Fin qui, nella nostra inchiesta sull’esplosione del turismo, abbiamo provato a descrivere lo sviluppo di pratiche e strutture (economiche, sociali e culturali) che stanno trasformando Napoli in una città turistica tout court dell’emisfero occidentale. Nel frattempo, lo scenario ha suggerito ulteriori elementi di complessità. In primo luogo, l’attenzione alla “turisticizzazione” è aumentata, come testimoniano alcuni interventi (più o meno indignati) pubblicati sui quotidiani cittadini, che enfatizzano l’improvvisazione che sembra caratterizzare la governance del fenomeno da parte istituzionale (tanto comunale quanto regionale).
In secondo luogo, i ravvicinati ponti di primavera hanno visto un ulteriore incremento del flusso turistico, che ha determinato un sovraffollamento di alcune zone e conseguente criticità della mobilità complessiva, mettendo a nudo carenze in termini di coordinamento tra iniziative e trasporto pubblico, e più in generale la tenuta complessiva del sistema di gestione urbana.
Infine, si continua a registrare un entusiasmo diffuso per le potenzialità della nuova situazione, proveniente da settori disparati della popolazione, ed è su quest’ultimo aspetto che qui si vuole insistere, tornando ad approfondire alcune pratiche di appropriazione e “rigenerazione” dello spazio urbano da parte del sottoproletariato, da sempre considerato un freno, una tara, una iattura per le prospettive di sviluppo e modernizzazione. Crediamo, infatti, che uno degli aspetti singolari del fenomeno sia quello del protagonismo di settori importanti delle “classi pericolose”, la loro capacità di posizionarsi negli interstizi lasciati a disposizione dell’iniziativa privata dal laissez faire istituzionale che veicola la trasformazione turistica della città.
#1 La catena
Un martedì d’inverno, di buon mattino, quell’ora in cui il carico e scarico dei rifornimenti di negozi, bar e ristoranti, intasa la viabilità dei vicoli dei Quartieri Spagnoli, un falegname e un suo sodale hanno “reificato” la zona pedonale di vico Lungo Gelso, una delle dorsali principali del quartiere che corre parallela a via Toledo. L’area pedonale in questione fu istituita a metà della seconda sindacatura Iervolino ma mai attuata, sua unica traccia era un segnale stradale su sfondo blu che, tutt’oggi, recita: “Area pedonale. Escluso residenti”.
All’epoca la misura generò proteste della gran parte dei residenti, dei commercianti, dei pochi ristoratori (una trattoria e un bar), motivate dal rischio di isolamento del vicolo già fortemente penalizzato dalla chiusura al traffico della vicina via Toledo. Lungo la strada comparve una costellazione di paletti antitraffico posizionati in luoghi strategici, muniti di appositi catenacci per assicurare la sosta esclusiva alle automobili di proprietà dei residenti. Camminare a piedi diventò ancora più difficile. Altro che zona pedonale.
Sotto i ponti ne è passata di acqua, come si dice, e quel martedì mattina la catena dalle maglie spesse posizionata perpendicolarmente al senso di marcia, è stata accolta come simbolo di “riscossa”, come segno di legittimazione dell’ormai intervenuto e inarrestabile cambiamento del quartiere. “Finalmente qualcuno che fa rispettare le regole” potrebbe essere l’adagio sintetico registrato nelle ore immediatamente successive di quella mattinata. Ristoratori (diventati ormai la realtà economica prevalente) entusiasti perché i dehor sorti nelle estremità dei vicoli che sfociano su quella via Toledo diventata un torrente di turisti, non sarebbero stati più appestati dai gas di auto e motoveicoli; commercianti ben felici di un transito pedonale foriero di potenziali nuovi acquirenti; residenti non più ossessionati dal posto auto sotto casa; abitanti dei bassi residuali non più costretti a litigi continui per entrare o uscire dalla propria abitazione; operatori informali del settore turistico con improvviso spazio a disposizione per nuove iniziative e possibili eventi. Insomma, un insieme composito di popolazione (in larga parte di estrazione sottoproletaria) che plaudiva a un’iniziativa il cui motore non è stato istituzionale ma del tutto popolare, una rigenerazione urbana dal basso. In pochi minuti di lavoro si è attuata una misura di politica urbanistica fino a quel martedì rimasta disattesa, incompiuta, impossibile da realizzare per il disappunto popolare.
