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5 Ottobre 2017

Dilemma dell’accoglienza e fallimento del sociale. Due film dalla periferia di Napoli

Luca Rossomando buzzi, don ciotti, giugliano, l'equilibrio, l'intrusa, leonardo di costanzo, mafia capitale, mimmo borrelli, ponticelli, terra dei fuochi, vincenzo marra
(disegno di ottoeffe)
(disegno di ottoeffe)

I film di Leonardo Di Costanzo (L’intrusa) e di Vincenzo Marra (L’equilibrio), usciti in questi giorni al cinema, hanno come sfondo una sorta di “periferia aumentata”, territorio immaginario in cui si coagulano le più recenti calamità disseminate per la metropoli napoletana.

Ne L’equilibrio ritroviamo, tutte insieme, le balle di rifiuti ammassate a perdita d’occhio nelle campagne di Giugliano, l’incombente presenza dei roghi tossici della Terra dei fuochi e i paesaggi di edilizia popolare post-terremoto di quartieri come Ponticelli e di tanti altri. Ne L’intrusa l’orizzonte di casermoni-alveari è lo stesso – e c’è anche un campo rom nei dintorni, più evocato che mostrato – ma l’unità di luogo prescelta, una masseria sul limitare tra città e campagna, contribuisce a rendere meno oppressiva la presenza del costruito e influisce anche sulla narrazione, che ha qualche pausa, qualche vuoto in più rispetto al ritmo sincopato, alla struttura squadrata del film di Marra.

Il nucleo di entrambi i film è il progressivo insorgere di un dilemma intorno all’opportunità di accogliere “l’altro”, dilemma che si struttura e s’inasprisce con il procedere del racconto, senza però trovare uno sbocco, una via d’uscita, fino a contrapporre disastrosamente il singolo individuo accogliente – nel senso più ampio del termine – alla propria comunità di riferimento.

Nel film di Marra il conflitto si espande a macchia d’olio: da un lato c’è un prete (interpretato da Mimmo Borrelli) da poco insediato in una parrocchia di periferia, dall’altro i camorristi locali, ma anche il parroco che l’ha preceduto, i suoi superiori in Vaticano, e infine l’intera comunità dei fedeli, tutti partecipi di un malsano “equilibrio”, che sembra la forma di sopravvivenza prescelta da un quartiere che si sente sotto assedio e allo stesso tempo abbandonato da tutti.

Il dilemma per il nuovo arrivato si manifesta prima in forma di dubbio: bisogna credere alle parole di una giovane madre che sostiene che la figlia bambina sia stata abusata da qualcuno all’interno dell’ambiente malavitoso in cui vive? Il parroco precedente (Roberto Del Gaudio) sostiene che si tratti solo dell’effetto di psicofarmaci, di cui la donna è notoria consumatrice; ma di fronte alle prove mediche del misfatto la rabbia del protagonista diventa irrefrenabile: i flebili segnali d’irritazione verso il silenzioso patto di convivenza tra il boss e il vecchio parroco, diventano contrapposizione aperta, minacce e aggressioni subite, fino a innescare cortocircuiti tragici e irreparabili. L’equilibrio è un film senza fronzoli (seppure con un protagonista a tratti ingombrante), che precipita a ritmo incalzante verso il punto di rottura, un meccanismo così controllato da consegnare anche la sconfitta, l’obbligata rinuncia finale, a un destino di ineluttabile impotenza.

L’intrusa ha diverse protagoniste femminili, in particolare Giovanna e Maria, che costituiscono i due poli intorno a cui ruota il dilemma dell’accoglienza. La prima è una donna matura che gestisce un centro educativo per bambini in una periferia non meglio identificata, a metà tra urbana e rurale; l’altra è la giovane moglie di un camorrista omicida, che dopo l’arresto del marito si rifugia con i due figli piccoli in una casupola dell’antica masseria dove ha sede il centro di Giovanna, diventando con il passare del tempo una presenza scomoda, al punto da provocare la rottura, uno dopo l’altro, di tutti i legami e le relazioni su cui si basa la vita del centro stesso – quelli con la scuola, con i genitori dei bambini, ma anche all’interno della stessa équipe di lavoro. Anche qui la coltre di pregiudizi e intolleranze ha ragioni non sempre infondate, aggiungendo altri nodi al groviglio principale, che di fatto Giovanna non sarà capace di sciogliere ma cui opporrà una sorta di resistenza passiva finché non sarà la stessa Maria a risolvere la questione, sparendo dalla circolazione da un giorno all’altro insieme alla prole.

