Lento, flemmatico, attento a non mettere una zampa in fallo, un grosso tacchino si aggira circospetto sul fango rappreso che ricopre Contrada Pantano, l’area agricola in prossimità del fiume Calore, situata nel punto più basso della conca in cui sorge Benevento. È in questa parte di città, nella notte tra il 14 e il 15 ottobre scorso, che l’alluvione ha lasciato il segno. Centosessanta millimetri d’acqua in poche ore, molti di più di quanti ne dovrebbero cadere in un mese. Il livello del Calore, ingrossato dai suoi affluenti, è salito in breve tempo di due metri, inondando case, fabbriche, infrastrutture. Non è stato il cataclisma che ha colpito i paesi nella zona del Fortore, ancora oggi difficilmente raggiungibili, ma a Benevento, in posti come Pantano, Ponticelli o nell’area industriale di Ponte Valentino, le conseguenze di quella notte si faranno sentire a lungo per chi ha avuto la casa allagata o l’attività produttiva distrutta.
Venti giorni dopo, per chi arriva dalla parte alta della città, lo spavento sembra essere passato in fretta. L’unico indizio dissonante, scendendo verso i quartieri bassi, è quell’alone marroncino che lambisce il primo piano degli edifici, una linea che appare e scompare, a volte ben al di sopra delle saracinesche, così dritta e continua da sembrare tracciata a mano. Per chi non c’era, basta a farsi un’idea del livello raggiunto dal fango. Però le strade sono sgombre, solo qualche mucchio di detriti qua e là, e in un baleno si raggiunge Contrada Pantano. Superato lo spiazzo dell’isola ecologica, punto di raccolta dei volontari nei giorni successivi al disastro, comincia un dedalo di stradine, delimitate da muretti e recinzioni, oppure semplicemente dai terreni, che oggi appaiono celati, ricoperti da uno spesso strato di colore marrone, quasi viola scuro.
La maggior parte degli agricoltori di Pantano ha registrato perdite consistenti. Il raccolto di un anno è stato sommerso o strappato alla terra: danni per venti, trenta, quarantamila euro. All’esterno delle abitazioni più colpite si accumula materiale di ogni genere: automobili danneggiate, materassi, elettrodomestici, mobili, biciclette piegate a metà, e poi vasi. Vasi neri un po’ ovunque, ricoperti per metà o quasi del tutto dalla distesa di fango essiccato. Sono i vasi del Vivaio Ciampi, l’attività produttiva più grande della zona.
Non ci sono stati morti a Benevento, ma il tacchino che osserva a debita distanza il crocicchio di umani fermo a discutere sulla soglia del vivaio, possiamo considerarlo un sopravvissuto. Gli animali della contrada – maiali, conigli, polli, animali domestici –, sono stati travolti, decimati dall’inondazione. C’è chi racconta di un’intera mandria di vacche immobilizzate nel fango, condannate a morire lentamente sotto lo sguardo impotente del padrone.
Qui, nel corso degli anni, a punteggiare i campi di tabacco, cereali e foraggio, sono state edificate case e villette, evidentemente senza alcun piano. Lo stesso vivaio era in origine un terreno coltivato a tabacco. Il titolare, Angelo Masotti, ha cambiato la destinazione d’uso negli anni Novanta per fare spazio alla nuova attività. Ci ruotano intorno tre dipendenti e tutti i componenti della sua famiglia – Masotti ha cinque figli, alcuni dei quali vivono nella casa che si intravede alle spalle del vivaio. Il fango ha spazzato via tutto: gli alberelli più giovani, sradicati e proiettati in un raggio di centinaia di metri; gli abeti già pronti per il Natale, tutti piegati da un lato e ormai invendibili; le centine di metallo delle serre, che, rattrappite, incrinate, giacciono in un canto come cosa inutile. «Il trattore è uno dei pochi beni che ci resta – racconta Masotti, indicando la macchina guidata dal figlio che raccoglie il materiale ancora sparso per le terre –. Ho rischiato la vita per salvarlo, l’acqua mi era arrivata fin sopra al ginocchio».
Alto, robusto, carnagione bronzea che risalta sulla camicia bianca sporca di fango, Masotti si è rivolto a un perito, che ha quantificato in circa due milioni il danno subito dall’azienda. «Per rimettermi in sesto ci vorranno almeno sei mesi, poi bisognerà dare agli alberi il tempo di crescere; per gli abeti, per esempio, ci vorranno cinque anni prima di poterli mettere in commercio».
