Intorno al luogo dove quarant’anni fa è stato ucciso Pasolini aleggia ancora la sua aura protettiva: ma non certo nelle celebrazioni istituzionali, né nel parco che porta il suo nome. Pasolini a Roma è ormai uno strumento per il lavaggio di coscienza dei benpensanti – la sua foto nel bar dove girò Accattone, ora occupato dalla nuova “classe creativa” che ha scalzato gli abitanti del Pigneto, è la tipica beffa istituzionale che accompagna la gentrificazione. Viene voglia di non nominarlo più, di non citarlo più, di non pensarci se non nel profondo e nel privato. Eppure, basta fare due passi oltre le zone designate, per ritrovarlo invisibile nelle strade e nelle piazze di Roma: i luoghi non sono più gli stessi, ma i corpi sì. Trapiantati lontani dalle loro antiche borgate, privati del tessuto connettivo che dava profondità alle loro risate e alle loro battute, eppure meno omologati di quanto avrebbe immaginato lui, gli abitanti del sottobosco di Roma, gli “ultimi”, come si definiscono loro stessi, sono ancora lì.
All’Idroscalo di Ostia, a pochi passi dal luogo del suo omicidio, resiste ancora una borgata spontanea. Un quartiere auto-costruito in cui vivono cinquecento famiglie, proprio sulla foce del Tevere; sorto nel dopoguerra e cresciuto con le ondate di immigrazione e di espulsioni dalla città, è stato tollerato per decenni dal demanio e dal comune, che hanno mantenuto gli abitanti nell’illusione di una regolarizzazione. Ma proprio grazie a questa segregazione, all’Idroscalo si vede ancora Roma, quella che Pasolini ricordava dietro alle strade, alle piazze e ai corpi omologati dal consumismo (si veda l’articolo di Wu Ming 1). Una donna dell’Idroscalo mi ha mandato questa frase (chissà da dove viene, ma per lei è chiaro che Pasolini l’ha scritta per loro): “Dietro la massa della case si allunga la spiaggia, un arco che pare senza fine, da una parte all’altra dell’orizzonte incendiato dal sole che lo scolpisce nell’aria con i suoi colori liquefatti. Il grigio della sabbia, i sassi della scogliera, le cento tinte delle vernici delle case, gli intonaci dei muretti, tutto è ammassato nel sole in una immobilità irreale. Ma in questa immobilità dovuta alla lontananza dal mondo si sente straripare la felicità”.
Nel 2001 quest’ultimo “borghetto” di Roma ha subito la prima recinzione: per la costruzione del porto turistico è stato costruito un muro che ha chiuso l’orizzonte del quartiere, cementificando un chilometro di spiagge libere, quelle che si vedono in Caro Diario. L’intera foce è diventata ancora più marginale di quanto già non l’avesse resa la geografia: gli ampi spazi che sorreggevano la sua “felicità” sono stati in gran parte privatizzati. Già ferito, l’Idroscalo ha ricevuto il colpo di grazia nove anni dopo, quando il sindaco Gianni Alemanno ne ordinò l’invasione da parte di oltre mille poliziotti: centinaia di celerini, arrivati apposta da fuori Roma, si riversarono armati nel quartiere, terrorizzando la popolazione e aprendo la strada alle ruspe che demolirono trentacinque case. Gli abitanti – che non erano stati avvisati – furono trasportati in “residence” a decine di chilometri di distanza, palazzi invenduti in estrema periferia, di proprietà di speculatori immobiliari, che il comune affitta a prezzi esorbitanti, ancora adesso, a cinque anni di distanza.
Tutta la rabbia per la violenza subita però non oscura la lucidità dei più attivi, che ogni anno celebrano a modo loro la morte di Pasolini, e che la settimana scorsa hanno fatto girare un comunicato. “Nel nostro territorio – vi si legge – arrivano gli ultimi degli ultimi, quelli che nessuno vuole, tranne che per i lavori più umilianti, sottopagati e senza diritti, che noi, italiani dell’Idroscalo (pare che specificare la nazionalità faccia la differenza in questo Paese), accogliamo senza problemi, senza chiedere il passaporto, cercando di sopperire all’assenza dello Stato, attraverso anche l’aiuto della Caritas. Nemmeno gli animali del più infimo circo sarebbero trattati con così grande disprezzo”.