Rispetto a Marra, Di Costanzo si concede un procedere meno serrato, lasciando spazio, attraverso il montaggio, all’incertezza degli sguardi, all’esitazione dei gesti. In questo lo aiuta la scelta di protagoniste non così note (Giovanna è Raffaella Giordano, danzatrice e coreografa al suo debutto al cinema; Maria è la giovane Valentina Vannino), ma anche le tante scene corali, la quasi-unità di luogo, il tocco immaginifico dei disegni di Gabriella Giandelli che affrescano alcune pareti della masseria Morabito a Ponticelli. Anche ne L’intrusa, però, le tensioni si accumulano e convergono verso la resa dei conti finale, dove la posizione morale dell’individuo si oppone all’istinto di sopravvivenza della comunità. Un po’ a sorpresa, dopo tanto arrovellarsi, e sostanzialmente resistere alle pressioni esterne, la scelta decisiva non la farà Giovanna ma la giovane madre, l’anello più debole, in uno scioglimento finale forse più brusco che inatteso.

È certo interessante interrogarsi sull’attualità, più che sulla verosimiglianza, delle figure scelte dai registi per incarnare la propria visione. Preti di periferia, preti eroi, si alternano nelle cronache quotidiane a preti canaglie, a preti istrioni, lasciando nell’anonimato la massa variegata che interpreta il proprio ruolo forse con meno baldanza ma anche con meno narcisismo. Allo stesso modo salgono periodicamente alla ribalta le figure laiche dell’accoglienza, anche qui in un ampio spettro che va dal Salvatore Buzzi di Mafia Capitale fino ai Gino Strada e simili, testimoni di una sinistra sociale ormai senza più referenti politici in parlamento.

Ma nonostante le ambientazioni, i tanti riferimenti non casuali alle piaghe dei nostri tempi, entrambi i film sembrano più impegnati a costruire una forma archetipica all’interno della quale scandagliare la dinamica delle relazioni, i meccanismi di potere, le contraddizioni e le tare nascoste che minano alla base anche le esperienze all’apparenza più nobili. Da una parte l’individuo che reclama giustizia, pietà, comprensione per ogni singolo essere umano, dall’altra l’istituzione che non può derogare ai propri principi se non vuole abdicare alle ragioni stesse della propria esistenza. Le posizioni si cristallizzano, si irrigidiscono sempre più, e un margine di compromesso appare introvabile.

Lo stesso Di Costanzo aveva mostrato gli effetti collaterali dell’intransigenza istituzionale in ambienti socialmente fragili e sovraccarichi di contraddizioni. A scuola, un documentario del 2003, girato in un istituto scolastico alla periferia di Napoli, nasceva come apologia di una preside “di polso” ma quel che mostrava, oltre al non-senso dei metodi educativi, era l’esclusione di tanti alunni che non riuscivano o non potevano uniformarsi a quel regime scolastico – e quindi in ultima analisi il fallimento di quest’ultimo.

Ne L’equilibrio Marra ambienta il passaggio di consegne tra i due preti in una scuola elementare. A tenere discorsi edificanti ai bambini, su un palco sopraelevato, stanno il carabiniere, il prete, la maestra e il preside, i rappresentanti delle istituzioni che si candidano a tenerli sotto tutela per il resto della loro vita. Manca il boss del quartiere, che nel resto del film scopriremo essere il convitato di pietra ai piedi di quel palco. Ma anche l’ambiente della masseria di Giovanna, all’apparenza più libero e autogovernato, si chiuderà a riccio di fronte all’estranea, elemento perturbante di un ordine faticosamente conquistato.

Non solo la scuola o la chiesa, insomma, ma qualsiasi istituzione o corpo sociale, più o meno formalizzati nel tempo, generano un istinto di autodifesa che trascende i destini individuali, rivoltandosi ancor più duramente contro chi prova a riformarli, a metterli in discussione dall’interno. Che si tratti di preti o di educatori laici, che i registi l’abbiano voluto o meno, è inevitabile riandare con la mente al fallimento del “sociale” di questi ultimi trent’anni, solo impegnato ad autorigenerarsi, a conquistare maggior potere o semplicemente a non soccombere nell’arena del mercato; un sociale non più rivolto verso “l’altro” ma dedito a costruire un equilibrio autoreferenziale proficuo solo per se stesso, che anche quando contempla le battaglie giuste, lo fa in una cornice d’ipocrisia e riserva mentale che ne inficia qualsiasi efficacia e credibilità. Un fallimento in cui l’austerity e i tagli alla spesa pubblica c’entrano ben poco.

Quel sociale che il personaggio di Giovanna – nella scena in cui cerca di convincere gli insegnanti a non abbandonarla – definisce un’oasi nelle vite difficili dei bambini, è solo un’illusione ottica, una bolla che la pressione esterna farà scoppiare. O nel migliore dei casi un sistema di conservazione dell’esistente – ma l’esistente nella periferia napoletana è quel che mostrano Marra e Di Costanzo. Non è un caso che entrambi i film si chiudano con il ripristino della situazione di partenza – una situazione di quiete (e di festa, ne L’intrusa) che ormai sappiamo essere posticcia. (luca rossomando)

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