il primo a finire in carcere. Oltre alle dichiarazioni di Amnesty International, Human Rights Watch, Fair Trials, Pen Club International che denunciano questo attacco alla libertà d’espressione, sono molte le reazioni a livello politico: Podemos e Comuns (la formazione di Ada Colau, sindaca di Barcellona) chiedono l’indulto al governo del socialista Sánchez (di cui fanno parte) in attesa della riforma che, a loro dire, dovrebbe in breve depennare questi reati di opinione dal codice penale spagnolo. La risposta più decisa però viene dalle piazze. Nei dieci giorni successivi all’arresto hanno luogo centinaia di manifestazioni in tutta la Catalogna e anche in diverse città spagnole, basche, andaluse, convocate da collettivi, sindacati studenteschi e organizzazioni della sinistra indipendentista. In numerose occasioni si registrano scontri con la polizia che spara centinaia di proiettili di foam (provocando anche la perdita di un occhio a una ragazza a Barcellona) e ferma decine di persone.
Il 27 febbraio 2021 si verifica un episodio che scatena la criminalizzazione del movimento di protesta a livello sia politico che mediatico: di fronte al commissariato della polizia municipale di Barcellona, sulle Ramblas, un gruppo di manifestanti butta del liquido infiammabile su di un furgone degli antisommossa della polizia municipale. Le fiamme durano sette secondi e intaccano appena la vernice dell’automezzo. Ma all’interno c’è un agente, uscito subito indenne dal lato opposto: tanto basta per scatenare la reazione isterica di autorità e giornalisti. Ada Colau, che compare in conferenza stampa insieme al consigliere degli interni della Generalitat, afferma che «il diritto alla protesta è del tutto legittimo, la violenza e il vandalismo, no!», aggiungendo la sua «ferma condanna dei fatti violenti di oggi a Barcellona al termine di una manifestazione pacifica e l’appoggio alla polizia municipale e agli agenti del commissariato delle Ramblas, nonché ai commercianti e agli abitanti del quartiere colpiti dai disordini».
Dopo gli scontri l’attenzione mediatica si riversa su di un gruppo, definito anarchico, di otto persone, cinque delle quali italiane, che vengono arrestate nei giorni successivi con accuse pesantissime: dal tentato omicidio al reato di associazione criminale. Ritorna sui media con forza la ricorrente leggenda urbana degli “anarchici italiani violenti che seminano caos e distruzione”. Sapol, il principale sindacato della polizia municipale, annuncia che si costituirà come “accusa privata” (figura del codice di procedura penale spagnolo che prevede la partecipazione in giudizio di parti private con le stesse facoltà di un pubblico ministero, come la richiesta di condanna). Sapol non si fa sfuggire l’opportunità, nella sorda lotta che sostiene contro la sindaca, che considera poco affidabile, di rinfacciare al governo municipale di non aver già assunto questo ruolo. La risposta è immediata: nel corso di un’intervista Ada Colau annuncia che il comune di Barcellona si costituirà come accusa di parte contro i responsabili dell’incendio della camionetta.
I giovani arrestati seguono strategie legali diverse, alcuni nominano difensori assunti dalle famiglie, altri vengono difesi da avvocati di movimento. La principale accusata viene scagionata grazie a una perizia tecnicamente complessa e viene rilasciata. Altri pagano la cauzione. Alcuni però resteranno in prigione per più di un anno, nell’impossibilità di pagare i quarantamila euro richiesti. Finché una perizia dei pompieri di Barcellona non conferma quello che ai più era evidente: l’incendio non poteva essere definito grave, e il rischio per la vita dell’agente coinvolto era stato “basso”.
Una volta informate le difese, con ritardo, e presentato il ricorso, la cauzione per le persone ancora detenute è ridotta a ventimila euro. Il comune di Barcellona, come accusa privata, si oppone a questa decisione assieme al pubblico ministero, così come si era opposto a tutte le precedenti richieste avanzate dalla difesa degli accusati. Dopo oltre un anno di carcere, comunque, tutti gli accusati sono a piede libero, anche l’ultimo di loro, G.C., arrestato a Perpignan pochi mesi fa con un mandato di cattura europeo.
A parte un gruppo di supporto abbastanza esiguo di persone del movimento libertario e un certo sostegno dato anche da organizzazioni indipendentiste, nel complesso il “caso” non provoca ondate di solidarietà, in gran parte a causa della realtà di repressione diffusa e continua che si vive da anni in Catalogna. È di questi giorni la notizia di una nuova condanna, la prima per le proteste contro l’arresto di Pablo Hasél: William, un giovane scozzese residente a Barcellona, è stato condannato a più di cinque anni di carcere per “disordini pubblici” e “attentato all’autorità” (leggasi lancio di un sasso contro un furgone della polizia). Anche in questo caso la difesa, a carico delle avvocate di Alerta Solidària (un collettivo indipendentista), denuncia “che non risulta nessun agente ferito, nessun danno ad automezzi, né ad arredo urbano, né pietre o oggetti lanciati. Solo, ancora una volta, la parola di un poliziotto contro la nostra”.
Un precedente che non promette niente di buono per i prossimi processi, tra cui quello che si svolgerà a Barcellona contro “gli anarchici italiani”, dice David Aranda, avvocato di G.C. a cui ancora non è stata comunicata nessuna richiesta di condanna da parte di pubblico ministero e comune di Barcellona, ma che ricorda che entrambe le accuse hanno finora operato di concerto sostenendo l’imputazione per tentato omicidio, malgrado l’evidenza. Un altro degli avvocati, Xavier Monge, dichiara in un’intervista che è davvero sorprendente che il comune di Barcellona in una causa come questa assuma il ruolo di accusa di parte contro i manifestanti, dopo avere criticato tante volte la Generalitat per questa stessa ragione. Sorprendente, sì.
P.S. Pochi giorni fa il partito socialista ha fatto approvare al Senato una proposta di Eh Bildu (indipendentisti baschi) e Erc (indipendentisti catalani) volta a depennare dal codice penale il reato di ingiurie alla Corona. Resta da vedere che cosa succederà al Congresso (dove il Psoe ha già votato decine di volte insieme all’estrema destra in difesa dell’istituzione monarchica e dei suoi privilegi). Dell’indulto a Pablo Hasél annunciato da Podemos e Comuns non si è più parlato. Pablo è ancora in carcere, a Lleida. (rolando d’alessandro)
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