È un anno che lavoro nel quartiere, intervistando gli abitanti e partecipando alle riunioni. Il testo è firmato da Francesca Bianchi, della Comunità Foce del Tevere, una delle donne che mi hanno aiutato di più nella mia ricerca, che con enorme disponibilità e pazienza ha cercato di spiegarmi chi sono le persone che vivono lì, che storie hanno, che idee hanno per questo posto. “Nonostante il cambio di giunta e il commissariamento del Municipio – continua il comunicato – i progetti per il nostro quartiere sono gli stessi della giunta Alemanno: continuare a riunirsi a porte chiuse con finti ‘esperti’ che non conoscono il territorio, e programmare sgomberi arbitrari e trasferimenti che distruggono la nostra comunità, perché di questo stiamo parlando, di una comunità. Da anni stiamo lavorando su un’alternativa: abbiamo presentato un progetto di riqualificazione, integrato con l’ambiente e con il tessuto urbano, e da anni collaboriamo con tutte le forze sane e impegnate di questa città, compresa l’Università di Roma, per documentare in primo luogo la volontà degli abitanti di rimanere nel quartiere e in secondo luogo la fattibilità tecnica di un progetto alternativo alla demolizione”.
Così, proprio l’anno in cui Ostia è salita agli onori delle cronache come il quartiere ufficialmente “mafioso” di Roma, mi sono ritrovato a conoscere decine di famiglie della parte più periferica del suo territorio. Le loro case sono definite “baracche” dai giornali, il quartiere un “villaggio abusivo”. Ostia fa da capro espiatorio per salvare Roma dalla corruzione delle amministrazioni, e Idroscalo esorcizza l’abusivismo generalizzato di tutto il territorio. Nel quartiere queste due polarità sono palpabili, come il fiume e il mare che lo delimitano: da una parte la vitalità (disperata?) che li radica su questo lembo di terra, che dà loro la forza per negoziare con le istituzioni e per contenere le tensioni tra i gruppi. Dall’altra istituzioni e giornali che ignorano le richieste degli abitanti, ma che sono pronti a inondarli di parole umilianti, ricordando sempre che sono “fuori posto”, e che sul loro territorio ci sono ben altri progetti.
“Il degrado dell’Idroscalo” è invocato dalla stampa allineata alle posizioni del partito al governo; le difficoltà che gli abitanti affrontano da decenni per ottenere i servizi di urbanizzazione di base – autobus decenti, strade asfaltate, allaccio alla rete idrica, rinforzo dell’argine del Tevere – diventano un segno della loro colpa. L’appello all’abusivismo è ridicolo, quando il vicino quartiere di Nuova Ostia, gestito dal comune, è sorto interamente fuori piano, in una zona inondabile proprio come l’Idroscalo.
Le ragioni dietro agli sgomberi e al progetto di demolizione non sono certo queste, né la presunta criminalità degli abitanti: per quanto ogni tanto i giornali descrivano il “racket” degli affitti abusivi delle baracche, difficilmente questi piccoli abusi oscurano il fatto che a pochi passi, la discendente del palazzinaro Armellini possiede milleduecento appartamenti, alcuni in affitto al comune, su cui non paga le tasse da dieci anni. Le ragioni sono ben altre, come spiega il comunicato: “Per le amministrazioni siamo un impiccio per gli affari del Porto Turistico, il cui patron è stato arrestato, ma il cui progetto di espansione sul nostro quartiere è tuttora il piano urbanistico vigente per la Foce del Tevere. Come se in questo momento storico Ostia abbia bisogno di altre costruzioni e demolizioni, pane per i denti delle mafie e dei corrotti”.
Il presidente Pd del municipio di Ostia, si è dimesso quando è stato provato che stava intercedendo sottobanco con il sindaco per sbloccare il “raddoppio” del Porto Turistico, maxi progetto appoggiato da (quasi) tutti i partiti che richiede la demolizione dell’Idroscalo. Le intercettazioni di Mafia Capitale hanno portato alla luce la trama, e in galera il corrotto, ma non certo alla sospensione del progetto urbanistico. Così a ogni nuova nomina di assessore, prefetto, commissario, gli abitanti sentono il fiato sul collo: ogni dichiarazione, ogni intervento pubblico, potrebbe essere un indizio per capire quale sarà il loro futuro.
È lo stesso disprezzo che i politici democristiani manifestavano per gli abitanti delle periferie negli anni Sessanta, e che gli scrittori dell’epoca di Pasolini cercavano di contrastare, spesso disperatamente. Oggi però, chi cova quello stesso odio, ha sicuramente tutti i suoi libri sugli scaffali; e magari il 2 novembre andrà ad applaudire alla celebrazione della sua morte. Sicuramente, per loro, è meglio morto che vivo. (stefano portelli)
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