Come tutti, Masotti prova a tracciare la linea di confine tra il disastro naturale e la responsabilità umana. Racconta la dinamica dell’inondazione, come l’ha percepita lui alle cinque di mattina, dalla sua casa a poche decine di metri dal fiume: le acque ingrossate che finiscono contro un muro di alberi e detriti e rimbalzano fuori dal letto del fiume, oltrepassano il passaggio a livello del treno, riempiono le strade strette, il canale di scolo, entrano nelle case. «Ho cinquantotto anni – dice –. Ho sempre vissuto qui. Ne ho viste di piogge, e pure di alluvioni. Nel ’72 l’acqua arrivò sulla porta di casa, ma stavolta è entrata fino a dentro, ha allagato tutto per più di mezzo metro. In passato ho fatto molte denunce sulle condizioni del fiume. Ci sono centinaia di alberi e piante cresciuti spontaneamente, ma il comune non fa manutenzione. Quando chiamai una ditta privata, si opposero perché temevano che si sarebbero rubati la sabbia dai fondali. Altre denunce si fecero quando fu ripulito il parco Cellarulo, che sta più a monte. I rifiuti e i detriti che erano lì dentro sono stati gettati nel fiume».
Non tutte le case di Pantano sono state investite dal fango. C’è una villetta che spicca sulle altre per le facciate dai colori sgargianti. È rimasta indenne perché costruita su una collinetta artificiale. Anche la casa della studentessa Daniela Pastore, grazie a una posizione leggermente rialzata, è stata solo lambita dalle acque. Daniela racconta di essere rientrata la sera prima verso mezzanotte. Sulla strada di casa, la pioggia fortissima l’ha costretta a fermare la macchina per qualche minuto. «Non si vedeva più niente, era impossibile proseguire», racconta. Una volta raggiunta l’abitazione si è addormentata senza timori. La mattina dopo, affacciandosi al balcone, ha visto i vicini arrampicati sui tetti. In basso, altre persone venivano messe in salvo dai gommoni. Qualche ora dopo si è fatta portare da un’amica degli stivaloni di gomma – «In città erano diventati una merce preziosa in quei giorni» – e si è messa a spalare fango intorno alle case dei vicini.
«Sono arrivati in tanti ad aiutarci – racconta Daniela –, semplici cittadini, i ragazzi del centro sociale, anche un gruppetto di ultras. I più attivi sono stati i volontari della Caritas, che hanno cercato di organizzare le operazioni». Lo stesso Masotti, il vivaista, racconta di volontari provenienti addirittura da Napoli, e un po’ tutti concordano sul ruolo della Caritas di don Nicola De Blasio, che tra l’altro ha messo a disposizione una centro diocesano come ricovero notturno per gli sfollati. Solo tre o quattro giorni dopo l’alluvione sono arrivati a Pantano gli uomini della Protezione civile, mentre quelli dell’esercito da queste parti non si sono visti.
«Contrada Pantano non è un posto dove vai abitualmente se non ci abiti – racconta Carmine Pace, attivista del centro sociale Depistaggio –. C’è una pizzeria abbastanza frequentata, che ora è stata quasi distrutta, e con il bel tempo si può andare sulla pista ciclabile che passa lì intorno. In quei giorni molte persone sono venute per dare una mano e hanno scoperto quel posto». Anche Carmine parla dell’assenza di qualsiasi aiuto istituzionale nel corso delle operazioni di pulizia. «L’esercito presidiava il piazzale della Prefettura», dice con un sorriso amaro.
Le storie raccolte tra la gente che era a Pantano in quei giorni hanno in comune una punta di orgoglio per aver fatto quasi tutto da soli. È difficile trovare traccia, invece, delle lamentazioni di cui parla il primo ministro annunciando un prossimo stanziamento di fondi. Aleggia, piuttosto, un sentimento di attesa. La dichiarazione dello stato d’emergenza, in fondo, riguarda non solo le persone più colpite ma l’intera città. Un gruppo di geologi dell’Università del Sannio ha elaborato i dati del satellite, sostenendo che “una buona parte dei danni, soprattutto negli ambiti urbani e negli insediamenti industriali, sono stati amplificati in modo determinante da un inadeguato utilizzo del territorio e da una urbanizzazione che in molte aree non ha tenuto in considerazione le peculiari caratteristiche di fragilità”. Che cosa ne faranno dei soldi in arrivo, sapranno gestirli per riparare i danni ma anche per prevenire il prossimo disastro, per mettere in sicurezza il territorio? C’è chi nomina le vicende del dopo-terremoto napoletano con un filo di preoccupazione. Benevento attende, ma non si lamenta. (riccardo rosa / luca rossomando)
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