La catena ha resistito fino al sabato successivo, quando una pattuglia della polizia municipale – coadiuvata da tecnici comunali – ha rimosso “l’ostacolo alla viabilità non autorizzato”, ripristinando l’accesso incontrollato ai veicoli. I promotori della catena, supportati dal consenso popolare diffuso, hanno promesso di ripristinare la zona pedonale al più presto, stavolta utilizzando delle fioriere, manufatto più solido e di più difficile rimozione.
La pedonalizzazione de facto di un lungo vicolo dei Quartieri Spagnoli può essere considerata un indicatore di una mutazione in corso che coinvolge, per l’appunto, una categoria sociale fino a oggi ben lontana dall’immedesimarsi nell’industria turistica. La catena, infatti, ha liberato spazi per le attività commerciali della zona, che a negozi di tipo tradizionale (alimentari, tessile) ha affiancato l’apertura di trattorie e bar ma anche di un’agenzia di servizi turistici che offre l’organizzazione di visite guidate nella città e nei dintorni e perfino escursioni in elicottero, motoscafo e servizio limousine. Anch’essa aperta di recente al posto di un basso adibito per lungo tempo a deposito di cianfrusaglie. Inoltre, le attività commerciali preesistenti, come i coiffeur per donna/uomo, dopo la rimozione della catena, hanno realizzato un sistema di catenelle pendenti tra i paletti antitraffico, ma stavolta con l’obiettivo di impedire la sosta selvaggia di motocicli e preservare lo spazio antistante ai negozi e la viabilità pedonale. In pochi anni si è verificato un capovolgimento dei bisogni, una ridefinizione radicale delle priorità dell’uso dello spazio urbano.
C’è anche un altro dato da prendere in considerazione, almeno per il quadrilatero dei QS, e si tratta della diminuzione drastica di rapine e furti a danno di residenti e turisti. Sebbene, infatti, si ripropongano sporadiche sparatorie e ferimenti legati agli instabili equilibri malavitosi della zona, l’insieme di azioni che costituiscono la microcriminalità (come si dice) si sono rarefatte con il decollo dell’economia turistica. Se fino a qualche anno fa il turista era una potenziale preda, oggi viene considerato un finanziatore di attività commerciali e di servizi. I motocicli e gli appartamenti dei residenti hanno smesso di rappresentare fonti di pezzi di ricambio e oggetti di valore a costo zero. La dinamica turbocapitalista sta lentamente – ma inesorabilmente – soppiantando l’appropriazione violenta della ricchezza. Passeggiare a qualunque ora per i vicoli prossimi a via Toledo non è più un rischio, non offre più scariche adrenaliniche a buon mercato, sono perfino terminate le scorribande in motociclo nella zona pedonale di Toledo che per un periodo non troppo lontano hanno fatto scrivere fiumi d’inchiostro sui quotidiani locali (e nazionali). Si sta formando, insomma, un circuito di accumulazione basato su un meccanismo che si muove sul crinale tra formale e informale perché, nonostante tutto, molti dei lavoratori coinvolti nei nuovi scenari non sono contrattualizzati o, in ogni caso, si muovono nelle maglie della (de)regolamentazione del lavoro. Eppure è ormai consolidato un altro adagio: “Il turismo sottrae braccia alla criminalità”, almeno quella spicciola, perché da indagare sarebbero le origini dei capitali iniziali grazie ai quali sono stati avviate (rinnovate e ricollocate) le decine di nuove attività commerciali indirizzate allo sfruttamento dell’industria turistica.
La vicenda della catena non è la sola a indicare la mutazione in atto. Oltre ai fenomeni già investigati, anche a ridosso dei vicoli del Nuovo Teatro Nuovo, prossimi a largo Baracche, si è costituito un minidistretto dell’intrattenimento i cui poli di attrazione (per turisti e residenti) sono la trattoria folkloristica Nennella, la vineria (ex cantina frequentata da marginali) La Pignata e una gelateria aperta di fianco. Anche in tal caso la pedonalizzazione è stata effettuata de facto, come primo passo necessario per lo sviluppo di un nuovo orizzonte economico. Insomma, partendo da spinte provenienti da agglomerati sociali finora attivi in quelle che Marco D’Eramo ha chiamato le “industrie meno rispettabili del settore turistico”, la componente marginale della società partenopea diventa una sorta di avanguardia nel processo di stabilizzazione di Napoli città turistica, in quel complesso Apparato Produttivo Turistico delineato dal geografo Stephen Britton.
#2 Insoddisfazione Pubblica e Felicità Privata
All’impeto della trasformazione corrisponde una risposta incerta e disomogenea da parte dell’amministrazione che oscilla tra la soddisfazione per l’avvio di un circuito virtuoso di attività economiche e alcune misure repressive. Una di queste è stata la chiusura e la pretesa regolarizzazione, sanzionata con decine di migliaia di euro di multa, dell’esperienza di ‘O Vascio, un basso trasformato in sede di iniziative a carattere folklorico e meta di tour turistici “tipici”. La polizia municipale, forse in conseguenza della fama che il luogo ha acquisito in due anni di attività, o forse successivamente alla vicenda della catena, è intervenuta interrompendo ogni attività a causa della totale assenza del rispetto delle norme che regolano il settore gastronomico e dell’intrattenimento. Qui si osserva una dinamica contraddittoria: all’intraprendenza dello spirito selvaggio che coglie le opportunità dettate dalla congiuntura favorevole segue un intervento di natura burocratica, ovvero il preteso rispetto delle regole in un regime di totale deregolamentazione e incentivazione dell’iniziativa privata. Una misura adottata nei confronti di entità deboli, mentre, al contrario attirare investitori privati nella rimodulazione della città turistica sembra essere una delle priorità dell’attuale amministrazione. Esempio di tale politica può essere rappresentato dalla (non) gestione del riordino del water front portuale, su cui da mesi circolano progetti che hanno alle spalle gli armatori locali (quelli per altro più in difficoltà con il loro core business). L’entusiastica presentazione del progetto del Museo del mare e delle migrazioni, da realizzare negli ex magazzini generali del porto, va in tale direzione, a partire dalla nebulosa cordata di investitori e dall’idea confusa del ruolo che dovrebbe svolgere una simile istituzione. L’importante sembra essere il fare, e non il come fare. Investire per investire, ammuina finanziaria.
L’iniziativa privata come soluzione per l’assenza di risorse pubbliche, da investire non tanto nella città turistica, quanto in un progetto urbano complessivo che abbia al centro la sostenibilità e il miglioramento di servizi e infrastrutture in primo luogo per i residenti: non sembra questo il progetto all’ordine del giorno. Una città incapace di garantire standard di vivibilità, assistenza, trasporti per coloro che ci vivono, ha davanti a sé la prospettiva del profitto caotico organizzato per un consumo rapido e veloce. Il malcontento contenuto dei residenti è finora motivato dall’apparente ricchezza (soprattutto di immagine) che la città turistica sta veicolando nel tessuto urbano. Restano irrisolte contraddizioni storiche legate al funzionamento del sistema-città. Concedere porzioni di spazio urbano pregiato a soggetti privati con la pretesa di contribuire alla rigenerazione complessiva tanto del territorio quanto del brand cittadino rappresenta il contraltare della turisticizzazione dal basso. La deresponsabilizzazione istituzionale è motivata ufficialmente dal perdurare della situazione di pre-dissesto economico in cui galleggia il Comune ormai da sette anni. In altri termini: una forma di legittimazione del diventare una colonia capitalista raccontando favole sull’autonomia e il “difendere la città”.
D’altra parte che la città sia diventata uno scenario buono per tutti i palati è testimoniato anche dall’elezione del quartiere Scampia come set per videoclip di rapper francesi come Makaba (autore di Napoli) o i parigini PNL o il marsigliese SHC (autore della hit Gomorra) che, suggestionati dalla Napoli immaginata in Gomorra la serie, hanno eletto Vele e dintorni a luogo principe per rappresentare il disagio urbano in rime. Anche Scampia, a modo suo, è sul palcoscenico. Tres chic! (-ma)
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